Il suicidio

 I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale

Voci per un dizionario del pensiero forte

suicidio

Lorenzo Cantoni

1. Nozione

Ogni indagine sul suicidio deve prendere le mosse dall’ormai classico testo, Il suicidio, che il sociologo francese Émile Durkheim (1858-1917) vi dedicò nel 1897; in esso ne offriva la seguente definizione: “Dicesi suicidio ogni caso di morte direttamente o indirettamente risultante da un atto positivo o negativo compiuto dalla stessa vittima pienamente consapevole di produrre questo risultato”. Alla definizione di Durkheim si possono muovere almeno tre osservazioni critiche: a. si tratta di una definizione troppo vaga: che cosa significa, infatti, una morte indirettamente risultante da un atto negativo?; b. la classe individuata dalla definizione ha un’estensione di gran lunga superiore rispetto a quella individuata dall’uso linguistico comune.

Suicidi sarebbero infatti, per esempio, quanti rifiutano di ubbidire, sotto minaccia di morte, a un ordine ingiusto, o i martiri, o coloro che si sacrificano per gli altri, o muoiono eroicamente in battaglia; c. l’insufficienza di questa definizione deriva soprattutto dal non fare riferimento alla volontarietà dell’atto. Si tratta di un’omissione consapevole, imposta dal pregiudizio positivistico secondo cui la volontà della persona non va considerata, perché intersoggettivamente non osservabile. Più adeguata appare la definizione proposta da Giuseppe Masi alla voce Suicidio dell’Enciclopedia Filosofica curata nel 1979 dal Centro di Studi Filosofici di Gallarate: “In senso stretto, è l’atto con cui un individuo procura a sé volontariamente la morte”; a questa definizione farò riferimento.

2. Aspetti del suicidio

Il suicidio può essere accostato con l’attenzione dello psicologo e dello psichiatra, che vi indagano motivazioni, itinerari esistenziali, situazioni individuali e relazionali; o con quella del sociologo, a cercare nei grandi numeri e in cospicue estensioni spazio-temporali elementi e fattori costanti, leggi e correlazioni statisticamente significative; o con quella dell’antropologo culturale, a cercare i segni di come una cultura si ponga di fronte al suicidio e ai suicidi. Può essere, ancora, accostato con la domanda del filosofo, a chiedersi quali ne siano le condizioni di possibilità. La ricerca sul suicidio si allarga inoltre, necessariamente, anche al fenomeno del tentato suicidio, che pure presenta alcune caratteristiche sue proprie, fra cui quella che a esso ricorrono più le donne che gli uomini, mentre il rapporto numerico fra suicidi di uomini e suicidi di donne è di circa 3 a 1.

Ciò che anzitutto la sociologia può dire sul rapporto suicidio-società è che la frequenza dei suicidi è positivamente correlata con la disgregazione sociale ai vari livelli: religioso, famigliare e politico. Lo scenario sociale in cui il suicidio più occupa il palcoscenico è quello della dissoluzione. Lo troveremo perciò correlato positivamente alla non appartenenza a comunità religiose, alla mancanza di un ambiente famigliare accogliente, tale da far crescere nella serenità – aiutando a superare le crisi della crescita -, alla disgregazione sociale, politica ed economica, che comportano insicurezza, mancanza di relazioni interpersonali ricche e disoccupazione.

Se la società diventa solo un insieme sconnesso di persone, il cui unico elemento socializzante viene a essere la contiguità fisica, le persone si sentono sole, isolate e spesso inutili.In un contesto simile, in una massa numerosissima di individui soli, è più facile che insorgano idee di autodistruzione: si pensi al tributo altissimo pagato dagli anziani al suicidio. Lo psichiatra austriaco Erwin Ringel ha proposto di distinguere tre livelli – meglio: tre componenti, che occorrono in misura e in rapporti diversissimi da caso a caso – del processo presuicidale: a. chiusura esistenziale; b. autoaggressività repressa; c. fantasie suicide. Conviene notare anzitutto che si tratta di un processo: non ci si trova di fronte a qualcosa di dato una volta per tutte, ma a un itinerario spesso assai lungo e tortuoso, che conosce decisioni, indecisioni e decisioni contrarie. Fino all’ultimo istante non si può parlare di un’irreversibilità della scelta suicida, così come di frequente appare una sostanziale mancanza di piena consapevolezza in chi la pone.

