È quello dei militari italiani e Alleati che liberarono l’Italia e che oggi si fa fatica a ricordare. Siamo ancora prigionieri della menzogna resistenziale: che solo il PCI lavorò per la democrazia
di Ugo Finetti
A capo della Francia pose il veto all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea, uscì dalla Nato, fece una “sua” politica verso l’Unione Sovietica e nel Mediterraneo. Eppure quando celebrava la Resistenza francese e la cacciata dei tedeschi, non mancava mai di coinvolgere le rappresentanze politico-diplomatico-militari di Londra e Washington esortando i francesi a rendere omaggio al tributo di sangue e all’apporto determinante dei soldati britannici e statunitensi.
I cimiteri degli Alleati sul suolo francese sono terreno sacro e condiviso, parte integrante della memoria e della storia nazionale. In Italia no. Il ricordo della Liberazione dall’occupazione tedesca e dal regime collaborazionista di Salò non prevede celebrazioni per i soldati americani e britannici morti combattendo nazisti e fascisti.
Si fatica persino a commemorare i militari italiani che fecero la guerra al loro fianco e perirono in quei 20 mesi di marcia verso la libertà. Ha prevalso e tuttora domina una retorica basata su una spregiudicata menzogna storica secondo cui la Liberazione sarebbe stata frutto di una insurrezione popolare, filiata da una Resistenza a sua volta animata prevalentemente dai comunisti e cresciuta nonostante e contro gli Alleati.
Gli americani sono dipinti da storici alla Paul Ginsborg non come forza di liberazione, ma come forza di occupazione, con tinte che ricordano i proclami fascisti: «L’occupazione alleata della città (Napoli, ndr) fu un disastro assoluto. La città acquistò un aspetto di degradazione e di malessere quale non si conosceva dai tempi delle grandi epidemie del XVII secolo». «Il contatto con la civiltà americana, o meglio con i suoi aspetti più appariscenti (cioccolato, boogie-woogie, chewing gum) – incalza Giovanni De Luna – non risolvevano certo i gravi problemi di sopravvivenza degli italiani».
La celebrazione della Resistenza è così diventata idealizzazione di un orgoglio antifascista, polemico nei confronti dell’alleanza occidentale e della democrazia che in quel quadro si consolidò, democrazia non a caso dipinta nel dopoguerra come “tradimento” degli ideali e degli obiettivi della lotta antifascista. Gli stessi organismi che si impongono oggi come depositari dei valori della Resistenza sono stati denominati a suo tempo dal PCI “Istituti di Storia del Movimento di Liberazione italiano” con la strumentale pretesa di evocare un parallelismo con i “movimenti di liberazione” antimperialisti, antiamericani e antioccidentali in Africa e Sud America.
Ma come può sopravvivere ed essere ancora dominante questa impostazione, nonostante il comunismo sia ormai declinato? Di sicuro, perché in Italia è mancata non solo una radicale contestazione, ma anche un’effettiva rottura da parte della storiografia con l’impostazione organizzata dal PCI a partire da Un popolo alla macchia di Luigi Longo, vice segretario del PCI ed ex comandante delle Brigate Garibaldi, e continuata con la ricostruzione compiuta dal giornalista dell’Unità, Roberto Battaglia, nel saggio Storia della Resistenza italiana edito da Einaudi, primo titolo della collana di studi storici.
Ancora oggi siamo di fronte a una filodrammatica di storici che blindano la Resistenza in sostanziale continuità da Battaglia a Spriano e Ragionieri, da Quazza, Rochat e Collotti fino a Pavone e Tranfaglia: per questo motivo il muro di Berlino nelle scuole italiane non è ancora caduto. In che senso? In che cosa consiste questo “comunismo senza i comunisti”? Nessuno storico infatti si dichiara ancora comunista o marxista.
Si rimane però – nella ricostruzione e interpretazione dei fatti – nel solco del “materialismo storico” e sull’onda lunga della lettura classista del fascismo, dell’ antifascismo e della Resistenza. Siamo cioè di fronte al permanere nella storiografia italiana di una sorta di “storicismo marxista in un paese solo” che continua l’embargo culturale nei confronti degli studi e delle indicazioni di Furet, De Felice, Nolte, Pipes, Courtois e Conquest.
