di Khaled Fouad Allam
Prima l’attentato di Bagdad contro le Nazioni Unite, poi le esplosioni di Bombay. […] Da questi episodi traspare un Islam malato: ma questa malattia non ci deve impedire di riconoscere i reali processi di trasformazione in atto nel mondo islamico in generale, e in particolare in Iraq e nell’area mediorientale. […]
Gli americani si distinguono per il loro discorso sulla democrazia […]. E in effetti il problema degli americani in Iraq non è, come credevamo, la gestione del religioso, bensì la gestione del nazionalismo iracheno che oggi si tinge di una vernice religiosa: quello che gli studiosi chiamano islamonazionalismo. […] Se anche possono essere sbagliati gli strumenti o la metodologia, quello della democrazia è il problema del mondo arabo-islamico. In realtà, dunque, la strategia del governo statunitense è molto più pertinente di quanto comunemente si ritenga.
Se il caso iracheno viene inquadrato nell’ evolversi complessivo del Medio Oriente, appare un dato importante: i due modelli di riferimento dell’Islam politico – quello della rivoluzione iraniana e quello del wahabismo dell’ Arabia Saudita – sono entrati in crisi.
Gli effetti di questa crisi sono molteplici: nel caso sciita, cresce la protesta giovanile e l’isolamento di Teheran; nel caso dell’ Arabia Saudita, la reazione americana all’ attentato dell’11 settembre rende estremamente fragile la situazione politica in questo paese, dal momento che è apparsa una linea che da esso arriva al Pakistan attraverso la scuola teologica di Deoband, luogo di formazione dei taliban.
Questi fatti dimostrano, ai governi di questi paesi ma anche ai movimenti che si richiamano alla loro ideologia, che esistono dei limiti allo stato islamico. Gli americani sanno benissimo che, al di là della democrazia, non esiste alternativa politica per il Medio Oriente, se non tra regimi autoritari o di fondamentalismo islamico: quella che il politologo Emmanuel Sivan ha definito una scelta fra la peste e il colera.
Inoltre, dopo l’intervento angloamericano in Iraq, appare più chiaramente la continuità storica, culturale e politica che connota l’area mediorientale: la componente sciita, diffusa dall’Iran e dall’Iraq fino al Libano, e che si prolunga nei paesi del Golfo
In alcuni paesi questa componente sciita è demograficamente maggioritaria: è il caso dell’emirato del Bahrain, governato da un sovrano sunnita. Negli anni ‘80 gli echi della rivoluzione iraniana si sono fatti sentire anche nei paesi del Golfo. Alcuni leader religiosi si richiamavano al pansciismo, considerando il Medio Oriente come un unico territorio sciita, che all’inizio del ‘900 le potenze coloniali avevano scompaginato, e in cui si doveva esportare la rivoluzione.
Oggi le cose sono profondamente mutate: la rivoluzione iraniana si è spenta, e il pragmatismo ha il sopravvento sull’ideologia. Persino il governo dell’Arabia Saudita, dove la minoranza sciita era relegata ai margini della società, ha avviato con essa un dialogo incentrato sulle questioni della cittadinanza e della democrazia.
Gli americani hanno capito che la questione sciita non porta solo a ripensare la relazione fra islam e politica, ma fa intravedere nuove dinamiche, che tendono a trasformare drasticamente l’attuale quadro mediorientale.
Il carattere transnazionale dello sciismo, infatti, non implica un’uniformità del pensiero politico: non tutti gli sciiti aderiscono ai partiti religiosi, le stesse autorità religiose sciite – ayatollah – divergono nell’interpretazione dell’Islam politico; si è avviato inoltre un reale dibattito su che cosa sia la società civile e la democrazia nel mondo musulmano, e fino a che punto sia accettabile l’autorità di un ayatollah su tutti gli altri.
L’ayatollah Khamenei, che si è fatto nominare marja – vale a dire autorità per gli sciiti dell’Iran e del Medio Oriente – è contestato; gli hezbollah libanesi ne riconoscono l’autorità, ma non gli sciiti degli altri paesi. Alcuni ayatollah sono giunti ad affermare che si deve separare la religione dalla politica.
