pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno
Il sottosegretario Mantovano sulle critiche a Pera
Alfredo Mantovano
Tralascio i commenti, evidentemente fondati sulle sintesi e non sull’originale. Non indosso la toga di difensore, né d’ufficio né di fiducia, del presidente del Senato, anche perché spero che cessi il processo cui è stato sottoposto negli ultimi sette giorni.
Domando soltanto se le questioni – non poche e non di lieve entità – poste nelle 13 intense pagine della sua relazione possano essere, tutte e in blocco, liquidate col riferimento ai “meticci”: riferimento che, come insegna l’esegesi più elementare, andrebbe letto nel passaggio nel quale si colloca; e che, letto in tal modo, perde ogni connotazione etnica o razziale, per assumerne una – assolutamente diversa – di carattere culturale.
Qualcuno è andato più in là, contestando l’ipotesi – presentata da Pera come estrema – dell’uso delle armi per contrastare l’aggressione del terrorismo di matrice islamica;chiedo ai critici di Pera, confidando nell’onestà della risposta:quando il 30 luglio 1480 le armate di Maometto II, guidate da Agomath pascià, sbarcate in Puglia e dirette a Roma, proposero agli abitanti di Otranto la resa in cambio della rinuncia a resistere, costoro hanno fatto bene a ricorrere alle armi, di fatto impedendo la presa della capitale della Cristianità (ipotesi più che concreta, 27 anni dopo la conquista e la devastazione di Costantinopoli), o avrebbero dovuto lasciarli passare, riservandosi per il futuro l’avvio di un bel dialogo interreligioso?
Oggi, in Iraq (al di là delle differenti opinioni sull’ opportunità dell’intervento USA nel 2003), mentre si discute della nuova Costituzione e dopo elezioni per la prima volta regolari, con un Parlamento e con un Governo democraticamente eletti, ci si dovrebbe sedere al medesimo tavolo con chi spara sulle autoambulanze e fa esplodere bombe in mezzo ai bambini e ai civili di ogni età, o li si deve combattere (ahimè, con le armi) come si fa con i mafiosi e con i criminali?
Sono considerazioni tanto ovvie da apparire banali: ma se sono tali vorrei comprendere dove è lo scandalo nelle parole di Pera. Interessa invece fare un passo in avanti. Perché il presidente del Senato, oltre agli attacchi volgari di chi gli è distante politicamente, ha ricevuto critiche (garbate ma sostanziali), dentro e fuori il Meeting, da autorevoli esponenti della maggioranza, accompagnate dal richiamo alla necessità del dialogo.
E’ su questo vorrei soffermarmi. Il termine “dialogo”, e ancora di più l’espressione “dialogo con l’Islam moderato”, sono infatti adoperati quasi in automatico, con tale frequenza che alla fine, come tutte le realtà inflazionate, se ne perde il significato. In realtà, la riflessione sulla nostra identità di occidentali, sul relativismo che pervade il nostro mondo, sui limiti del multiculturalismo, sull’equivocità della tolleranza, non è di per sé incompatibile con una interlocuzione seria con chi è portatore di culture e fedi diverse.
Dialogo è un concetto occidentale; è nato con Socrate, che lo considera un metodo e lo contrappone al monologo dei Sofisti. Mentre il monologo è un discorso di parata, che “guasta l’anima in modo irreparabile”, per Socrate il dialogo ha una finalità pedagogica ed etica: serve a convincere l’altro che il sommo bene per l’uomo è avere cura della sua anima.
Questo metodo connota nella dialettica socratica il rapporto fra il maestro e il discepolo. Il dialogo è diventato, sempre in Occidente, un genere letterario, una conversazione fra persone ciascuna delle quali illustra una differente posizione sul tema che si tratta: si ritrova così nelle opere di Platone, di Cicerone, in larga parte della letteratura cristiana, fino a giungere – pur con interpretazioni differenti – alla filosofia del Novecento (Kaspers e Abbagnano).
Tutto ciò per dire che il dialogo fa parte della nostra forma mentis: a tal punto che da un lato ne abbiamo perduto il senso autentico e originario, dall’altro riteniamo –sbagliando – che persone provenienti da culture diverse dalla nostra lo intendano necessariamente come noi; per noi nella categoria del dialogo, pur nell’indeterminatezza del suo attuale significato, rientrano comunque concetti come eguaglianza, reciprocità, lealtà nelle relazioni, pari dignità personale delle parti.
Siamo sicuri che il nostro interlocutore di fede islamica condivida questi contenuti? Ci sono culture le cui lingue non hanno una parola che riesca a tradurre ciò che noi definiamo “dialogo”; ovvero che intendono il termine, proprio perché proviene dall’Occidente, come espressione di debolezza di colui che lo propone. Si può parlare di dialogo quando solo uno degli interlocutori sa di che si tratta e ne condivide il metodo?
Questo senza trascurare la effettiva rappresentatività di colui o di coloro con i quali si dovrebbe dialogare. Siamo portati – e questa è un’altra fonte di equivoci – a trasferire le categorie che valgono per il dialogo ecumenico fra cristiani al confronto con confessioni religiose diverse dal Cristianesimo; mentre nel primo caso vi è il comune denominatore della fede in Cristo, vi è una distinzione chiara tra fede, cultura e politica, ed è facile identificare chi rappresenta ufficialmente la singola confessione, non altrettanto può dirsi per l’Islam: spesso ci si trova di fronte a singoli gruppi non rappresentativi e non ben visti dai loro stessi correligionari.
Questo non vuol dire che non si debba cercare con tutti i mezzi pacifici la soluzione dei problemi derivanti dalla convivenza con persone che hanno fedi e culture profondamente diversi; né vuol dire disconoscere l’esistenza in Occidente di tanti musulmani che desiderano integrarsi nel nostro mondo, e nei Paesi a maggioranza islamica di tanti musulmani che non ci considerano nemici da distruggere ma amici con cui colloquiare.
Significa non immaginare da un lato che questi fedi e queste culture siano delle “sovrastrutture” o dei dati intimistici che non influenzano profondamente l’agire quotidiano, dall’altro che sia così semplice individuare l’interlocutore e le modalità di interlocuzione.
Pera a Rimini ha richiamato questa problematicità, e ha invitato a scoprire fino in fondo chi siamo e quale è la nostra identità. Demonizzarlo non serve a cancellare o a ridimensionare le questioni sulle quali il presidente del Senato ha attirato l’attenzione. Ricorrere, per criticarlo, alla formuletta del “dialogo” non sposta di una virgola la difficoltà delle questioni. Discutere con minore sommarietà e con maggiore franchezza può far bene a tutti: anche a chi ci ha raggiunto venendo da un “lontano” culturale, prima ancora che geografico.