La chiusura esistenziale è forse l’aspetto più importante della sindrome presuicidale. Si ha quando una persona ha posto tutta la propria sicurezza esistenziale in qualcosa che è fallito, quasi a dire che ha scommesso tutto su qualcosa – o su qualcuno – che è venuto meno. A livello psicologico e psichiatrico sono state poi studiate varie condizioni predisponenti al suicidio, dalla malattia mentale a quella fisica, dalla depressione endogena alle crisi adolescenziali, dalle alterazioni psichiche dell’anziano all’alcolismo, alle varie dipendenze. Le fantasie suicide corrispondono alla progressiva familiarizzazione con la propria morte, vista in termini positivi.

A questo livello bisogna osservare che la banalizzazione della morte operata dei mass media può favorire tali fantasie: è ormai provato infatti che un’informazione enfatizzata e irresponsabile a proposito del suicidio agisce con un effetto di stimolo su quanti in qualche modo vi sono candidati: è il cosiddetto Effetto Werther. All’indagine filosofica si rivelano ulteriori aspetti del suicidio: in particolare il fatto che esso presuppone la negazione o il rifiuto della creaturalità. L’atto suicida presuppone infatti – come sue condizioni di possibilità – l’affermazione di una libertà assoluta e la negazione o il rifiuto della vita come di un compito affidato da Dio all’uomo. Tali presupposti, sia chiaro, sono assai di rado presenti alla consapevolezza di chi ricorre a tale atto; in taluni casi, peraltro, ciò avviene, come nel caso dei suicidi ispirati dall’ideologia della Rivoluzione.

3. Aspetti etici

La morte suicida mette a nudo il problema stesso del senso della vita, il problema del Senso: la vita è un dono e un compito, o un bene di consumo, da usare e da gettare a piacimento? L’uomo è l’autore e il padrone della propria vita, o si trova invece posto in essa come chi ne deve rendere conto? Percorrendo il primo corno dell’alternativa s’incontra l’atteggiamento rivoluzionario di fronte al suicidio, raramente incarnato, ma che crea un ambiente culturale e ideologico favorevole al suicidio e ad altre espressioni autolesive. S’incontra cioè il rifiuto della realtà e del suo Creatore, cui corrisponde l’esaltazione della volontà umana e, con essa, anche della “libera morte, che viene a me, perché io voglio”, secondo un’espressione di Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) in Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, del 1883-1885.

A questo punto è più agevole comprendere la valutazione etica negativa del suicidio, pur nella piena consapevolezza dell’impossibilità umana di valutare in ultima istanza la coscienza di ciascun suicida. “Pitagora afferma che, senza il volere del comandante supremo, cioè di Dio, non si deve disertare dal posto di guardia che ci è assegnato nella vita”, così riporta Marco Tullio Cicerone (106-43 a. C.) nel Cato major de senectute, il “Catone maggiore: sulla vecchiezza”; la stessa posizione sarà ripresa da Socrate (469-399 a. C.) nel Fedone platonico, e anche dalla filosofia cristiana. La profondità del suicidio messa in luce dall’analisi filosofica spiega la posizione di costante condanna da parte della Chiesa cattolica.

Il Catechismo della Chiesa Cattolica, del 1992, ai nn. 2280-2282, offre un testo paradigmatico, che riprende le principali argomentazioni etiche contro il suicidio: “Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. È lui che ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime. Siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo. “Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente. “Se è commesso con l’intenzione che serva da esempio, soprattutto per i giovani, il suicidio si carica anche della gravità dello scandalo. La cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale. “Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida”.

