blog Settimo Cielo di Sandro Magister
13 Dicembre 2019
Intervista con Roberto Pertici (Da “L’Eco di Bergamo” del 17 novembre 2019)
di Carlo Dignola
Roberto Pertici, docente di storia contemporanea nell’università di Bergamo, nel suo ultimo saggio “La cultura storica dell’Italia unita” (Viella) analizza a fondo l’idea di nazione e la critica decisa alla quale oggi è sottoposta: non solo in una sinistra che – con poche eccezioni – l’ha sempre guardata con un certo sospetto, ma anche da parte di una destra “europeista”; schierate insieme a protezione del rischio che una ventata di nazionalismo becero, etnocentrico e revanchista ci riporti indietro di un secolo. Con tutti i rischi del caso.
PERTICI: Se noi prendiamo un testo molto classico di metà Novecento come “L’idea di nazione” di Federico Chabod, lì è evidente che a costituire una nazione concorrono elementi oggettivi: il territorio, una lingua, una certa eredità culturale e religiosa nel senso ampio del termine. E poi ci dev’essere anche una convinzione di appartenenza, un elemento di carattere soggettivo: la nazione si costruisce attraverso un’opera che gli storici chiamano di “nazionalizzazione”.
La storiografia post-moderna, che ha avuto un boom anche in Italia, ha invece ridotto la nazione a qualcosa a metà fra un’impostura, una “invenzione della tradizione”, come si dice con un’espressione di Eric Hobsbawm, una serie di retoriche che si sarebbero sviluppate in Italia soprattutto nei primi decenni dell’Ottocento. Io non sono d’accordo con questo tipo di impostazione: ritengo che esista innanzitutto una civiltà italiana, chiamiamola così…
DIGNOLA: “Civiltà” ormai è considerata quasi una parolaccia.
PERTICI: È ciò che in tedesco si indica con la parola “Kultur”: non significa che gli altri siano incivili, le culture sono tante, devono essere aperte, devono scambiare tra di loro, però hanno alcune caratteristiche specifiche. Mi sembra indubbio che esista una civiltà italiana che ha una sua collocazione linguistica già a partire dal ‘300, e una sfera territoriale: lo stesso Dante ha già chiaro che cos’è l’Italia da un punto di vista geografico.
Sull’Italia come problema storico si riflette già nel ‘400 e nel ‘500, da Guicciardini e fino a Muratori nel ‘700. Come problema politico l’Italia è già presente in Machiavelli. Insomma, una cultura e una “civiltà italiana” esistono da molti secoli. A un certo punto, poi, a partire dalla fine del ‘700, si è cominciato a dire: siccome siamo una civiltà con certe caratteristiche, diverse dalla Francia, dobbiamo costruire qualcosa di simile a ciò che hanno fatto loro, cioè uno Stato.
Dobbiamo dare a questa civiltà che abbiamo ereditato uno sbocco politico. Per imitazione della Francia e anche per reazione alla Francia: i francesi sono fatti così – pensano i patrioti italiani – ma noi siamo diversi, e quindi dobbiamo dar vita a istituzioni, a leggi che sono nostre, peculiari. Ogni nazione si basa sempre sul senso delle differenze. Oggi siamo tutti universalisti, a parole, ma la nazione si basa su una cultura della differenza. Che non significa prevaricazione.
DIGNOLA: Tutto questo nazionalismo ha portato, sì, anche alle grandi guerre mondiali. Però – lei dice – c’è stata prima la costruzione di un’identità nazionale, che è un valore da non buttare via.
PERTICI: Gli Stati nazionali sono quelli in cui, certo, si sono sviluppati i nazionalismi, ma si è sviluppata anche la democrazia. Bisogna ancora dimostrare che gli Stati sovranazionali abbiano la stessa capacità: non è affatto scontato.
DIGNOLA: Si direbbe di no, se guardiamo alla Cina, o ai rigurgiti neo-ottomani – Stato Islamico, Grande Turchia – in Medio Oriente. Su un territorio ampio esercitare un potere oppressivo è molto più facile. La stessa antica Roma, crescendo, passò dalla Repubblica all’Impero. Persino in un testo di epica contemporanea come il film “Guerre stellari” resta l’eco di questa dinamica. I politologi però se la sono dimenticata.
PERTICI: Si dovrebbe ricordare che lo Stato nazionale è quello in cui si sono affermati i movimenti dei lavoratori, le tutele sociali, il welfare, lo Stato assistenziale…
DIGNOLA: In un mondo globalizzato in cui non c’è neppure un’autorità centrale, è più difficile difendere questa mole di diritti che noi diamo per scontati ma che nel resto del mondo – pensiamo alla rivolta di Hong Kong – non lo sono affatto.
PERTICI: Ma è ovvio. Lo Stato nazionale è quello in cui negli ultimi due secoli si è costruita la democrazia in Europa. La sua è una dimensione che non va disprezzata. Anche perché, guardi, gli altri Paesi non la disprezzano affatto. Quando si toccano gli interessi strategici della grande industria francese – mobilità, energia, materie prime essenziali – lo Stato puntualmente interviene. Tutti fanno i loro interessi. Nelle sedi europee, tutti i grandi Paesi fanno prima i loro interessi, poi arrivano a una mediazione: e questa in democrazia è una prassi corretta.
