“La mentalità occidentale ha voluto rendere la liturgia un’opera educativa. Abbiamo cercato di rendere le celebrazioni amichevoli e attraenti”. Ma questo è sbagliato. Una riflessione del cardinale Sarah
di Robert Sarah
In molti paesi, la pratica del culto cristiano è interrotta dalla pandemia Covid-19. I fedeli non possono incontrarsi nelle chiese, non possono partecipare sacramentalmente al sacrificio eucaristico. Questa situazione è fonte di grande sofferenza. E’ anche un’opportunità che Dio ci offre per comprendere meglio la necessità e il valore del culto liturgico.
Come cardinale prefetto della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, ma soprattutto in profonda comunione nell’umile servizio di Dio e della sua Chiesa, desidero offrire questa meditazione ai miei fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio e al popolo di Dio per cercare di imparare alcune lezioni da questa situazione.
Qualche volta è stato detto che, a causa dell’epidemia e del confinamento ordinato dalle autorità civili, il culto pubblico è stato sospeso. Questo non è corretto.
Il culto pubblico è il culto reso a Dio da tutto il Corpo mistico, il Capo e le membra, come ricordato dal Concilio Vaticano II: “Effettivamente per il compimento di quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua sposa amatissima, la quale l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre. Giustamente perciò la liturgia è considerata come l’esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo. In essa, la santificazione dell’uomo è significata per mezzo di segni sensibili e realizzata in modo proprio a ciascuno di essi; in essa il culto pubblico integrale è esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal capo e dalle sue membra. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado”(Sacrosanctum Concilium 7).
Questo culto è reso a Dio ogni volta che viene offerto nel nome della Chiesa da persone legittimamente incaricate e secondo gli atti approvati dall’autorità della Chiesa (Codice di Diritto Canonico, c 834). Pertanto, ogni volta che un sacerdote celebra la messa o la liturgia delle ore, anche se è solo, offre il culto pubblico e ufficiale della Chiesa in unione con il suo Capo, Cristo e per conto di tutto il Corpo.
E’ necessario ricordare questa verità, per cominciare. Ci permetterà di dissipare meglio alcuni errori. Naturalmente, per trovare la sua piena e manifesta espressione, è preferibile che questo culto possa essere celebrato con la partecipazione di una comunità di fedeli del popolo di Dio.
Ma può succedere che ciò non sia possibile. L’assenza fisica della comunità non impedisce la realizzazione del culto pubblico anche se interrompe parte della sua realizzazione. Pertanto, sarebbe sbagliato pretendere che un sacerdote si astenga dalla celebrazione della messa in assenza dei fedeli.
Al contrario, nelle circostanze attuali in cui viene impedito al popolo di Dio di unirsi sacramentalmente a questa adorazione, il sacerdote è più legato alla celebrazione quotidiana. Infatti, nella liturgia, il sacerdote agisce in persona Ecclesiae, nel nome di tutta la Chiesa e in persona Christi, nel nome di Cristo, Capo del corpo, per adorare il Padre. E’ l’ambasciatore, il delegato di tutti coloro che non possono esserci.
E’ quindi comprensibile che nessuna autorità secolare possa sospendere il culto pubblico della Chiesa. Questa adorazione è una realtà spirituale sulla quale l’autorità temporale non ha alcun controllo. Questa adorazione continua ovunque venga celebrata una messa, anche senza la presenza delle persone lì riunite.
D’altra parte, spetta a questa autorità civile vietare le riunioni che sarebbero pericolose per il bene comune in considerazione della situazione sanitaria. E’ anche responsabilità dei vescovi collaborare con le autorità civili nella massima franchezza.
Probabilmente era quindi legittimo chiedere ai cristiani di astenersi, per un periodo breve e limitato, dal riunirsi. D’altra parte, però, è inaccettabile che le autorità incaricate del bene politico si permettano di giudicare la natura urgente o non urgente del culto religioso e vietino l’apertura di chiese, il che consentirebbe ai fedeli di pregare, confessarsi e comunicarsi, purché siano rispettate le norme sanitarie.
Come “promotori e tutori di tutta la vita liturgica”, spetta ai vescovi chiedere fermamente e senza indugio il diritto di riunirsi non appena ciò sia ragionevolmente possibile.
