di Massimo Introvigne
Trentacinque anni dopo la sua fine, la rivoluzione culturale in Cina (1966-1976) è rievocata a Vienna in una grande mostra al Museum für Völkerkunde, che resta aperta fino al 19 settembre. La mostra non fa sconti alla sinistra radicale europea, di cui si documenta la lunga complicità con la propaganda di Mao Tse-tung (1893-1976), continuata anche quando era ormai ovvio che il comunismo cinese aveva fatto più morti di ogni altro regime della storia
Il clima è rievocato nella mostra viennese con fotografie e rarissime filmati d’epoca che documentano la distruzione di opere d’arte, templi palazzi e – in modo agghiacciante – i processi e le esecuzioni, talora veri linciaggi a pugni e bastonate, di “contro-rivoluzionari” che sono spesso dignitari comunisti, ma della fazione che sta perdendo quella che è in effetti una guerra civile, e tra cui si contano anche monaci buddhisti e inermi suore cattoliche.
Il terrore è documentato come l’altra faccia di un culto della personalità ossessivo, dove il volto di Mao è riprodotto all’infinito su migliaia di oggetti di uso comune e immagini sacre di una nuova religione perversa, in una versione insieme caricaturale e terribile di quello che era stato il realismo socialista sovietico.
Perché Mao scatenò la rivoluzione culturale? Il lettore italiano può leggere il capitolo sul tema della mirabile biografia Mao la storia sconosciuta (Longanesi, Milano 2006) della grande scrittrice cinese Jung Chang, scritta in collaborazione con Jon Halliday – una lettura obbligatoria nonostante la mole (960 pagine) per chiunque voglia capire il comunismo cinese -, cui chi legge l’inglese potrà affiancare la summa di Roderick MacFarquhar e Michael Schoenhals Mao’s Last Revolution (Harvard University Press, Cambridge [Massachusetts] 2006). Se ne ricaverà che Mao scatenò la rivoluzione culturale per far tacere le critiche, che rischiavano di travolgerlo, dopo il fallimento del “Grande balzo in avanti”, un criminale tentativo di riforma economica che costò alla Cina almeno quarantacinque milioni di morti, come ha documentato il bel libro dello storico inglese Frank Dikötter “Mao’s Great Famine. The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-1962” (Walker, New York 2010). La rivoluzione culturale fu un orrore destinato a coprirne un altro: chi criticava il “Grande balzo in avanti” finiva ammazzato a bastonate.
Dopo la morte di Mao, senza troppa pubblicità, alcune commissioni d’inchiesta indagarono sulle atrocità della rivoluzione culturale. Deng Xiao Ping (1904-1997), che al tempo della rivoluzione culturale era stato estromesso dalla dirigenza del partito, malmenato e mandato a lavorare in una fabbrica di trattori di provincia, dove era sfuggito per miracolo a un tentativo di assassinio, era diventato il padrone della Cina e aveva interesse sia a screditare la “banda dei quattro” che aveva promosso gli eventi del 1966, sia a far filtrare qualche cauta critica allo stesso Mao, che non lo aveva certamente protetto.
Regnante Deng Xiao Ping, s’indaga così sugli eccessi della rivoluzione culturale, e migliaia di militanti che si sono resi colpevoli di atrocità sono incriminati. Il lavoro dei tribunali sembra serio, e molti vedono una franca indagine su questo orribile passato come il preludio all’inevitabile democratizzazione. Ma la classe dirigente del Partito Comunista Cinese e lo stesso Deng la pensano diversamente. La repressione del movimento degli studenti in Piazza Tiananmen nel 1989 segna la fine della breve primavera di speranze democratiche in Cina.
Dopo Tiananmen, il regime si chiude su se stesso. Su Mao, responsabile secondo Jung Chang di settanta milioni di morti, si applica la “regola delle dieci dita”, che sembra usata ancora oggi anche dai suoi ammiratori europei: nove dita, insegnano i libri di scuola cinesi, lavoravano per il bene del popolo, una sfuggiva al controllo e deviava.
Anche in Cina – lo mostra bene la mostra viennese – è in corso un “revival di Mao” che porta i nuovi ricchi cinesi a collezionare oggetti dell’epoca della rivoluzione culturale – che per molti di loro è comunque l’epoca della giovinezza -, a finanziare musei maoisti e a pranzare in costosi ristoranti a tema che rievocano gli anni 1960, cui le vere Guardie Rosse dell’epoca non avrebbero mancato di dare fuoco come paradossali esempi di decadentismo borghese.
La domanda di souvenir della rivoluzione culturale è tale che una curiosa sezione della mostra si Vienna documenta come ne siano venduti oggi migliaia che sono falsi, un nuovo filone della fiorente industria della contraffazione cinese. Un orrore come la rivoluzione culturale è ridotto a mito romantico, non a caso in coincidenza con rinnovati attacchi alla Chiesa Cattolica, che delle Guardie Rosse fu un obiettivo non secondario. Il capitalismo e i McDonald di Pechino non ingannino. Finché non farà i conti con le tragedie del suo passato, la Cina non diventerà capace di costruire un futuro senza oppressione.