Il grande successo del “Codice da Vinci” non si spiega tanto a partire dalla qualità del romanzo, mediocre dal punto di vista letterario e scadente da quello storico, quanto invece dall’attuale contesto culturale, che avversa la dottrina cattolica e che alimenta il sospetto sulla validità dell’insegnamento della Chiesa.
don Maurizio Ceriani
Sta di fatto che il libro in questione ha già venduto 50 milioni di copie nel mondo e la sua versione cinematografica, nonostante la stroncatura della critica, è avviata ad un grande successo di botteghino. Nel mondo cattolico si sono delineate due posizioni, unite dall’assoluto rigetto dei contenuti del “Codice” ma distinte nella forma della protesta. C’è chi invoca un autentico boicottaggio del film e chi invece, temendo di fare gratuita pubblicità all’evento, ha scelto una posizione meno di punta, sottolineando che tutto questo potrebbe anche tornare a vantaggio della Chiesa perché, sull’onda della polemica e dell’interesse generale suscitato dall’argomento, ci sarebbe spazio per avviare un’ampia campagna di informazione e di catechesi sulla storicità dei Vangeli e sulla figura di Gesù Cristo.
Il “Codice” figlio del suo tempo
Detto questo s’impongono alcune riflessioni. Non entriamo nei contenuti del romanzo, perché i lettori ricorderanno che il nostro giornale denunciò le falsità e i veleni del “Codice” addirittura due anni fa (suscitando in quell’occasione anche qualche meraviglia), quando ancora il libro non era il fenomeno letterario del momento, ma limitiamoci ad alcune problemi di “contorno”, senza i quali, tuttavia, il successo dell’opera di Dan Brown risulterebbe incomprensibile.
È un dato di fatto che le comunità ecclesiali oggi sono afflitte da una profonda ignoranza sui contenuti della propria fede, ma non solo; nella cultura contemporanea, anche quella spicciola, si respira una sottile aria avvelenata di sospetto verso tutto ciò che si connota come cristiano, un soffio velenoso che, parafrasando Paolo VI, possiamo dire sia entrato anche nel Santuario. In fondo il “Codice da Vinci” è figlio del suo tempo. Da un lato vi è tutto un mondo, legato al pensiero liberal-massonico, anarchico-nihilista, radicale e post-comunista, variegato e a volta contrapposto su molte posizioni, ma saldamente unito in una comune avversione alla Chiesa Cattolica, presentata come la prima nemica del progresso umano.
Per chi conosce la storia niente di nuovo… in fondo anche Nerone mandò i Cristiani alle fiere, rei di essere “nemici del genere umano”! Che cosa c’è allora di più ghiotto di un romanzo che dipinge la Chiesa come una società a delinquere che complotta contro l’umanità? Sappiamo poi come gli araldi di questa cultura siano riusciti all’interno delle università e del dibattito filosofico-scientifico, sull’onda lunga del sessantotto, a suscitare in molti cattolici un strano senso di sudditanza, quasi una “minorità culturale”, che è ben resa dal concetto veicolato, nel gergo giovanile odierno, dal termine “sfigato”.
Una ferita all’interno delle nostre comunità
Spostandoci all’interno del pensiero cattolico stesso, in quell’ambito squisitamente ecclesiale, purtroppo oggi sconosciuto ai più, che è la riflessione teologica, dobbiamo anche qui registrare qualche serio problema. Il Modernismo, cioè quella corrente di pensiero che a cavallo tra l’ottocento e il novecento pretendeva di porre i contenuti della fede al vaglio della critica razionale, ha lasciato ferite dure a rimarginarsi.
Nonostante sia stato ripetutamente condannato dal magistero della Chiesa, ha ancora molti cuori che battono per lui e che subito s’infiammano davanti all’ultima scoperta archeologica o filologica, che insinui il dubbio sull’attribuzione tradizionale di un testo sacro al suo autore. Ugualmente l’apologetica, cioè quella branchia della teologia che tradizionalmente aveva il compito di confutare sul piano razionale gli attacchi alla fede, ha perso il nome e molti dei suoi connotati, trasformandosi in una blanda teologia fondamentale, al cui interno tutto ha diritto di cittadinanza (ricordo alcuni corsi di “teologia fondamentale” seguiti in facoltà che avevano come oggetto opere di non credenti e di atei).
Quale aria tiri poi in alcune facoltà teologiche basterebbe chiederlo a qualsiasi studente, laico o religioso che sia, il quale sa bene come il modello del perfetto studente in teologia, avviato a una brillante carriera nel settore, richieda: “La Repubblica” sotto il braccio, l’allergia alla Tradizione, il dubbio metodico verso il passato, l’avversione ad Aristotele e San Tommaso, la critica al Magistero e qualche sfottò alla gerarchia. Infine, non di rado a chi afferma l’ortodossia della fede alla luce del Magistero e della Tradizione viene facilmente affibbiata l’etichetta di “integralista”.
Se a questo aggiungiamo qualche omelia del giorno di Pasqua in cui, invece di annunciare il Risorto speranza del Mondo, s’indugia a disquisire su chi sia l’autore del quarto Evangelo alla luce di studi “recenti”, si comprende come esista un “vulnus” interno alla stessa comunità credente, attraverso il quale non fatica ad insinuarsi il pensiero sospettoso di Dan Brown.
Diritto di offesa al Cattolicesimo
Un’ulteriore sottolineatura va fatta per cogliere l’humus culturale che fa da supporto al successo del “Codice da Vinci”. Si tratta di quell’aspetto del politically correct per cui il Cattolicesimo si può irridere, dileggiare, offendere nella massima tranquillità. Se poi qualcuno protesta gli si appiccica l’etichetta di turno, dal “crociato” all’ “inquisitore”, e anche in casa nostra lo si guarda con sospetto: “il solito piantagrane”.
Fa impressione come si sia ammutolito, a distanza di soli tre mesi, quel coro, pressoché unanime, che aveva – giustamente – stigmatizzato le vignette satiriche su Maometto, in nome del rispetto dovuto ad ogni sentimento religioso… forse da quell’ “ogni” era escluso il sentimento religioso cristiano. A tutt’oggi non una voce dal mondo della politica, della cultura e della scienza si è levata a protestare la propria solidarietà ai cristiani offesi dalle blasfemie del romanzo e del film di Dan Brown.
Sì, perché di blasfemia si tratta laddove si afferma che la divinità di Nostro Signore fu invenzione dell’Imperatore Costantino. Pensiamo un po’ cosa accadrebbe se un romanzo o un film venisse a dire che Maometto non era il Profeta che l’islam crede? L’autore guadagnerebbe non i miliardi di Brown, ma un posto al cimitero e forse nemmeno quello, mentre il mondo assisterebbe alla terza guerra mondiale.
Una voce tra le tante, quella di Romano Prodi diceva in quei giorni: “Ho trovato le vignette estremamente di cattivo gusto. C’è uno stile nella stampa”. Attendiamo ansiosi che qualcuno dica lo stesso per il “Codice da Vinci”, né denunci il cattivo gusto, ricordi che c’è uno stile anche nell’editoria e nel cinema e che inviti una volta tanto… a chiedere scusa anche a noi.