Tutto questo dibattito è in atto oggi in Medio Oriente, e ne percepiamo gli echi nella ribellione e nei sogni della gioventù iraniana. Esso è indice di un mutamento profondo: nell’era globale, la questione del pluralismo si pone ormai anche per i musulmani. Nella primavera scorsa l’ayatollah Khatami ha tenuto un discorso all’ università St. Joseph di Beirut, gestita dai gesuiti, e non presso gli hezbollah.
Solo partendo dall’osservazione e dall’esperienza storica si possono elaborare strategie di ricomposizione politica e di innovazione sociale. Anche in ciò la strategia americana appare innovativa: poiché storicamente la loro cultura politica è impregnata di religione, il loro approccio al fenomeno religioso è meno conflittuale di quello europeo nei confronti degli attori sociali dello scacchiere iracheno. Essi si rendono conto che per le popolazioni sciite irachene che rappresentano la maggioranza – oltre il 63% – la guerra ha rappresentato un’occasione unica: quella di partecipare alla costruzione politica del paese. Perché dalla nascita dell’Iraq moderno, all’inizio degli anni ‘20, gli sciiti sono stati emarginati dal potere, e Saddam Hussein li ha sempre combattuti.
Essi inoltre non hanno altra scelta: anche se al loro interno esistono forti divergenze, i partiti sciiti al-Dawa e Sciri hanno accettato di partecipare all’elaborazione politica del nuovo Iraq. Anche i fatti delle ultime settimane tendono a confermare che non è lo sciismo ma il sunnismo quello che si radicalizza, usando il collante nazionalista. In piena guerra, nel marzo scorso, i pellegrinaggi nei luoghi santi sciiti di Kerbala e di Najaf si sono svolti in relativa tranquillità, mentre tutto portava a prevedere il contrario: la presenza di migliaia di persone avrebbe potuto dar luogo a un sollevamento incontrollato contro le forze angloamericane.
Da ciò gli osservatori e gli esperti traggono interessanti previsioni per il futuro. In Iraq si trovano i siti più significativi per la spiritualità sciita; ma Kerbala e Najaf sono anche importanti luoghi di formazione della gerarchia ecclesiastica sciita. Sotto l’impero ottomano Najaf e Kerbala godevano di grande prestigio: gli ayatollah che uscivano da queste scuole erano rinomati in tutto il mondo musulmano sciita.
La rivoluzione iraniana da un lato, e dall’altro l’avvento di Saddam Hussein hanno portato ad emarginare Najaf; negli ultimi cinquant’anni è cresciuta la fama della città santa di Qom in Iran, dove si è formata la nomenklatura rivoluzionaria iraniana. Domani gli americani potrebbero puntare su Najaf e Kerbala a scapito della città santa di Qom, per favorire lo sviluppo di un nuovo sciismo e ridurre la sfera d’influenza dello sciismo iraniano di matrice rivoluzionaria.
Sul piano dell’ingegneria politica, la difficoltà risiede nella composizione multietnica e multiculturale dell’Iraq; la composita Baghdad ha rappresentato lo sfondo degli imperi multietnici, a iniziare da quello abbasside. L’identità collettiva irachena si è sempre definita attraverso la multiappartenenza, etnica e religiosa.
Pochi hanno notato che gli americani hanno recentemente chiamato fra i loro esperti un eminente politologo libanese, Ghassan Salamé, che è stato fino a poco tempo fa ministro della cultura del governo libanese, e prima ancora professore all’Institut des Sciences Politiques di Parigi. Ci si può chiedere come mai un libanese: essi pensano a un modello giuridico e costituzionale per l’Iraq guardando proprio al Libano. Anche lì è presente l’antico sfondo dell’impero multietnico, e anche lì la componente sciita sarà determinante.
Sullo sfondo rimane però una questione che vela d’angoscia il nostro ingresso nel XXI secolo: che cosa succede quando non sono i popoli che realizzano la loro storia, ma è la storia che pretende di realizzare i popoli? La guerra in Iraq e l’intervento degli Stati Uniti, che lo vogliamo o no, interrogano l’Europa: ma è un’Europa malata, incapace di situarsi nel mondo, in un momento in cui le alleanze internazionali stanno mutando su scala planetaria.