DIGNOLA: La democrazia, a partire dalla Grecia classica, la sua culla, è sempre stata un’esperienza di nicchia: un piccolo gruppo con una compattezza etnica, una letteratura comune, ha costruito un certo modo di vivere e di governare la società. Ma su larga scala è sempre stata fragile.
PERTICI: La nazione, come tutti i fenomeni, può avere dei risvolti ambigui, o anche negativi. Però guardiamo anche ai risvolti positivi: nella nazione l’individuo si integra in una realtà che supera il suo orizzonte puramente personale, sente come qualcosa di reale il cosiddetto “bene comune”.
Da due secoli esso è al centro anche della dottrina sociale della Chiesa, ma spesso rischia di essere astratto se non si incarna in un popolo, in qualcosa di prossimo, che si conosce, con cui abbiamo familiarità: soltanto le persone astratte si affezionano, per principio, a coloro che sono distanti, l’essere umano normalmente si affeziona in primis a quelli che gli somigliano e che frequenta.
DIGNOLA: Il sentimento nazionale è stato la culla di una società non individualistica.
PERTICI: Quanto il tramonto dell’idea di nazione abbia sviluppato, negli ultimi 40 anni, i particolarismi, i settorialismi che abbiamo visto esplodere in Europa sarebbe un bel tema di studio per uno storico di oggi. L’aver negato questa appartenenza a qualcosa da cui tutti eravamo avvolti è il presupposto per il ritorno di certi egoismi.
DIGNOLA: Oggi da un lato ci sono i super-mondialisti a cui non interessa nulla delle situazioni concrete vissute dalla gente che hanno vicino: li preoccupa il pianeta. Dall’altro quelli che pensano al massimo a un paio di regioni, a fare l’interesse dei pochi chilometri quadrati in cui vanno avanti e indietro abitualmente in macchina.
PERTICI: Come siamo arrivati a questo, è l’altro grande problema.
DIGNOLA: C’è stata – lei dice nel saggio – una diversa educazione di una generazione.
PERTICI: Una delle svolte si è avuta nel sistema educativo, non c’è dubbio. Il cambiamento epocale si è verificato fra gli anni ’60 e ’70, è al ’68 che dobbiamo guardare, inteso però non come l’anno delle rivolte degli studenti: quelle sono cose pittoresche. È il cambiamento di paradigma complessivo che conta, si passa da una generazione come quella dei nostri padri che era cresciuta in una prevalenza dei doveri sui diritti, che sottomettono l’individuo a qualcosa che lo sovrasta: può essere la famiglia, la patria, il partito, la classe, in ogni caso l’individuo si sente parte di qualcosa di più grande che guida la sua azione e che lo definisce, anche.
Oggi si è passati invece alla prevalenza dei diritti, l’uomo pensa solo a sviluppare la propria personalità, alla sua “auto-realizzazione” – questa è la parola magica: e dei legami sociali non gli interessa più nulla. Io mi devo realizzare: poi se questo comporta, detto brutalmente, la fine di ogni legame familiare, pace: l’unico mio pensiero è me stesso. Queste sono cose che hanno alle spalle mutamenti antropologici enormi, di cui noi non abbiamo ancora tutta la consapevolezza.
DIGNOLA: Il paradosso è che questa cultura della massima libertà, alla fine crea individui atomizzati, in un contesto socialmente degenerato, in cui diminuiscono le tutele, il lavoro scarseggia, si concentrano nelle mani di pochi poteri potentissimi e inediti, l’informazione tende a degenerare, gli individui hanno poca voce in capitolo. La massima libertà ci prepara per una maggiore sottomissione?
PERTICI: Una certa ricerca storica recente ha messo in evidenza il nesso tra l’individualismo sessantottino e quello neoliberista degli anni ’80. Sembrerebbero due cose diversissime: il ’68 è un fenomeno di estrema sinistra, il liberismo di destra. Invece se guardiamo da storici la sostanza delle cose ci accorgiamo che in definitiva dietro l’uno e l’altro c’è lo stesso tipo di approccio di carattere ultra-individualistico: “vietato vietare”, in campo economico e sociale come in campo etico e personale.
Da questo punto di vista c’è un continuum. Io francamente non so cosa sia successo, in pochissimi anni. Questi fenomeni hanno questa caratteristica: “motus infine velocior”, dicevano i latini, quando si arriva alla fine, il processo si accelera. È come se la zavorra di cui ci si deve liberare via via sia stata scaricata, e a quel punto si cammina più veloci.
I “liberal”, post-sessantottini e libertini, i radicali, sono molto differenti dai liberali storici – chiamiamoli così. Questi ultimi sapevano che le libertà e i diritti non sono un’infinità: ci sono i fondamentali diritti dell’individuo, la libertà religiosa, di parola, di movimento…
Ma non esiste una sfera di diritti in crescita continua. Un grande studioso, il filosofo della storia francese Marcel Gauchet, dice che c’è qualcosa di misterioso in quello che è successo negli anni ’60, e ho anch’io questa percezione, che i fondamenti della vita collettiva siano cambiati in modo così profondo che non è semplice da capire. Oggi l’intreccio fra umanitarismo ed estremo individualismo etico è la miscela delle élite internazionali.
DIGNOLA:
PERTICI: Questo è difficile dirlo.