Tempi 9 Giugno 2022
Il Parlamento europeo ha approvato lo stop alla vendita di auto a benzina e diesel a partire dal 2035 in una giornata convulsa dove è successo di tutto. Tra riforme saltate e altre approvate, l’unica certezza è che la sbornia green ci costerà carissima
di Leone Grotti
Con 339 voti a favore e 249 contrari, il Parlamento europeo ha votato ieri il suicidio green dell’Ue, mettendo al bando i motori a scoppio e autorizzando dal 2035 solo la vendita di auto elettriche in tutta Europa.
Una decisione che, secondo la stessa Commissione europea, porterà alla perdita di 600 mila posti di lavoro nel migliore dei casi (70 mila in Italia). E che rischia di rendere l’Ue dipendente in modo critico dalla Cina.
A Strasburgo è successo di tutto
Ieri era il gran giorno del Green Deal e della transizione verde al Parlamento europeo ed è successo di tutto.
I parlamentari riuniti in sessione plenaria a Strasburgo sono stati chiamati a votare su otto dossier del pacchetto “Fit for 55”, lo strumento ideato dalla Commissione europea per centrare gli obiettivi climatici di Bruxelles: ridurre entro il 2030 le emissioni di CO2 del 55 per cento, rispetto ai livelli del 1990, e azzerarle entro il 2050 I responsabili delle principali famiglie europee lo avevano detto alla vigilia del voto: «Tutto può accadere». Previsione azzeccata.
L’Ue punta tutto sulle auto elettriche
Il voto più rilevante è senza dubbio quello sulle auto elettriche. Gli europarlamentari hanno infatti approvato la proposta della Commissione europea, che prevede lo stop alla vendita di tutti i veicoli nuovi alimentati a diesel e benzina a partire dal 2035.
Tra soli 13 anni, si potranno acquistare dunque solo auto elettriche. È passato l’emendamento proposto dal Ppe, e appoggiato dagli eurodeputati italiani, che concede una deroga per chi produce poche vetture come i marchi italiani Ferrari e Lamborghini.
Il settore dell’industria dell’automobile dovrà profondamente riconvertirsi ed è inutile sottolineare che al momento è del tutto impreparato a farlo.
Non a caso, perfino Thierry Breton, commissario al Mercato interno, ha ammesso che «gli impatti distributivi sull’intero ecosistema saranno enormi. Il passaggio alle auto elettriche potrebbe significare centinaia di migliaia di posti di lavoro distrutti lungo la filiera: per l’Ue, circa 600 mila».
Ma la stima è ottimistica se si considera che da qui al 2035 una larga fetta del mercato europeo potrebbe essere già in mano alla Cina, molto più avanti delle case automobilistiche europee sulle vetture elettriche.
L’Europa si vende alla Cina
Il ministro dello Sviluppo economico italiano, Giancarlo Giorgetti, aveva cercato di opporsi al voto con queste parole: «Io non accetto che il futuro dell’automotive in Europa debba essere solo elettrico.
Noi difendiamo il principio della neutralità tecnologica. Dovremo affidarci a una tecnologia totalmente in mano ai cinesi, che controllano l’80 per cento delle materie prime necessarie per produrre batterie».
Dichiarazioni simili le aveva fatte il ministro dei Trasporti tedesco, Volker Wissing: «Per il futuro, non possiamo puntare solo sulla mobilità elettrica o sull’idrogeno. Abbiamo bisogno di mantenere un approccio tecnologico neutrale».
Il Parlamento europeo ha votato in senso contrario, ma è una scelta che solleva enormi dubbi: in un momento in cui l’Europa ha capito a proprie spese quanto è pericoloso dipendere da un solo paese per il proprio fabbisogno – è il caso della Russia per il gas e il petrolio – come può non considerare i rischi geopolitici di passare dalla padella russa alla brace cinese?
Bocciata la riforma del sistema Ets
Oltre al voto sulle auto elettriche, a Strasburgo ieri è successo molto altro. Un colpo di scena c’è stato già alla prima tornata di votazioni nel primo pomeriggio.
