La nuova Bussola Quotidiana, 23 settembre 2015
di Gianandrea Gaiani
Il tema è di attualità da molti anni, ma la “pseudo guerra” allo Stato Islamico lo ha riportato drammaticamente alla ribalta. L’Occidente non è più in grado di combattere. All’umiliazione di non aver avuto la capacità di fermare l’Isis sul terreno e di non essere riusciti a farlo con il debole sforzo aereo della Coalizione, si aggiunge per l’Occidente anche lo smacco inflittoci da Mosca che in questi giorni ha inviato in Siria almeno 1.500 militari con reparti di fanti di Marina già segnalati in azione, loro sì “boots on the ground”, contro l’Isis
La settimana scorsa il Capo di Stato Maggiore della Difesa del Regno Unito, generale sir John Nicholas Reynolds Houghton, in un intervento al think tank Chatam House di Londra, ha espresso seria preoccupazione per i vincoli sempre più stretti al ricorso alla forza militare. La mancanza di sostegno dell’opinione pubblica e del Parlamento, a suo parere, potrebbero compromettere la capacità dissuasiva della Gran Bretagna contro eventuali nemici.
Houghton ha individuato le radici dell’attuale riluttanza all’uso delle armi, diffusa in tutti i Paesi occidentali, nel coinvolgimento britannico nella guerra in Iraq del 2003, ma le divisioni sociali e politiche sorte intorno a quel conflitto guidato dall’asse Bush-Blair costituiscono probabilmente solo un alibi. O forse hanno determinato l’accelerazione di un processo già in atto da tempo e rafforzatosi negli anni ’90 quando i successi conseguiti dalla Nato con le operazioni esclusivamente di guerra aerea nei Balcani (Bosnia 1995 e Kosovo 1999, entrambe contro la piccola Serbia) illusero l’Occidente che si potesse combattere e vincere senza sporcarsi di fango e soprattutto senza (o quasi) bare di propri caduti avvolte dalla bandiera.
I conflitti anti-insurrezionali del decennio successivo hanno mostrato tutti i limiti di tenuta di un Occidente incapace di sostenere nel tempo guerre di stabilizzazione con un numero limitato di caduti, per molti versi simili a quelle combattute nell’era coloniale. Il caso di Iraq e Afghanistan è emblematico. Nei due conflitti in 15 anni sono morti poco più di 8.300 militari (4.811 in Iraq e 3.493 in Afghanistan) di un Occidente che ne schiera quasi 4 milioni. Il numero include i morti per incidenti non legati al fuoco nemico (almeno il 20% del totale) e ovviamente le perdite più forti sono state sostenute da statunitensi (6.760 circa) e britannici (632). Perdite più che sopportabili in termini militari, ma inaccettabili da un’opinione pubblica e da una politica ormai dissociate dalla realtà, quella globale non quella del nostro giardino di casa. Perdite e costi finanziari hanno determinato l’esigenza politica di attuare ritiri dai fronti bellici rapidi quanto raffazzonati, imposti da ragioni di consenso interno non da condizioni strategiche e che per questo si sono rivelati fallimentari e causa di futuri conflitti.
A togliere popolarità alla guerra hanno in seguito contribuito autogol bellici come quello in Libia del 2011, ma resta il dato di fatto che governi e Parlamenti sono oggi riluttanti ad autorizzare azioni belliche mal viste dall’opinione pubblica per le loro implicazioni in termini di costi e perdite. I vincoli opposti all’impiego della forza militare – ha avvertito il generale Houghton nella sua conferenza – «sono particolarmente significativi quando (…) riguarda il sostegno a operazioni da cui potrebbero dipendere interessi nazionali vitali». Di fatto, il generale valuta che con l’attuale atteggiamento politico e sociale potrebbe risultare impossibile difendere gli interessi nazionali o persino la Nazione. A oggi – ha aggiunto Houghton – le minacce affrontate dal Regno Unito e dall’Occidente «non riguardano la nostra sopravvivenza in senso fisico, ma sono esistenziali per il nostro stile di vita, la nostra prosperità, i nostri valori nazionali, le nostre libertà individuali e il senso del ruolo della nostra nazione nel mondo».
Il tema è molto sentito in Gran Bretagna specie tra i militari, come confermano anche le notizie delle aspre critiche espresse da un generale della British Army non meglio precisato nei confronti del novo leader laburista, il “comunista” Jeremy Corbyn. Un uomo che secondo le dichiarazioni del misterioso generale riportate da The Independent sarebbe «da fermare ad ogni costo con mezzi leciti o illeciti», se mai dovesse avvicinarsi davvero alla guida del governo. Corbyn è noto per le posizioni pacifiste e anti-Nato, l’opposizione agli interventi militari e il progetto di ridurre al lumicino le forze armate, ma frasi dal vago sapore “golpista” sono inaudite per la democrazia britannica e sono subito state condannate dal ministero della Difesa e dal governo conservatore di David Cameron.