In questo caso, l’esempio di san Carlo Borromeo può illuminarci. Durante la pestilenza di Milano, applicò nelle processioni le severe misure sanitarie raccomandate dall’autorità civile del suo tempo che assomigliavano alle misure di distanziamento del nostro tempo.
I fedeli cristiani hanno anche il diritto e il dovere di difendere con fermezza e senza compromessi la loro libertà di culto. Una mentalità secolarizzata considera gli atti religiosi come attività secondarie al servizio del benessere delle persone, come le attività ricreative e culturali. Questa prospettiva è radicalmente falsa.
La lode e l’adorazione sono oggettivamente dovute a Dio. Gli dobbiamo questa adorazione perché è il nostro Creatore e il nostro Salvatore. L’espressione pubblica del culto cattolico non è una concessione dello stato alla soggettività dei credenti. E’ un diritto oggettivo di Dio.
E’ un diritto inalienabile di ogni persona. “Il dovere di rendere a Dio un culto autentico riguarda l’uomo individualmente e socialmente” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2105). Questa è “la tradizionale dottrina cattolica sul dovere morale degli uomini e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo”, ricorda il concilio Vaticano II, (Dignitatis Humanae, 1).
Vorrei quindi rendere omaggio ai sacerdoti e ai religiosi e religiose che hanno assicurato la continuità del culto cattolico pubblico nei paesi più colpiti dalla pandemia. Celebrando in solitudine hanno pregato nel nome di tutta la Chiesa, erano la voce di tutti i cristiani che saliva al Padre.
Voglio anche ringraziare tutti i fedeli laici che si sono presi la briga di associarsi a questo culto pubblico celebrando la liturgia delle ore nelle loro case o unendosi spiritualmente alla celebrazione del Santo sacrificio della messa.
Alcuni hanno criticato la trasmissione di queste liturgie mediante comunicazioni come la televisione o Internet. Non c’è dubbio che, come ci ha ricordato Papa Francesco, l’immagine virtuale non sostituisce la presenza fisica. Gesù è venuto a toccarci nella nostra carne. I sacramenti estendono la sua presenza a noi.
Va ricordato che la logica dell’Incarnazione, e quindi dei sacramenti, non può fare a meno della presenza fisica. Nessuna trasmissione virtuale sostituirà mai la presenza sacramentale. A lungo termine, potrebbe persino essere dannoso per la salute spirituale del sacerdote che, invece di rivolgere lo sguardo a Dio, guarda e parla a un idolo: a una telecamera, allontanandosi così da Dio che ci ha amato fino al punto di liberare il suo unico Figlio sulla croce affinché possiamo avere la vita.
A ogni modo, voglio ringraziare tutti coloro che hanno lavorato a queste trasmissioni. Hanno permesso a molti cristiani di unirsi spiritualmente al culto pubblico ininterrotto della Chiesa. In questo sono stati utili e fruttuosi. Hanno anche aiutato molte persone a cercare sostegno per la loro preghiera.
Voglio rendere omaggio all’inventiva e all’immaginazione dei cristiani che hanno mostrato nell’emergenza. Tuttavia, voglio attirare l’attenzione di tutti su determinati rischi. I mezzi di trasmissione virtuale potrebbero indurre una logica di ricerca di successo, immagine, spettacolo o pura emozione. Questa logica non è quella del culto cristiano.
Il culto non mira a catturare gli spettatori attraverso una telecamera. E’ diretto e orientato verso il Dio della Trinità. Per evitare questo rischio, questa trasformazione del culto cristiano in uno spettacolo, è importante riflettere su ciò che Dio ci sta dicendo attraverso la situazione attuale. Il popolo cristiano si trovò nella situazione del popolo ebraico in esilio, privato del culto.
Il profeta Ezechiele ci insegna il significato spirituale di questa sospensione del culto ebraico. Dobbiamo rileggere questo libro dell’Antico Testamento le cui parole sono molto attuali. Il popolo eletto non sapeva come offrire un culto veramente spirituale a Dio, afferma il profeta. Si rivolse agli idoli. “I suoi sacerdoti hanno violato la mia legge e profanato i miei santuari; tra il sacro e il profano, non fecero alcuna differenza e non insegnarono a distinguere l’impuro e il puro, … e io ero profanato in mezzo a loro” (Ez 22,26). Quindi la gloria di Dio abbandonò il tempio di Gerusalemme (Ez 10,18).