4. Itinerari per il ricupero

Se si ripercorre il cammino già fatto, ma con l’intenzione di trovarvi indicazioni per disegnarne uno di segno opposto, il primo livello d’intervento che viene suggerito è quello dell’integrazione sociale. Non si tratta, sia chiaro, di affermare una sorta di primato della società sulla persona, ma di ricostruire quei rapporti naturali che legano ciascuno alla famiglia, al quartiere, alla città, ai vari ambienti di lavoro, alla nazione e all’umanità.

Bisogna cioè comprendere che una crescita effettiva della persona avviene sempre nel rapporto con altre persone. La famiglia, la comunità religiosa, le comunità sociali vengono a costituire altrettanti luoghi di protezione della persona, capaci di far superare ostacoli, di sostenere nelle difficoltà, di far esprimere le proprie capacità, di far sentire utili, meglio: importanti.

Si tratta di una tappa piuttosto di prevenzione che di ricupero, anche se non solo: si pensi alla strategia comunitaria di tanti progetti terapeutici. Già s’è detto della complessità della sindrome presuicidale, ed è emerso come vi sia effettivamente spazio per un intervento efficace per allontanare dal suicidio chi a esso in qualche modo si è accostato. Se si distinguono – oltre al livello relativo a patologie ben definite, psichiatriche e non, e che già hanno terapie specifiche – tre dimensioni nella dinamica di accostamento al suicidio, un livello cognitivo, uno emotivo-affettivo e uno motivazionale, si possono indicare – in relazione a ciascuno di essi – alcuni interventi possibili.

Anzitutto: l’apertura della chiusura esistenziale può avvenire offrendo alternative esistenziali concrete: proporre attività possibili, e impieghi socialmente utili, all’anziano che si sente solo e inutile; alternative di studio o di lavoro a chi, di fronte a insuccessi in questi campi, non vede possibilità di uscita; nuove amicizie a chi – avendo puntato tutto su una – ne è rimasto deluso. A livello emotivo-affettivo gli interventi devono essere orientati a dare sicurezza alla persona, a creare un clima di accoglienza e di fiducia. Il livello motivazionale, il più profondo, è quello connesso con l’esigenza di senso costitutiva della persona umana: proprio a questa profondità si trovano le risposte ultime sul senso della vita, della sofferenza e della morte.

Per approfondire: vedi il mio Su alcune dimensioni del suicidio. Il caso dell’Emilia Romagna, in Medicina e Morale. Rivista internazionale bimestrale di bioetica, Deontologia e Morale Medica, anno XLIV, n. 6, novembre-dicembre 1994, pp. 1143-1160; sulla sociologia, Luigi Tomasi, Suicidio e società. Il fenomeno della morte volontaria nei sistemi sociali contemporanei, Franco Angeli, Milano 1989; Ermanno Pavesi, Suicidi a catena ed “effetto Werther”, in Cristianità, anno XVIII, n. 187-188, novembre-dicembre 1990, pp. 9-11; sulla psicologia, Eugenio Fizzotti e Angelo Gismondi, Il suicidio. Vuoto esistenziale e ricerca di senso, SEI, Torino 1991; E. Pavesi, Tentativi di suicidio e loro prevenzione. La sindrome presuicida e la sua evoluzione, in Renovatio. Rivista di teologia e cultura, anno XXV, n. 1, gennaio-marzo 1990, pp. 110-125; sulla filosofia, Michele Federico Sciacca (1908-1975), Morte e immortalità, L’Epos, Palermo 1990. Sul suicidio ideologico, Alfredo Mantovano, Il suicidio come esito coerente del parossismo rivoluzionario, in Cristianità, anno XI, n. 101-104, novembre-dicembre 1983, pp. 7-17; e Massimo Introvigne, Idee che uccidono. Jonestown, Waco, Tempio Solare, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1996. Vedi i dati statistici sui suicidi in Italia in Stefano Somogyi, Il suicidio in Italia (1864-1962), Università di Palermo-Istituto di Scienze Demografiche, Palermo 1967; e in Rosa Anna Somogyi, Il suicidio in Italia negli ultimi 30 anni, Centro Italiano di Biostatistica e Sociometria, Roma 1992.

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