Se a Londra le condizioni dello spirito combattivo sono gravi, altrove in Europa sono gravissime e del resto ormai quasi nessuno in Occidente effettua più missioni di combattimento terrestre ma solo di “pace” e addestramento di forze locali. In Italia, poi, siamo al paradosso di essere l’unico Stato della Coalizione contro l’Isis che impiega i suoi bombardieri disarmati, solo come ricognitori. Da noi, anche a causa dei tagli ai bilanci della Difesa, moltissimi reggimenti di fanteria non effettuano da anni addestramento notturno, simulazioni a fuoco o atti tattici. Né questo sembra preoccupare i vertici militari che non emettono un lamento col governo neppure quando ormai da anni mancano i soldi per addestrare i soldati alla guerra. In Italia l’impiego delle Forze Armate è ormai relegato a compiti (peraltro ben pubblicizzati) di supplenza a vigili urbani, poliziotti, netturbini e operatori umanitari. Le navi da guerra raccolgono africani da sbarcare in Italia, gli aerei da guerra fanno solo fotografie ai terroristi e i reparti dell’esercito pattugliano le strade italiane, ma su richiesta sgombrano anche i rifiuti e la neve.
Del resto il paradosso più eclatante è rappresentato in tutta Europa dall’emergenza determinata dagli immigrati clandestini. Né la Ue né i singoli Stati sembrano in grado di far rispettare la norma universale che vieta di attraversare illegalmente una frontiera. Così ci sono Paesi che impiegano le Forze Armate per aiutare i clandestini a sbarcare e andare altrove e altri che le mobilitano per non farli passare. Krzysztof Kubiak, docente e analista di questione strategiche per l’università di Cracovia e per la Difesa polacca attribuisce la riluttanza a combattere dell’Occidente alla cosiddetta Rivoluzione negli Affari Militari che dagli Anni ’80 pose l’accento su una sofisticazione degli strumenti tecnologici molto spinta.
«I capi militari e i pianificatori hanno reso assoluto l’aspetto tecnico e tecnologico della condotta della guerra, riducendo le riflessioni tattiche e operative fino a una particolare atrofia del classico “pensiero tattico” o, come si può anche chiamare, “dell’istinto del guerriero”» ha scritto Kubiak in un articolo apparso sul sito Analisi Difesa. I timori di Kubiak non sono molto diversi da quelli del generale Houghton: «non si può escludere una situazione in cui, a dispetto del possesso di strumenti militari potenzialmente in grado di risolvere una crisi, la Nato possa rimanere passiva per via d’una mancanza d’accettazione sociale dell’intervento da parte dei più grandi e potenti Stati membri dell’organizzazione».
Al di là degli aspetti militari e del fatto che i soldati occidentali sono diventati meno “guerrieri” e più“tecnici specializzati”, la riluttanza a combattere è anche e soprattutto un fattore culturale. Negli ultimi decenni si sono affermati principi assurdi quale quello della “risposta proporzionata” al fuoco nemico che è un insulto al buon senso e all’obiettivo che ogni soldato dovrebbe venire addestrato a perseguire: la vittoria. Il paradosso è che ci siamo dotati di strumenti militari devastanti ad alta tecnologia, ma ci siamo dati limiti e norme che hanno di fatto impedito alle Forze Armate occidentali di dispiegarli. Oggi un comandante di compagnia prima di ordinare ai suoi uomini di aprire il fuoco deve consultarsi con almeno un paio di consiglieri giuridici offrendo un vantaggio ineguagliabile al nemico che infatti è ormai ben consapevole della nostra vulnerabilità
La riluttanza sociale dell’Occidente a combattere trae però le sue origini dallo stadio finale di un processo politico e culturale da 40 anni mina le basi che da sempre hanno caratterizzato popoli e società quali l’appartenenza, i caratteri etnici, religiosi, linguistici e l’adesione a principi e stili di vita. La degenerazione del sessantottismo in pacifismo e terzomondismo, della globalizzazione in multiculturalismo che non distingue la civiltà dalla barbarie e di un europeismo tanto forte da sottrarci l’appartenenza nazionale ma troppo spietato e burocratico per darcene una continentale, hanno contribuito a farci perdere la consapevolezza della nostra identità e il concetto di Patria. Non sappiamo più chi o cosa siamo e, di conseguenza, neppure per cosa combattere.