Ma Dio non si vendica. Se lascia che accadano disastri naturali al suo popolo, l’intento è sempre quello di educarli meglio e offrire loro una grazia di alleanza più profonda (Ez 33,11). Durante l’esilio, Ezechiele insegna al popolo i metodi di un’adorazione più perfetta, di un’adorazione più vera (Ez cap. 40-47). Il profeta suggerisce un nuovo tempio da cui sgorga un fiume di acqua viva (Ez 47,1). Questo tempio simboleggia, prefigura e annuncia il Cuore trafitto di Gesù, il vero tempio.
Questo tempio è servito da sacerdoti che non avranno eredità in Israele, né terra in proprietà privata. “Non sarà data loro l’eredità in Israele, io sarò la loro eredità” (Ez 44,28), dice il Signore. Credo che possiamo applicare queste parole di Ezechiele ai nostri tempi. Inoltre, neppure noi abbiamo fatto distinzione tra sacro e profano.
Abbiamo spesso guardato dall’alto in basso la santità delle nostre chiese. Le abbiamo trasformate in sale da concerto, ristoranti o dormitori per poveri, rifugiati o migranti privi di documenti. La Basilica di San Pietro e quasi tutte le nostre cattedrali, espressioni viventi della fede dei nostri antenati, sono diventate grandi musei, calpestate e profanate, davanti ai nostri occhi, da una sfilata di turisti, spesso non credenti e irrispettosi dei luoghi santi e del Santo Tempio del Dio vivente.
Oggi, attraverso una malattia che non ha voluto, Dio ci offre la grazia di sentire quanto ci mancano le nostre chiese. Dio ci offre la grazia di provare che abbiamo bisogno di questa casa che sta al centro delle nostre città e dei nostri villaggi. Abbiamo bisogno di un posto, un edificio sacro, vale a dire riservato esclusivamente a Dio.
Abbiamo bisogno di un luogo che non sia solo uno spazio funzionale per incontri e intrattenimento culturale. Una chiesa è un luogo in cui tutto è orientato verso la gloria di Dio, l’adorazione della sua maestà. Non è tempo, quando si legge il libro di Ezechiele, di riguadagnare il senso di sacralità? Vietare manifestazioni profane nelle nostre chiese? Riservare l’accesso all’altare solo ai ministri del culto? Per bandire le grida, gli applausi, le conversazioni mondane, la frenesia delle fotografie di questo luogo in cui Dio viene a vivere?
“La chiesa non è un luogo in cui ogni mattino si svolge qualcosa, mentre rimarrebbe vuota e ‘senza funzione’ per il resto della giornata. In quel luogo che è la chiesa c’è sempre la Chiesa, poiché il Signore si dona sempre, poiché rimane il mistero eucaristico e poiché avanzando verso questo mistero, siamo sempre inclusi nel culto divino di tutta la Chiesa credente, orante e amante. Conosciamo tutti la differenza tra una chiesa piena di preghiere e una chiesa che è diventata un museo. Oggi corriamo il grande pericolo che le nostre chiese diventino musei”. (Joseph Ratzinger, Eucharistie. Mitte der Kirche, Monaco, 1978).
Potremmo ripetere le stesse parole sulla domenica, il giorno del Signore, il santuario della settimana. Non l’abbiamo profanata rendendola una giornata di lavoro, una giornata di puro divertimento mondano? Oggi ci manca molto. I giorni si susseguono simili tra loro.
Dobbiamo ascoltare la parola del profeta che ci incolpa per “aver violato il santuario”. Dobbiamo permetterci di riapprendere il culto nello spirito e nella verità. Molti sacerdoti hanno scoperto la celebrazione senza la presenza della gente. Hanno così sperimentato che la liturgia è principalmente e soprattutto “il culto della maestà divina”, secondo le parole del Vaticano II (SC 33). Non è principalmente un insegnamento o un esercizio missionario. O meglio, diventa veramente missionario solo nella misura in cui è interamente ordinata “la perfetta glorificazione di Dio” (SC 5).
