Ecco il tabù della società odierna, che senza sorprese appartiene al campo della Bioetica: il trauma post-aborto volontario nella donna. Pochi sanno cosa sia, il più delle volte nemmeno la stessa donna che va ad abortire
di Melissa Maioni
caratteristiche del trauma
Immediatamente dopo l’intervento alcune donne si sentono bene, sollevate e felici; nel tempo però questa sensazione illusoria via via scompare trasformandosi in un insistente mostro accusatore, il trauma post-aborto. I disturbi che caratterizzano il trauma tendono a cronicizzarsi e a ripresentarsi ogni qua! volta accadono episodi associati alla morte, alla nascita, ai bambini, agli affetti e a qualsiasi tipo di perdita.
Nella maggior parte dei casi la donna avverte una scarsa autostima che si evolve in danni psichici importanti, piange interrottamente, senza controllo o all’improvviso, senza un motivo preciso. Viene assalita da una forte depressione, diventa emotivamente insensibile, incapace di provare gioia o tristezza. Viene attaccata da un pressante senso di colpa, si isola e tende ad alienarsi dalla realtà, dalla famiglia e dagli amici; si astiene dallo stare con gli altri per evitare di parlare dell’aborto.
La rabbia e la vergogna si manifestano alternandosi. Ha difficoltà di concentrazione; l’angoscia e il panico le impediscono di dormire o peggio ancora, mentre dorme fa strani incubi terrificanti che hanno a che fare con il suo bambino in particolare o con bambini che vengono attaccati da mostri e portati via, tagliati a pezzi, immersi nel sangue, o in difficoltà, senza che nessuno possa aiutarli.
Spesso ha delle allucinazioni uditorie che le fanno sentire il pianto di un bambino. La memoria è tormentata da ricordi che scattano alla vista o al rumore di oggetti simili a quelli presenti al momento dell’intervento. Ci sono poi le date importanti, come la data del concepimento, la data dell’aborto, la data della presunta nascita, che la donna attende con angoscia ogni anno. A un certo punto, sovente dopo aver ricorso alla droga o all’alcol o dopo aver sviluppato una qualche patologia mentale, la donna comincia a pensare che la morte sia l’unica alternativa e così inizia a coltivare desideri suicidi e talvolta cerca di metterli in atto.
Per quanto riguarda le relazione con gli altri (partner, famiglia d’origine e amici) c’è molta instabilità: la donna ha difficoltà ad avere rapporti sessuali, per paura di rimanere incinta o per paura di doverne parlare; inoltre talvolta accade che si verifichino disfunzioni sessuali o promiscuità, tali per cui la donna vuole farsi abusare o tende ad essere abusiva nei confronti del partner. In alcuni casi finisce e la donna o prende le distanze dagli uomini o instaura relazioni con uomini che la fanno soffrire, come forma di autopunizione. Alcune donne ricorrono all’automutilazione, altre hanno problemi alimentari o avvertono ripetutamente dolori psico-somatici.
Durante eventuali gravidanze successive c’è il rischio che la donna perda spontaneamente il figlio, per il fatto che l’intervento abortivo può causare danni fisiologici alla cervice uterina, e per il fatto che la donna, pensando di non riuscire a portare a termine la gravidanza, è continuamente in affanno. La gravidanza in sé per alcune rappresenta un incubo, per altre una mania ossessiva.
Le gravidanze successive possono essere intese come sostitutive a quella interrotta e il nuovo figlio che nasce rischia di essere maltrattato dalla madre, nel caso questa non abbia elaborato l’esperienza precedente. In alcuni casi questi bambini sviluppano a loro volta problemi psichici o psichiatrici, a cui si da il nome di “sindrome del sopravvissuto”.
la verità e la chiesa
La verità è che nessuno vuole mai parlare di questo dramma, o perché nega la sua esistenza, o più probabilmente perché è un fatto scomodo da rendere pubblico. La dimostrazione ci è fornita dal testo della legge 194 che non ipotizza nemmeno che dopo l’aborto potrebbero presentarsi delle conseguenze.
La società concede l’aborto definendolo irragionevolmente un “diritto”, ma non tiene in conto — volutamente – gli effetti che questo presunto “diritto” ha, e dunque non mette in atto neppure le misure necessarie, lasciando sole queste donne disperate. Riconoscere il trauma post-aborto volontario infatti significherebbe dare ulteriore prova alla verità, ossia ammettere che l’aborto non è un diritto! La Chiesa ha speso tutte le energie per dissuadere le donne a ricorrere all’aborto, tenendo sempre presente il Bene della persona umana: il no all’aborto corrisponde a un grande sì alla vita, in primis quella del figlio, e poi quella della madre.
La società però non ascolta la sua voce e, disinteressandosi al vero Bene ed esaltando all’inverosimile l’autodeterminazione, abbandona le donne che hanno abortito e che poi a carissimo prezzo (il prezzo della vita del loro figlio e il prezzo del peso immane che schiaccia le loro vite) si accorgono di quanto l’aborto sia un male. È significativo che le prime associazioni che hanno come scopo quello di sostenere queste donne (La Vigna di Rachele, il Progetto Rachele e H Dono Onlus) siano nate proprio in ambito cattolico: è sempre la Chiesa a riparare i danni!