Il valore civile di matrimonio e famiglia
Francesco D’Agostino
Non mi interessa, in questo contesto, discutere le ragioni che vengono avanzate a giustificazione di questo disegno di legge.
Mi da piuttosto da pensare il fatto che, se è stata fondata una “Lega per il divorzio breve”, nessuno abbia pensato a fondare una Lega per il “divorzio giusto”. Si dirà: ma chi avrebbe dovuto pensarci? Per i cattolici il divorzio non è mai giusto; per i non cattolici il divorzio non è né giusto né ingiusto: è una facoltà che la legge riconosce, congiuntamente o disgiuntamente, a qualsiasi coppia coniugale.
Chi auspica un “divorzio breve” non lo pensa come una questione di giustizia, ma come una questione di opportunità: si tratterebbe di abbattere le spese legali a carico dei divorziandi, di sciogliere al più presto la comunione dei beni eventualmente instaurata tra loro, di far riacquistare nel più breve tempo possibile a chi chieda il divorzio uno stato anagrafico, che lo legittimi a contrarre un nuovo matrimonio (in ossequio alla vecchia facezia, secondo la quale un secondo matrimonio rappresenterebbe “la vittoria della speranza sull’esperienza”).
Messe così, le cose possono apparire tutto sommato “ragionevoli”. Appaiono tali, però, solo per chi abbia recepito come indiscutibile un principio che è invece tutt’altro che “ragionevole” e cioè che la possibilità del divorzio debba essere riconosciuta appunto come una facoltà o addirittura come un vero e proprio “diritto” di tutte le persone coniugate: un diritto il cui esercizio potrebbe essere anche ritenuto conturbante, aspro, lacerante; ciò non di meno un vero e proprio diritto.
Stanno davvero così le cose? La risposta è no. Ancora una volta si tratta di un “no”, che non è basato su ragioni confessionali (come pensano erroneamente molti “laici”, che liquidano la questione dicendo che nessuno obbliga “i cattolici” a divorziare, se credono all’ indissolubilità del vincolo), ma su ragioni antropologiche e sociali.
Tutto dipende ovviamente da una corretta comprensione di cosa sia e di cosa non sia il matrimonio. Il matrimonio non è un fatto privato, è un fatto pubblico; non è una tecnica per gratificare o legittimare la passione amorosa di una coppia, è un’ istituzione sociale, finalizzata alla costruzione delle famiglie e volta a garantire i rapporti intergenerazionali.
E lo scioglimento del matrimonio non consiste semplicemente nella presa d’atto sociale della crisi di una coppia intenzionata a separarsi e di sperimentare nuove unioni coniugali; è piuttosto la presa d’atto di una gravissima frattura di quell’ordine sociale familiare che governa e umanizza (la parola non sembri esagerata) le vite private dei cittadini.
Una frattura che storicamente a volte si rivela talmente pericolosa, da rendere indispensabile da parte dei governanti l’attivazione di politiche sociali a difesa del matrimonio e della famiglia (e Dio solo sa quanto oggi si senta il bisogno di tali politiche). Non è questo né il tempo né il luogo per riaprire la questione etica, politica e giuridica della legalizzazione del divorzio in Italia, che si è attuata in un modo particolarmente goffo (la nostra legge non usa mai la parola «divorzio», ma l’espressione «cessazione degli effetti civili del matrimonio»!).
La questione è quella della progressiva banalizzazione del divorzio, che comporta inevitabilmente un’ulteriore banalizzazione dei vincoli coniugali. Che questi vincoli siano in sofferenza in tutti i maggiori Paesi occidentali tutti sono portati a riconoscerlo; ben pochi, però, hanno l’onestà intellettuale di riconoscere che la crisi antropologica che caratterizza queste stesse società va, almeno in gran parte, ricondotta proprio a tale sofferenza e al conseguente inevitabile alterarsi dei vincoli coniugali e intergenerazionali.
Non conta quanto il divorzio possa essere “lungo” o “breve”: dobbiamo tornare a interrogarci su quanto esso possa essere “giusto”. Questo è il cuore della questione.