Celebrando da soli, i sacerdoti non avevano più il popolo cristiano di fronte a loro, ma si sono resi conto che la celebrazione della messa è ancora indirizzata al Dio Uno e Trino. Volgi lo sguardo verso est. Perché “è dall’est che arriva l’espiazione. Questo è il luogo da cui proveniva l’uomo di nome Oriente, che divenne un mediatore tra Dio e gli uomini. Con ciò, siete quindi invitati a guardare sempre verso est, dove sorge il Sole di giustizia, dove la luce appare sempre per voi”, dice Origene in un’omelia su Levitico.
La messa non è un lungo discorso rivolto alla gente, ma un elogio e una supplica rivolti a Dio. La mentalità occidentale contemporanea, modellata dalla tecnica e affascinata dai media, a volte ha voluto rendere la liturgia un’opera educativa efficace e redditizia. In questo spirito, abbiamo cercato di rendere le celebrazioni amichevoli e attraenti.
Gli attori liturgici, animati da motivazioni pastorali, a volte volevano fare un lavoro educativo introducendo elementi profani o spettacolari nelle celebrazioni. Non abbiamo visto fiorire testimonianze, messe in scena e applausi? Crediamo quindi di favorire la partecipazione dei fedeli e riduciamo la liturgia a un gioco umano. C’è il rischio reale di non lasciare spazio a Dio nelle nostre celebrazioni. Corriamo la tentazione degli ebrei nel deserto. Hanno cercato di creare un culto a loro misura e alla loro altezza umana, non dimentichiamoci che sono finiti prostrati davanti all’idolo del vitello d’oro che si erano fatti da soli!
Dobbiamo stare attenti: la moltiplicazione delle messe filmate potrebbe accentuare questa logica di spettacolo, questa ricerca di emozioni umane. Papa Francesco ha esortato i sacerdoti a non diventare uomini di spettacolo, maestri dello spettacolo. Dio si è incarnato in modo che il mondo potesse avere vita: Dio non è venuto nella nostra carne per il piacere di impressionarci o per allestire uno spettacolo, ma piuttosto per condividere con noi la pienezza della sua vita. Gesù, che è il Figlio del Dio vivente (Mt 16,16) e al quale il Padre ha dato di avere la vita in se stesso (Gv 5, 26) non è venuto solo per placare l’ira di suo Padre o cancellare qualsiasi debito.
E’ venuto per dare la vita e per darla in abbondanza. E ci dà questa pienezza di vita morendo sulla croce. Ecco perché nel momento in cui il sacerdote, in una vera identificazione con Cristo e con umiltà, celebra la santa messa, deve poter dire: “Sono crocifisso con Cristo. Vivo, ma non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2, 19-20). Deve sparire dietro Gesù Cristo e lasciare che Cristo sia in diretto contatto con il popolo cristiano.
Il sacerdote deve quindi diventare uno strumento che lascia trasparire Cristo. Non deve cercare la simpatia dell’assemblea ponendosi di fronte come principale interlocutore.
Entrare nello spirito del Concilio suppone al contrario di fare un passo indietro, di rinunciare a essere il punto focale. L’attenzione di tutti deve rivolgersi a Cristo, alla croce, il vero centro di ogni culto cristiano. Si tratta di lasciare che Cristo ci prenda e ci associ al suo sacrificio. La partecipazione al culto liturgico deve essere intesa come una grazia di Cristo “che si unisce alla Chiesa” (SC 7). E’ lui che ha iniziativa e primato.
“La Chiesa l’invoca come suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’eterno Padre” (SC 7). Allo stesso modo, occorre prestare attenzione alla logica dell’efficienza generata dall’uso di Internet. E’ consuetudine giudicare le pubblicazioni in base al numero di “visualizzazioni” che generano. Questo induce la ricerca di imprevisti, emozioni, sorprese. Il culto liturgico è estraneo a questa scala di valori.
La liturgia ci mette davvero alla presenza della trascendenza divina. Partecipare alla verità suppone di rinnovare in noi questo “stupore” che san Giovanni Paolo II ha tenuto in grande considerazione (Ecclesia de Eucharistia, 6). Questo sacro stupore, questa gioiosa paura, richiede il nostro silenzio davanti alla maestà divina. Spesso dimentichiamo che il sacro silenzio è uno dei mezzi che il Concilio indica per incoraggiare la partecipazione.
