La presunzione di volerci educare a consumi più etici è l’ultima trovata ipocrita dello stato vorace
di Serena Sileoni e Carlo Stagnaro
Un tempo, erano solo bacco, tabacco e venere i vizi da reprimere, nascondere, tassare per punire. Oggi che lo stato è sempre più affamato di soldi, la lista dei peccati a cui attingere si è estesa a innumerevoli comportamenti apparentemente più “innocui”: mangiare cibo industriale, comprare bottiglie di plastica, bere bevande dissetanti, giocare d’azzardo.
Inutile capire se sia nato prima l’uovo o la gallina, se cioè la politica segua le mode sugli stili di vita o se le sfrutti per ricavarci tasse e imposte in anni dominati dalla cattiva informazione. Quel che importa, nei giorni di attesa di una legge di Bilancio apparentemente piena di “tasse etiche”, è comprendere a cosa esse servono e quali conseguenze hanno.
I nuovi balzelli servono, inutile girarci intorno, ad aumentare le entrate. A diminuire consumi e comportamenti scorretti no, se non altro perché per questo scopo non funzionano. L’evidenza disponibile in letteratura ci dice che, spesso, la domanda di vizi è rigida.
Quindi, delle due l’una: o le tasse sono molto alte, e in questo caso l’effetto è quello di spingere i consumatori verso beni di qualità e prezzo inferiore (così per esempio nel settore alimentare) o, se disponibili, verso prodotti illegali (il tabacco e il gasolio di contrabbando, il gioco nero); oppure l’asticella fiscale viene posta a un livello moderato, e allora gli effetti sulla domanda sono piccoli o addirittura indiscernibili, e l’erario può contare sull’agognato gettito (verosimilmente, il prelievo sulle bottiglie di plastica aggiuntivo rispetto al contributo Conai).
Nel primo caso come nel secondo, l’obiettivo dichiarato della tassazione – moralizzare i consumi – viene raggiunto raramente. Individuare il livello in corrispondenza del quale le tasse disincentivano il consumo senza incoraggiare in modo perverso comportamenti come quelli descritti è un’arte che, anche dalle esperienze straniere, non sembra contare molti adepti.
Ciò detto, quali sarebbero le conseguenze di queste forme di tassazione? Per rovesciare il titolo di un celebre articolo di Richard Posner, “Taxation by Regulation”, la tassazione è una forma di regolamentazione: non solo incide su chi, in ultima analisi, ne sostiene il costo (nei mercati dove la domanda è rigida, perlopiù il consumatore finale), ma ha anche conseguenze sui gradi di libertà di cui ciascuno di noi gode.
E questo è tanto più importante da considerare quanto più la lista di proscrizione aumenta. Lo spettro dei vizi, come detto, si sta chiaramente allargando in nome di una missione ipocritamente profilattica dello stato. Protetti, noi e l’ambiente, da un cordone sanitario fatto di allarmismi sul sale, sullo zucchero, sui polifosfati e sui polimeri, rischiamo di perdere di vista che la differenza tra vizio e virtù spesso è una questione quantitativa, basata sulla differenza tra uso e abuso.
Ma tracciare in generale e in astratto una linea accurata che dica, nelle singole vite di ciascuno di noi, quando la virtù finisce e inizia il vizio è di fatto impossibile. Lo diceva già Lysander Spooner 150 anni fa.
Per questo sarebbe preferibile che fosse ciascuno di noi a farlo, per sé e per i propri figli, mentre molto più rischioso, da un punto di vista etico, è che lo faccia la politica, una volta per tutte, dall’alto della sua presunzione fatale. Si dirà che le azioni pubbliche di sensibilizzazione e le stesse tasse sono interventi miti, che non aggrediscono la libertà di ciascuno di noi di educare i nostri figli come riteniamo più opportuno e di capire quando i nostri comportamenti e le nostre scelte diventano dannose per noi e per l’ambiente.
Ma il potere dello stato “po’ esse fero e po’ esse piuma”: cioè può ammantarsi dello stivale chiodato oppure della bonomia paternalista. Alexis de Tocqueville immaginava che le moderne forme di dispotismo avrebbero somigliato all’autorità paterna, se solo avessero avuto lo scopo di preparare gli uomini all’età adulta, anziché di lasciarli in uno stato di irresponsabile infanzia.
Le paure alimentari e ambientali che stiamo vivendo in questi anni sembrano il terreno fertile per iniziative che non hanno alcuna pretesa di risolvere problemi veri, concreti, grandi, né di prepararci all’età adulta, ma solo di giustificare la voracità dello stato.