Il Giornale mercoledì 17 febbraio 1993
A proposito di mimetismo
di Giuseppe Sermonti
Il mimetismo è un espediente naturale, attraverso il quale l’animale si trucca, si rimpiatta, e in qualche modo si sottrae allo sguardo del mondo, per scampare alle insidie dei predatori. L’animale mimetizzato fa finta di non esistere, per rimanere, più sicuro, nella sua esistenza rincantucciata.
Subito, preciso, per il lettore naturalista, che sto parlando del mimetismo criptico (o mimesi). Il lettore non specialista lo ha già compreso, ed è già corso con il pensiero agli imitatori umani, mimi, soldati in tuta, plagiari, imitatori di voci, trasformisti.
I naturalisti contemporanei, molto pili proclivi alle astuzie che alla saggezza della natura, più pronti a spiegare le corrive copiature che non i misteriosi originali, amano il mimetismo. Il mimetismo è la prova più evidente dell’opportunismo animale, l’esempio pili immediato dell’adattamento, e non richiede di chiamare in causa le forme prime, essendo sufficienti le seconde. La vita è tutto un copiare, i figli copiano i genitori, le cellule copiano le cellule, e il mondo resta quello che è, malamente sopportando gli originali, che sono sì l’innovazione e il progresso, ma che nascono come seccatori.
Per il vero, nella nostra comune morale, copiare o nascondersi sono comportamenti poco virtuosi, un po’ vili, ma la natura non ama gli eroismi, preferisce i piccoli trucchi quotidiani. S’intende, la natura dei fautori degli «adattamenti locali», che rappresentano ancor oggi il pensiero dominante (e si imitano a vicenda).
Gli esempi più citati di mimetismo criptico sono gli insetti che imitano bastoncelli, foglie verdi, lamine o frammenti di foglie secche. La Kallima dei tropici del “Vecchio mondo è colorata e brillante quando tiene le ali aperte, ma quando le chiude scompare tra le foglie. Non solo la forma e il colore diventano quelli di una foglia lanceolata, ma sulla pagina esterna dell’ala sono disegnate la nervatura principale e le laterali d’una foglia, e macchie marroni per fingere un’incipiente decomposizione. Da non crederci.
I più antichi imitatori di stecchi e pagine fogliari appartengono alla famiglia dei Fasmidi (fantasmi), i cui primi esemplari fossili risalgono al Giurassico superiore tedesco.
Il cosiddetto mimetismo batesiano (da Bates) è quel fenomeno per cui una farfalla non protetta (mimo) ne copia un’altra (modello), che è protetta da qualche meccanismo di difesa. È il caso della farfalla Viceré che imita nel colore arancio con venature brune la farfalla Monarca. La Viceré ha un sapore appetitoso mentre la Monarca è disgustosa. Secondo Bates (1862), gli uccelli predatori evitano non solo la Monarca, ma anche il suo mimo, per non rischiare di trovarsi nel becco il gusto repellente della Monarca. L’astuta Viceré se la cava cosi, senza dover portare la puzza sotto il naso del suo reale modello.
Ci sono delle lucertoline del deserto che hanno un colore così simile alle dune gessose di sabbia e alle pietruzze sparse, che qualcuno dubita che veramente ci siano. E poi dei minuscoli coleotteri neri, con la vita di vespa, che somigliano tanto alle formiche da potersi confondere con loro nelle loro comunità e nelle loro file.
Gli esempi di questo mondo di mimi non finirebbero mai, e comprendono leopardi tra il fogliame, orsi bianchi sul ghiaccio, serpenti tra i sassi e raganelle tra le foglie. Una bella serie si trova ne II mimetismo animale, edito dall’Istituto geografico De Agostini.
Tutto sembra così logico, così semplice e cosi astuto, che il capitolo potrebbe chiudersi qui, riportando le meraviglie della natura alla non-meraviglia degli scienziati. Ma è poi tutto davvero così facile? Come fanno i viventi a trasformarsi da quel che erano alle forme e colori degli sfondi naturali o dei loro modelli? Che ciò sia conveniente non spiega come ciò sia possibile.
Il biologo-avvocato americano, Norman Macbeth, autore del famoso libro Darvrin retried (Processo a Darwin), sollevò la domanda: «A chi assomigliava la Viceré prima che incominciasse a imitare la Monarca?». E, si può aggiungere, come potè percorrere il percorso di trasformazione senza essere catturata a mezza strada da un goloso uccello predatore?
Il furbo opportunismo pratico dà conto della convergenza delle forme solamente agli ingenui. In realtà la convergenza rimane largamente inspiegabile, rimane meravigliosa, e certamente chiama in causa leggi di forme che operano in parallelo e l’esistenza di forme prime di cui tutti sono modelli.
Un ultimo cenno ai grandi imitatori tra gli insetti, ai Fasmidi, mimi di stecchi e di pagine fogliari. I paleontologi ci dicono che le piante a foglie larghe, le latifoglie, sono comparse nel Permiano, circa un milione d’anni dopo i Fasmidi, che per tutto quel tempo si esercitarono a copiare un modello che ancora non c’era.
Racconta Vladimir Nabokov ne Il dono (Adelphi, 1991): «Alcuni guaritori raccoglievano per scopi mercenari il rabarbaro, la cui radice ricorda in modo incredibile un bruco, fino alle zampine e gli stimmi, e io intanto rovesciavo le pietre per ammirare le larve di un bruco sconosciuto che era l’esatta copia di quella radice di rabarbaro, di modo che non si capiva pili bene chi Imitasse chi e perché».
La natura è un’artista che ripete i suoi disegni più volte, e talvolta li fa identici per rappresentare cose diverse. Quando questi sosia si incontrano e si gradiscono, hanno istituito un caso di mimetismo. Ma come è fatto l’animale che imita se stesso? Che si cerca e si copia perché non accetta altri modelli?
Scrive Thomas Bernard ne L’imitatore di voci (Adelphi, 1987): «Abbiamo anche potuto esprimere dei desideri, e l’imitatore di voci ci ha accontentati con la massima premura. Quando però gli abbiamo fatto la proposta di chiudere il programma imitando la propria voce, lui ha detto che non ne era capace».