Non è affidandosi agli immigrati che supereremo l’inverno demografico. La svolta arriverà solo con la riscoperta del valore della famiglia. E della fede.
di Giuliano Guzzo
statistiche che sorprendono
Lo facciamo con iniziali considerazioni di ordine statistico che ci confermano come, in effetti, in questi anni si sia registrato un consistente incremento della percentuale dei bambini stranieri nati in Italia: solo considerando l’arco temporale 1995-2007, possiamo osservare come si sia passati dall’I,7% all’ 11,4% sul totale dei nati.
Una crescita davvero esponenziale. Che però deve essere letta alla luce di un altro fenomeno almeno altrettanto importante: il calo del numero di figli da parte delle famiglie straniere presenti nel nostro Paese. I dati, ricavabili da quelli raccolti dall’Istat, dicono che il tasso di fecondità delle donne straniere in Italia, che nel 2004 era del 2.6, nel 2010 è stato del 2.13.
Ora, un tasso di fecondità del 2.13 – che rimane comunque superiore a quello delle donne italiane, fermo ad un desolante 1.29 – significa che se anche le famiglie straniere assicurano al nostro Paese il tasso di sostituzione generazionale, che notoriamente è di 2.1 figli, di crescita demografica non si ha traccia.
Non solo: il calo del tasso di fecondità delle donne straniere è stato di singolare rapidità se si considera che si è verificato nell’arco di appena 6 anni, mentre invece una flessione simile di quello delle donne italiane, nel passato, ha richiesto almeno 10 anni: dal 2,63 del 1966 al 2.11 del 1976.
Come mai? Qual è l’origine di questo fenomeno? Perché l’immigrazione, diversamente da quanto taluni pensano, non è efficace nel contrastare l’inverno demografico? Per rispondere a queste domande dobbiamo considerare due dimensioni: una, ancora una volta, di ordine demografico e l’altra di carattere morale. La prima porta a sposare le conclusioni cui sono giunti autorevoli studiosi, che hanno fortemente criticato l’ingenua equazione “più immigrazione/più natalità”.
È il caso, per esempio, di Francesco Billari dell’Università Bocconi, già autore insieme ad Hans Peter Kohler e Mikko Myrskyllä della University of Pennsylvania di un interessante studio sul tema (Cfr. “Nature” (2009); 460:7256, 741-743), il quale ha dichiarato che sì, gli «immigrati danno un contributo» alla natalità, ma «una volta stabilizzati nel nuovo Paese, anche loro cominciano a fare meno figli».
Esistono persino esempi che vanno in senso opposto rispetto al legame tra immigrati e natalità: «Oltralpe — ha affermato Billari – l’immigrazione è in calo mentre il tasso di fertilità è in crescita, al punto da sfiorare ormai i 2 figli per donna».
Dunque l’immigrazione, diversamente da una diffusa credenza, non costituisce una risposta efficace alla denatalità. Esattamente come non lo sono in modo sufficiente – per quanto possono certamente aiutare – delle politiche familiari e di tutela della maternità; fa testo, a questo proposito, il caso dei Paesi del nord Europa, esemplari sotto il profilo dell’efficienza welfare ma neppure loro estranei al fenomeno del calo della natalità come dimostrano i dati – dal 2000 a 2011 – del decremento del numero dei nati ogni 1.000 persone: la Finlandia è passata da 10.8 a 10.3, la Danimarca da 12.1 a 10.2 e la Norvegia da 12.7 a 10.8.
l’unica possibile soluzione
A questo punto la domanda è lecita: siamo spacciati? Difficile dirlo. Senza dubbio i numeri e le previsioni demografiche — che parlano di un mondo occidentale che non solo invecchia, ma che in prospettiva rischia addirittura di decimarsi – non sono dalla nostra parte.
Che fare, allora? Abbiamo visto che né l’immigrazione né le politiche sociali, rispetto alla denatalità, rappresentano un rimedio; anche perché se è vero, da un lato, che la non trascurabile differenza tra il numero di bambini che le donne europee desiderano avere e quelli che effettivamente hanno rappresenta un problema, d’altro lato è innegabile come i figli, come dimostra il successo della contraccezione, siano spesso visti come qualcosa da evitare o rimandare.
Una via d’uscita potrebbe invece materializzarsi se invertissimo totalmente rotta riscoprendo il valore della famiglia; se capissimo che il crimine dell’aborto, ad eliminare moltissimi innocenti, impoverisce tutti; se ritrovassimo la fede in Dio e dunque in noi stessi.
Certo, la situazione oggi è piuttosto grave. Basti dire che secondo il sociologo Ben Wattenberg mai, dai tempi remoti della peste nera, in Europa i tassi di fertilità sono caduti così in basso, così rapidamente, così a lungo e diffusamente; la triste profezia di un altro illustre sociologo, Raymond Aron (1905-1983) – il quale sosteneva che se non nascono bambini una comunità è condannata allo spegnersi – si sta dunque avverando.
Eppure non è detta l’ultima parola. L’Amore di Dio verso l’uomo non è certo scemato, e se solo sapremo rimetterci nelle sue mani riscoprendo quei valori oggi eclissati tutto, anche ciò che oggi appare decisamente impensabile, è ancora possibile. L’importante ora è non perdere tempo e aprire gli occhi su un problema – quello dei figli che non nascono – troppo a lungo sottovalutato e nascosto.