Nonostante un accordo politico trovato in commissione Ambiente (Envi), per un pugno di voti i parlamentari hanno bocciato la riforma del sistema Ets, affossando così anche l’introduzione del Cbam e la creazione del Fondo sociale per il clima.
È curioso che a bloccare tutto siano stati, insieme, gli ambientalisti più accaniti (considerandola troppo poco ambiziosa) e i critici più feroci della transizione green (considerandola troppo costosa).
Più inquini, più paghi
Il sistema Ets, il principale strumento per abbattere le emissioni di CO2 su territorio europeo, obbliga le aziende che rilasciano nell’atmosfera agenti inquinanti ad acquistare permessi per farlo.
Ogni quota equivale a una tonnellata di CO2 e le aziende interessate, circa 11 mila al momento, possono comprare le quote sui mercati finanziari o da altre aziende.
Lo scopo del sistema Ets è mantenere i prezzi dei “carbon credit” così alti da costringere le aziende a trovare soluzioni produttive più green per risparmiare. L’Ue mette progressivamente sul mercato un numero sempre inferiore di quote, ma finora ha protetto il proprio sistema industriale dai competitor – soprattutto Stati Uniti e Cina – rilasciando anche quote gratuite ai settori più a rischio come quello dell’acciaio.
Il fallimento degli ambientalisti radicali
La riforma avrebbe spianato la strada alla diminuzione delle quote gratuite a partire dal 2026 per poi abolirle nel 2034. Il nodo del contendere sono proprio le date: Verdi e Socialdemocratici infatti volevano qualcosa di ancora più radicale e di conseguenza hanno stoppato tutto.
Contestualmente alla riforma del sistema Ets, per evitare il fallimento delle industrie europee schiacciate dai concorrenti internazionali o la fuga all’estero delle grandi industrie – e di conseguenza un’ecatombe occupazionale senza alcun vantaggio in termini di riduzione della CO2 – sarebbe dovuto entrare in vigore il Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism).
Salta anche la tassa doganale sul carbonio
Si tratta di un vero e proprio dazio doganale: Bruxelles stabilisce in sintesi un prezzo al carbonio utilizzato per produrre un bene in qualunque parte del mondo richiedendo all’importatore di pagarlo. Il sistema, di cui nessuno conosce la reale efficacia, è però strettamente connesso all’estensione del sistema Ets. Bocciato questo, anche il Cbam è stato rimandato in commissione, insieme al Fondo sociale per il clima ideato per sostenere le famiglie vulnerabili e le imprese che verranno azzoppate dalla transizione.
Al di là della “tregenda Ets”, che potrebbe tornare in plenaria verso settembre, è passata nella prima votazione una norma che farà molto discutere, quella sul trasporto aereo. Anche le compagnie aeree dovranno pagare in base alla CO2 emessa, non soltanto per i voli interni all’Ue come ora, che rappresentano appena un terzo del totale, ma per tutti i voli in partenza dall’Unione Europea. La misura entrerà in vigore nel 2025.
L’Ue azzoppa le compagnie aeree
Secondo le stime, le compagnie aeree europee pagheranno circa 5 miliardi di euro in più all’anno, spesa che si rifletterà inevitabilmente sul costo dei biglietti. Per evitare la tassa, le compagnie potrebbero utilizzare carburanti alternativi e sostenibili, che però al momento o hanno prezzi fuori mercato o non sono disponibili in quantità sufficiente.
Come aveva dichiarato Iata, l’Associazione del trasporto aereo internazionale, «si tratta di un autogol: rendendoci meno competitivi» rispetto alle compagnie straniere «non si accelera la commercializzazione dei combustibili sostenibili».
Ma il vero autogol è continuare a considerare le politiche climatiche come un problema puramente ambientale e non, più in generale, di sicurezza (economica, industriale, geopolitica).
La Commissione europea ha disegnato le sue proposte prima dello scoppio della guerra in Ucraina, che ha fatto salire alle stelle il costo dell’energia.
Caricare sulle spalle degli imprenditori europei anche il peso della transizione verde, agendo in solitaria senza ricercare un accordo con il resto del mondo, appare più un suicidio che un rischio.
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