Una tipologia umana nuova creata dai genitori d’oggi
di Marina Corradi
Da bambini dispotici ad adolescenti aggressivi, che un po’ di timore lo mettono anche agli insegnanti, dall’alto del loro fanciullesco metro e ottanta. Senza nulla togliere all’Eurispes, il figlio padrone è già da tempo un’evidenza. Basta andare a vedere un film di Disney per incrociare certi padri che sul finire dell’intervallo tornano al posto trafelati, carichi di aranciata e giganteschi pacchi di pop corn.
«Avevo detto Coca Cola», urla il figlioletto di sei anni, mentre le luci si spengono, e il padre, affranto, chiede scusa. Il figlio padrone, in genere cresciuto oscillando fra baby sitter e nonni, vede poco il padre e la madre, molto impegnati nel lavoro, ma li conosce comunque abbastanza per annusare un tacito senso di colpa dei due, troppo assenti da casa, nei suoi confronti.
Il figlio padrone sa che quando i genitori tornano tardi e stanchi morti, prendendo in corsa il testimone da una baby sitter annoiata, è il momento migliore per piazzare una delle sue terribili grane, in un pianto da convulsione. Per quanto piccolo, già conosce lo sgomento sulle facce dei due, la loro disperata volontà di trattare, comunque: per un sorriso, e per un po’ di pace.
Il figlio padrone è, quasi sempre, un figlio unico. È difficile infatti essere figli padroni in due: comunque, due fratelli devono spartirsi un territorio, dei giocattoli, delle attenzioni. Questo limita naturalmente la tendenza all’onnipotenza infantile. Ma purtroppo oggi, per mancanza di mezzi o di tempo, o per una sorta di parsimonia affettiva, di figli se ne fa uno.
Dicono: meglio uno, così possiamo dargli tutto. Premessa che già a sentirla fa accapponare la pelle, nell’intravvedere la montagna di giocattoli, vestiti, lezioni di judo, danza, tiro con l’arco, mimo, sub con cui risponderanno a ogni desiderio del piccolo, prima ancora che il poveretto abbia il tempo di pronunciarli. Il figlio padrone, dunque, cresce convinto che il mondo esista per appagare i suoi desideri. I guai vengono quando cresce, e si trova davanti un professore, degli altri compagni, una ragazza, che gli dicono di no. Un ‘no’ a quindici anni è un trauma, se da quando sei nato non te lo ha mai detto nessuno.
Qualcuno, sbalordito, prende a calci i compagni, o il banco – talvolta il professore. Quasi sempre, i genitori accorrono in suo aiuto. Pare che difendano il figlio, ma in realtà difendono solo se stessi. Il loro sistema-famiglia chiuso e autarchico, la modesta pace di domeniche in cui si è disposti a non chiedere al ragazzo né dove vai, né con chi, purché non alzi la voce.
La prima vittima dei figli padrone sono loro stessi. Educati a essere arroganti, e al primo ‘no’ prepotenti; menomati nella radicale esigenza dei figli, che è sì di essere amati, ma anche conoscere un limite, un argine alla propria pretesa. Un argine senza il quale non scatta nemmeno la beata ribellione dell’adolescenza, la contestazione dei vecchi, la voglia di rifare il mondo daccapo. Infatti i figli oggi non contestano.
Malinconici consumano, si adeguano alle mode, tardano il più possibile a uscire di casa – intuendo che l’aria non sia così tiepida, fuori. I figli padroni, avendo già avuto tutto, non hanno veramente voglia di nulla – che è la cosa più triste per un uomo, a diciott’anni.
Di modo che, quando da McDonald’s incroci lui e lei e il bimbetto, paonazzo nell’urlare che vuole il ketchup, subito, e vedi come il padre corre con le spalle curve a procurarselo, non ti viene da ridere.
Meglio era il tempo dei padri padrone – almeno a quelli ci si ribellava. Ma i figli despoti dei padri inesistenti, dove troveranno un limite, se non nell’incrocio o nello scontro delle proprie vezzeggiate prepotenze?
(A.C. Valdera)