Da La Nuova bussola quotidiana
15 Aprile 2019
All’indomani dell’incontro in Santa Marta tra il presidente sud sudanese Salva Kiir e l’ex vicepresidente Rick Machar, è opportuno rievocare che cosa è successo nel Sudan del Sud negli ultimi anni. Dopo decenni di genocidio e guerra civile, ottenuta finalmente l’indipendenza da Khartoum, il paese si è diviso su cordate tribali per il potere.
di Anna Bono
Il Rapporto mondiale sulla felicità 2019, pubblicato dal Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite, comprende come in tutte le precedenti edizioni un Indice della felicità che quest’anno vede all’ultimo posto il Sudan del Sud, preceduto dalla Repubblica Centrafricana. Di tutti gli Indici compilati ogni anno – di sviluppo umano, corruzione, fragilità, persecuzione religiosa, democrazia … – quello della felicità è il meno convincente, anche se i ricercatori incaricati del calcolo e della classifica sostengono l’esistenza di una “scienza della felicità” e di indicatori che consentono di effettuare misurazioni affidabili.
Tuttavia che gli abitanti del Sudan del Sud possano essere tra i più infelici del pianeta è del tutto plausibile. Le loro condizioni di vita sono disperate e le sofferenze che ne derivano sono accresciute dal fatto che otto anni fa il paese ha vissuto un breve, straordinario momento di speranza e fiducia.
All’indomani dell’incontro in Santa Marta il 10 e 11 aprile tra il presidente sud sudanese Salva Kiir e l’ex vicepresidente Rick Machar, organizzato dalla Segreteria di stato della Santa Sede e dall’Ufficio dell’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, è opportuno rievocare che cosa è successo nel Sudan del Sud negli ultimi anni, di che colpe si sono macchiati Kiir e Machar per irresponsabile, criminale avidità di potere e ricchezza.
All’inizio del 2011 quasi all’unanimità gli abitanti dell’attuale Sudan del Sud avevano espresso con un referendum la volontà di staccarsi dal Sudan di cui costituivano i territori meridionali. Con la secessione finiva un incubo durato decenni, fin dall’indipendenza del Sudan dalla Gran Bretagna, ottenuta nel 1956, che aveva consegnato il governo del paese alle popolazioni arabo islamiche del nord, a scapito di quelle cristiane e animiste di origine africana del sud, marginalizzate, discriminate e, soprattutto a partire dagli anni 80 del secolo scorso dopo il colpo di stato che ha portato al potere Omar al-Bashir, perseguitate crudelmente.
Nel 2005 l’accordo globale di pace tra il governo sudanese e l’Spla, l’Esercito di liberazione del popolo del Sudan che per oltre 20 anni ha combattuto il regime di Khartum, ha decretato la fine dei combattimenti e ha consentito di avviare il processo che il 9 luglio del 2011 si è concluso con la nascita del Sudan del Sud, la nazione più giovane del pianeta.
Il paese era in macerie, la popolazione superstite esausta, i terribili anni di guerra e persecuzione avevano provocato quasi due milioni di morti e circa quattro milioni di profughi, sfollati e rifugiati. Ma con l’indipendenza aveva acquisito i tre quarti dei giacimenti di petrolio del Sudan e gli impianti di estrazione già funzionanti. Inoltre poteva contare su illimitati crediti internazionali per la ricostruzione, sull’assistenza di tutte le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite e di centinaia di organizzazioni non governative.
Dalla sua aveva poi il fatto di essere una nazione giovane anche per composizione della popolazione: il 46% dei 12 milioni di abitanti era di età compresa tra 0 e 14 anni, bambini che potevano essere la futura ricchezza del paese se cresciuti sani e istruiti, e il 50% era di età tra 15 e 65 anni. Per trasformare in pochi anni il Sudan del Sud in un paese in pieno sviluppo bastava solo evitare due tentazioni fatali: la corruzione sfrenata, male endemico in Africa, che trasforma le risorse nazionali in bottino, e il tribalismo che induce etnie, clan, lignaggi a lottare per aggiudicarselo, il mezzo ideale essendo far man bassa di cariche politiche e amministrative a ogni livello dell’apparato statale.
I sud sudanesi non sono stati capaci di liberarsi da corruzione e tribalismo. Malgoverno e livelli di corruzione insostenibili hanno fin dall’inizio sprecato gran parte delle risorse che avrebbero dovuto essere utilizzate nella realizzazione delle infrastrutture e dei servizi di cui il paese era quasi del tutto sprovvisto. Quanto al fattore tribale, a far man bassa di cariche governative e amministrative è stata l’etnia più numerosa, quella dei Dinka, che hanno ottenuto anche la presidenza, affidata a Salva Kiir.
“Se le altre etnie saranno escluse o mal rappresentate, non staranno a guardare – aveva detto alla vigilia dell’indipendenza monsignor Cesare Mazzolari, allora vescovo di Rumbek – e, invece, gli stessi clan Dinka già si stanno disputando ferocemente le cariche”.
L’etnia meno disposta a “stare a guardare” era quella Nuer, seconda per importanza. Alcuni ministeri e la carica di vicepresidente assegnata al suo leader, Riek Machar, non sono bastati ad appagarne le aspettative. Le tensioni tra Dinka e Nuer, a fronte di un ulteriore, progressivo accentramento del potere nelle mani dei Dinka, sono andate crescendo fino al punto di rottura raggiunto nell’estate del 2013 quando Machar ha annunciato di volersi candidare alle successive elezioni presidenziali, in agenda nel 2015.
Il presidente Salva Kiir ha reagito togliendogli subito la carica di vicepresidente e accusandolo di aver tentato un colpo di stato. La situazione è poi rapidamente precipitata, trasformandosi il 15 dicembre di quell’anno in conflitto armato, con i militari divisi e gli eserciti di alcuni movimenti ribelli schierati con gli uni o gli altri, a seconda dell’appartenenza etnica. Pochi mesi dopo lo scontro ai vertici politici si è trasformato in conflitto etnico generale con livelli di violenza, brutalità e crudeltà a detta degli osservatori terrificanti nell’infierire sulle etnie avversarie, sui bambini e sulle donne in particolare.
Tutti i tentativi di mettere d’accordo le parti sono falliti. Kiir e Machar hanno firmato diversi cessate il fuoco e impegni a dialogare, ma li hanno sempre violati ordinando alle rispettive milizie di continuare a combattere. L’ultimo accordo di pace tra i due avversari risale allo scorso settembre. Prevede la formazione il prossimo maggio di un governo che vedrà di nuovo i due leader rispettivamente nella carica di presidente e vicepresidente.
In altre parole, se l’accordo questa volta verrà attuato, i contendenti, e con loro le rispettive etnie, ristabiliranno gli equilibri di potere e forza iniziali: al costo immenso di sei anni interi perduti, devastanti per danni materiali e morali inflitti a tutto il paese, con un bilancio di 400.000 morti e oltre due milioni di profughi.