La participatio actuosa nell’opera di Cristo presuppone quindi di lasciare il mondo secolare per entrare nella “azione sacra per eccellenza” (SC 7). Talvolta pretendiamo, con una certa arroganza, di rimanere nell’essere umano per entrare nel divino. Al contrario, nelle ultime settimane abbiamo sperimentato che per trovare Dio era utile lasciare le nostre case e andare a casa sua, nella sua dimora sacra: la chiesa.
La liturgia è una realtà fondamentalmente mistica e contemplativa, e quindi oltre la portata della nostra azione umana, quindi l’ingresso nella partecipazione al suo mistero è una grazia di Dio. Infine, vorrei insistere sulla realtà sacra fra tutte: la santa eucaristia. La perdita della comunione è stata una profonda sofferenza per molti fedeli. Lo so e voglio dire loro la mia profonda compassione. La loro sofferenza è proporzionale al loro desiderio.
Noi ci crediamo: Dio non lascerà questo desiderio insoddisfatto. Va anche ricordato che nessun sacerdote dovrebbe sentirsi impedito di confessare e dare comunione ai fedeli nella chiesa o nelle case private, con le necessarie precauzioni sanitarie. Ma la situazione della carestia eucaristica può portarci a una salutare consapevolezza.
Non abbiamo dimenticato la santità dell’eucaristia? Ascoltiamo storie di sacrilegio che tolgono il fiato: sacerdoti che avvolgono le ostie consacrate in sacchi di plastica o di carta, per consentire ai fedeli di usare liberamente le ostie consacrate e portarle a casa, o anche altri che distribuiscono la santa comunione osservando la distanza corretta e usando, ad esempio, una pinzetta per evitare il contagio. Quanto siamo lontani da Gesù che si è avvicinato ai lebbrosi e, allungando le mani, li ha toccati per guarirli, o da padre Damiano che ha dedicato la sua vita ai lebbrosi di Molokai (Hawaii). Questo modo di trattare Gesù come un oggetto senza valore è una profanazione dell’eucaristia.
Non l’abbiamo spesso considerata di nostra proprietà? Tante volte ci siamo comunicati attraverso l’abitudine e la routine, senza preparazione o ringraziamento. La comunione non è un diritto, è una grazia libera che Dio ci offre. Questo tempo ci ricorda che dovremmo tremare di gratitudine e cadere in ginocchio davanti alla Santa Comunione.
Qui vorrei ricordare le parole di Benedetto XVI: “Abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. (…)”
“Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! (Corpus Domini, 7 giugno 2012)”.
“Quanto a noi sacerdoti, siamo sempre stati consapevoli di essere messi da parte, consacrati come servi, ministri del culto del Dio Altissimo? Come dice il profeta Ezechiele, viviamo senza avere su questa terra eredità diverse da Dio stesso? Al contrario, molto spesso siamo stati mondani. Abbiamo chiesto popolarità, successo secondo i criteri del mondo. Anche noi abbiamo profanato il santuario del Signore. Alcuni di noi sono persino arrivati al punto di profanare questo sacro tempio della presenza di Dio: il cuore e il corpo dei più deboli, dei bambini. Anche noi dobbiamo chiedere perdono, fare penitenza e riparare.
Una società che perde il senso del sacro corre il rischio di regredire alla barbarie. Il senso di grandezza di Dio è il cuore di tutta la civiltà. In effetti, se ogni uomo merita rispetto, è fondamentalmente perché è creato a immagine e somiglianza di Dio. La dignità dell’uomo è un’eco della trascendenza di Dio. Se non tremiamo più di gioia gioiosa e riverente davanti alla maestà divina, come riconosceremo in ogni persona un mistero degno di rispetto?
Se non vogliamo più inginocchiarci umilmente e come segno di amore filiale davanti a Dio, come potremmo inginocchiarci davanti all’eminente dignità di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio? Se non accettiamo più di inginocchiarci rispettosamente e in adorazione davanti alla presenza più umile, più debole e più insignificante, ma più reale e più viva che è la santa eucaristia, come esiteremmo a uccidere il bambino non ancora nato, il più debole, il più fragile e legalizzare l’aborto, che è un crimine orribile e barbaro?