La trita lettura classista
Permane – nei principali luoghi di insegnamento della storia – quello che è ormai un irriducibile provincialismo culturale e cioè l’ostinazione della lettura del Novecento come teatro di scontro tra capitalismo reazionario e movimento operaio, tra schieramento borghese a deriva fascista da un lato e raggruppamento democratico in difesa delle classi sfruttate imperniato sui comunisti dall’altro. Così il fascismo è presentato come una montatura di capitalisti e agrari, l’antifascismo “borghese” come episodio secondario quando non controproducente.
Al contrario, la Resistenza viene rievocata sin dagli inizi attraverso un falso storico e cioè come figlia di un movimento sindacale, di uno sciopero operaio, e non fondata, come fu realmente, dalla lotta dei militari italiani contro i tedeschi. Quando le origini della Resistenza vengono però fatte risalire agli scioperi del ’43 sembra di assistere alla proiezione di film dell’epoca del “realismo socialista” (basti ricordae che quella vertenza, importante, ma circoscritta, si concluse con aumento salariale in coincidenza della celebrazione da parte del regime fascista del Natale di Roma).
L’altra falsificazione consiste nel rappresentare la Resistenza come una “coda” della politica dei Fronti Popolari (lanciata da Stalin al VII Congresso del Komintern nel 1935) e della Guerra di Spagna. La Resistenza italiana, in realtà, non può assolutamente essere avvicinata alla Guerra di Spagna: basti ricordare il ruolo dei cattolici, dello stesso clero, dei tanti sacerdoti che si schierarono a sostegno dei partigiani. In soldoni, del determinante appoggio dato dalla popolazione contadina che, sopportando rappresaglie e massacri, consentì la sopravvivenza delle formazioni partigiane.
Una delle ragioni della cancellazione dei militari è appunto legato all’impossibilità per la tradizione comunista di vedere contraddetto il cliché che assimila Resistenza e Guerra di Spagna. E ammettere, di conseguenza, che la lotta partigiana vide in prima fila comandanti militari – come Montezemolo e Sogno – che avevano sì partecipato alla Guerra di Spagna, ma sotto bandiera italiana a sostegno di Franco.
Questa è la verità storica. La Resistenza italiana non è stata infatti un movimento rivoluzionario di classe, non aveva come obiettivo la dittatura del proletariato e la collettivizzazione. Fu storicamente analoga a quella francese e non identificabile con quella jugoslava. Essa fu animata dai militari italiani che rifiutarono il collaborazionismo nelle giornate del settembre del 1943, da Roma a Cefalonia, e si sviluppò come movimento pluralista per la cacciata dei tedeschi affiancando gli Anglo-americani e avendo chiaro e primario obiettivo il ripristino di una democrazia parlamentare pluripartica di stampo occidentale.
Proprio per negare questa verità, la storiografia ancora prevalente ha cancellato i nomi dei capi effettivi della Resistenza: il Presidente del CLN dell’Alta Italia, Alfredo Pizzoni, e il Comandante del Corpo dei Volontari, il generale Raffaele Cadorna, a cui facevano capo tutte le formazioni partigiane. È significativo che per giustificare questa manipolazione si ricorra all’argomento che Pizzoni e Cadorna erano “legati” agli Alleati. In effetti è stato così: la Resistenza non è infatti leggibile in contrapposizione con il ruolo degli Alleati.
E la scissione artificiosa tra Resistenza e Alleati ha avuto una conseguenza: in Italia non esiste una storia della Seconda guerra mondiale e si dimentica il ruolo stesso dei militari italiani: 600.000 internati, più di 78.000 morti nei lager, più di 35.000 caduti in combattimento con importanti azioni condotte autonomamente contro la Wehrmacht come la liberazione della Corsica.
Lo sbarco in Sicilia: altro che mafia
Vediamo a titolo esemplificativo i principali falsi storici imbastiti contro gli anglo-americani. La tesi secondo cui, nello sbarco in Sicilia, gli americani si siano affidati alla mafia è ormai un luogo comune consolidato: «Da quando gli alleati sbarcarono in Sicilia – scrive la Procura di Palermo guidata da Giancarlo Caselli – legarono la loro trionfante avanzata all’accordo stipulato con alcuni esponenti di Cosa Nostra americana… Quando la DC si fece alleato sicuro del grande fratello di oltreoceano, il blocco sociale di agrari conservatori e mafia fu cooptato a sostegno dell’anticomunismo».
