Sono battezzati nella Chiesa cattolica ma parlano e vivono come gli ebrei. Assomigliano alla primitiva comunità di Gerusalemme. Sono in crescita ma si sentono trascurati, come in un ghetto
di Sandro Magister
Ad esempio, nel solo Kuwait i lavoratori immigrati sono oggi due milioni, il doppio dei cittadini kuwaitiani. I cattolici sono 350 mila e sono in prevalenza filippini e indiani. L’ondata di questi arrivi è così massiccia, in Arabia Saudita e nel Golfo, che a Roma stanno studiando come riscrivere i confini dei vicariati dell’area, dividendo in più parti l’immenso vicariato d’Arabia che oggi raggruppa Arabia Saudita, Oman, Yemen, Emirati Arabi, Qatar e Bahrein.
C’è infine il caso speciale dei cattolici in Israele, anche questo in piena mutazione.
Anzitutto, entro i confini di Israele i cristiani non sono andati diminuendo, ma in cifre assolute sono aumentati anno dopo anno: da 34 mila nel 1949 a 150 mila nel 2008, ultimo dato ufficiale. Di una loro lieve diminuzione si può parlare solo in termini percentuali – dal 3 al 2 per cento –, perché nello stesso lasso di tempo i cittadini di religione ebraica sono cresciuti da un milione a 5 milioni e mezzo, grazie alle immigrazioni dall’estero, e i musulmani da 111 mila a 1 milione 200 mila. In Israele, i cristiani sono presenti soprattutto in Galilea, mentre a Gerusalemme se ne contano 15 mila.
L’esodo di cristiani per il quale si lancia l’allarme riguarda quindi non Israele ma piuttosto la Terra Santa, termine geograficamente estensibile, che comprende i territori palestinesi e parti dei paesi arabi circostanti, fino alla Turchia e a Cipro.
La novità di maggior interesse, entro i confini di Israele, riguarda i cattolici di lingua ebraica. Per la loro cura il patriarcato latino di Gerusalemme ha uno specifico vicariato, oggi affidato al gesuita David Neuhaus, ebreo israeliano convertito al cristianesimo.
Fino a pochi anni fa, in Israele, i cattolici di lingua ebraica erano poche centinaia. Ma sono in netta crescita e contano oggi almeno sette comunità: a Gerusalemme, Jaffa, Be’er Sheva, Haifa, Tiberiade, Latrun e Nazaret. Alla rivista italiana “Il Regno” padre Neuhaus ha spiegato che queste comunità si sono formate grazie a quattro apporti. Il primo apporto è venuto dagli ebrei giunti in Israele con le successive ondate migratorie, tra i quali c’erano dei cattolici, nati tali o convertiti, che sono diventati parte integrante della società israeliana di lingua ebraica.
L’ultima grande ondata migratoria, dopo il 1990, è arrivata dal dissolto impero sovietico.Il secondo apporto è dato dall’arrivo in Israele di lavoratori stranieri. Sono oggi circa 200 mila. Provengono dall’Africa, dall’America latina, dall’Europa orientale e più ancora dall’Asia. Dalle Filippine ne sono giunti 40 mila, per la maggior parte donne e cattoliche. I loro figli, nati e battezzati in Israele, vanno a scuola, imparano l’ebraico e si integrano nella società israeliana.
Il terzo apporto è costituito dai 2-3 mila maroniti libanesi trasferitisi in Israele dopo il ritiro israeliano dal sud del Libano e da profughi africani provenienti soprattutto dal Sudan meridionale, dove i cattolici sono numerosi.
I loro figli crescono anch’essi parlando l’ebraico. Infine, vi sono i palestinesi cattolici presenti in Israele fin dalla sua fondazione, con lo statuto di cittadini ma in condizioni socialmente svantaggiate. La loro lingua è l’arabo e sono stanziati soprattutto nei villaggi della Galilea, ma tendono a spostarsi in località economicamente più attraenti.
Padre Neuhaus porta l’esempio di Be’er Sheva, “dove sono emigrate centinaia di famiglie arabe per lavorare nei servizi intorno ai villaggi beduini, che però non vivono con i beduini perché socialmente ed economicamente di classe inferiore. Mandano i loro figli nelle scuole di lingua ebraica e così abbiamo una nuova generazione di arabi palestinesi che parlano l’arabo solo in casa e non sanno più leggerlo né scriverlo”.
Sono tutti questi – ormai alcune migliaia e di origini le più diverse – i cattolici di lingua ebraica di cui si prende cura il vicariato. La cura è rivolta in particolare ai giovanissimi, con catechismi per la prima volta redatti e insegnati nella lingua di Israele. Commenta padre Neuhaus: “Operiamo con mezzi poveri. Nel patriarcato la maggioranza cristiana palestinese è quella a cui si dedica maggiore attenzione, e così i cristiani di lingua ebraica sono in un certo senso dimenticati. Ma siamo poveri anche in termini di persone che se ne occupino: siamo un piccolissimo gruppo con compiti troppo grandi».
Nel 2003 la Santa Sede pose alla testa del vicariato di Gerusalemme per i cattolici di lingua ebraica un vescovo e monaco benedettino di grande valore, Jean Baptiste Gourion, algerino di nascita, anche lui un ebreo convertito. La nomina fu criticata aspramente dai circoli pro-palestinesi della Chiesa cattolica. Sulla rivista dei gesuiti di New York, “America”, padre Drew Christiansen, che ne è l’attuale direttore, la definì “una manovra mirata a dividere la Chiesa in Terra Santa”.
Purtroppo il vescovo Gourion morì poco dopo, prematuramente. E ai suoi successori non fu conferita la dignità episcopale. Dice padre Neuhaus: “Come cattolici di lingua ebraica siamo una doppia minoranza, sia nello stato d’Israele sia nella Chiesa. A volte abbiamo l’impressione di vivere in un piccolissimo ghetto”. Un briciolo di speranza viene dal testo base del sinodo sul Medio Oriente che sta per cominciare in Vaticano, là dove definisce “un grande aiuto” al dialogo con l’ebraismo l’esistenza del vicariato per i cattolici di lingua ebraica.