Perché ora conosciamo la verità, grazie al progresso della genetica fondamentale, che l’ha appena stabilita scientificamente in modo definitivo e irrefutabile: il feto umano è stato dal momento della sua concezione un essere pienamente umano. Se perdiamo il senso di adorare Dio, le relazioni umane saranno colorate con volgarità e aggressività. Più saremo rispettosi verso Dio nelle nostre chiese, più saremo in grado di essere delicati e cortesi con i nostri fratelli nel resto della nostra vita.
I pastori devono quindi, non appena le condizioni sanitarie lo consentano, offrire al popolo cristiano l’opportunità di adorare insieme e solennemente la maestà divina nel santissimo sacramento. Papa Francesco ci ha recentemente dato l’esempio di questo in Piazza San Pietro. Sarà necessario lodare, ringraziare attraverso le processioni pubbliche.
Sarà un’opportunità per le persone di riunirsi e sperimentare che la comunità cristiana è nata dall’altare del sacrificio eucaristico. Incoraggio, appena possibile, manifestazioni di pietà popolare come il culto delle reliquie dei santi patroni delle città. E’ necessario che il popolo di Dio manifesti ritualmente e pubblicamente la propria fede.
Benedetto XVI ha affermato: “Il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe ‘appiattito’, e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità” (Corpus Domini, 2012).
Questi eventi saranno un’occasione per enfatizzare il valore della supplica, dell’intercessione, della riparazione delle offese contro Dio e della propiziazione per il culto cristiano. Sarebbe una buona cosa, ove possibile, svolgere nuovamente le processioni di supplica, comprese le litanie dei santi. Infine, vorrei sottolineare la preghiera per il defunto.
In molti paesi, il defunto doveva essere seppellito senza che fossero celebrati i funerali. Dobbiamo riparare questa ingiustizia. Inoltre, vorrei deplorare alcune pratiche recenti qui, che favoriscono lo sviluppo di nuovi modi di smaltire i resti mortali, tra cui l’idrolisi alcalina, in cui il corpo del defunto viene posto in un cilindro di metallo e sciolto in un bagno chimico, da cui non rimangono che solo pochi frammenti ossei, simili a quelli derivanti dall’incenerimento. Gli scarti vengono quindi scaricati nelle fognature.
Il processo di idrolisi alcalina non mostra rispetto per la dignità del corpo umano che corrisponde a quella proclamata dalla legge della Chiesa. Ma anche se non abbiamo fede, è assolutamente disumano, crudele e irrispettoso trattare le persone che amiamo e che ci hanno amato così tanto. “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se qualcuno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché il tempio di Dio è sacro, e questo tempio siete voi” (1 Cor 3, 16-17; 6, 19).
Per pietà filiale, dobbiamo circondare tutti i defunti con un’ardente preghiera di intercessione per la salvezza delle loro anime. Incoraggio i pastori a celebrare messe solenni per i defunti. Rasserenano quei casi in cui, secondo le usanze di ciascun luogo, la messa sia seguita da un’assoluzione celebrata in presenza di una rappresentazione simbolica del defunto (tumulo, catafalco) e da una processione verso il cimitero con la benedizione della tomba.
Così la Chiesa, come una vera madre, si prenderà cura di tutti i suoi figli viventi e deceduti e presenterà a Dio in nome di tutto un servizio di adorazione, ringraziamento, propiziazione e intercessione. In effetti, “la Tradizione ricevuta dagli Apostoli include tutto ciò che contribuisce a condurre la vita del popolo di Dio in modo santo e ad accrescerne la fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede”, afferma il Concilio Vaticano II (Dei Verbum, 8) .
Il culto divino è il grande tesoro della Chiesa. Non può tenerlo nascosto, invita tutti gli uomini perché sa che in lui “è raccolta tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo (Benedetto XVI, incontro con il clero di Roma, 2 marzo 2010).
Ribadisco la mia profonda vicinanza per tutti in questo tempo di prova. Rinnovo il mio incoraggiamento fraterno ai sacerdoti che si dedicano corpo e anima e soffrono di non poter fare di più per il loro gregge. Insieme realizziamo che la comunione dei santi non è una parola vuota. Insieme, presto, renderemo di nuovo agli occhi di tutti l’adorazione che ritorna a Dio e che ci rende il suo popolo.