Generazioni di italiani hanno dunque recepito senza ombra di dubbio la folle idea secondo cui Stati Uniti e Gran Bretagna, nel luglio 1943, avrebbero diretto le loro armate da Malta e Gibilterra, migliaia di aerei e carri armati, nonché centinaia di migliaia di uomini, con l’obiettivo di sbaragliare la Wehrmacht in Sicilia, senza sapere esattamente dove andare e cosa fare. Mancando la minima documentazione, si dipingono comandanti del calibro di Patton e Montgomery quali sprovveduti che sbarcano in Italia mettendosi nelle mani di una decina di mafiosi alla Calogero Vizzini e Genco Russo.
Il piano di infiltrazione in previsione dello sbarco alleato era in verità nato nell’agosto del ’42 presso i servizi segreti americani del Si (Secret Intellicence/Italy). A promuoverlo, italo-americani – da Max Corvo a Vincent Scamporino e Frank Tarallo – per nulla coinvolti con ambienti mafiosi che erano animati da un doppio patriottismo: amavano il nostro Paese e operarono affinché gli Stati Uniti non considerassero gli italiani un popolo nemico.
Parri e Pajetta non parlavano inglese
Altro falso storico: come viene tramandato l’appello del generale Alexander che, alla vigilia dell’inverno 1944, invitava i partigiani a una pausa in attesa della primavera 1945 in cui sarebbe scattata l’offensiva finale. Si usa questo testo a prova di una scissione tra Resistenza e Alleati.
Una leggenda assurda basata su due cancellazioni: la missione al Sud del CLN dell’Alta Italia guidato da Pizzoni e il ruolo moderato svolto dal PCI in quelle settimane in cui pensava a un governo senza socialisti e azionisti. Il proclama Alexander venne infatti corretto e superato dal proclama del generale Clark proprio in seguito all’intervento di Pizzoni e Sogno (Parri e Pajetta facevano parte della delegazione del CLNAI, ma – anche perché non parlavano inglese – furono una presenza del tutto irrilevante e subalterna).
Pizzoni e Sogno riuscirono dunque a far cambiare idea agli Alleati stabilendo le intese organizzative, militari e finanziarie che rilanciarono la lotta partigiana. In quel novembre-dicembre 1944, perfino Togliatti puntava a diventare vicepresidente del Consiglio del secondo governo Bonomi, spaccando lo schieramento di sinistra in seno al CLN e cercando di accreditare il PCI agli occhi degli Alleati come “veritable instrument d’ordre et de concorde” per usare le parole di Marchesi, delegato di Togliatti nell’incontro con il colonnello Roseberry.
La collaborazione tra Alleati e partigiani fu talmente intensa e decisiva che la storiografia marxista per rimuoverla non ha esitato a negare l’esistenza persino dei militari dichiaratamente di sinistra e filocomunisti (in particolare il ruolo svolto durante la lotta di liberazione dai militari americani reduci della Brigata Lincoln che aveva combattuto in Spagna e che svolsero un’intensa attività di raccordo con le brigate partigiane).
La Resistenza non può quindi essere raccontata e compresa come una sorta di corpo separato, del tutto avulso dallo schieramento militarmente in lotta contro i tedeschi. Vi fu – è vero – una resistenza particolare da parte comunista, una sorta di “resistenza parallela”. Che si svolse prescindendo dal CLN, tradendo a favore degli jugoslavi (Porzus), oppure dando vita coi GAP al terrorismo urbano.
Ma va pure ricordato che le principali azioni dei GAP non vennero condivise dagli altri partiti antifascisti: il CLN bocciò il documento comunista di appoggio all’attentato di via Rasella e l’uccisione di Giovanni Gentile venne bollata come “assassinio” proprio dai leader degli altri due partiti di sinistra del CLN e cioè dall’azionista Tristano Codignola e dal socialista Pietro Nenni.