di Marco Respinti
Il mondo della letteratura, non solo quello dei fan della fantascienza in senso stretto, piange la scomparsa dell’insuperabile Ray Bradbury, morto il 5 giugno all’età di quasi 92 anni. Perché il talentuoso scrittore – noto anche ai profani per titoli immarcescibili entrati addirittura nel gergo quotidiano anche di chi ne ha nel tempo smarrito l’origine, per esempio Cronache marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1951) – è stato un alfiere di quell’umanesimo pieno, rotondo e mai al ribasso che dovrebbe essere, e grazie ad alcuni irriducibili «eroi» caparbiamente ancora è, il mondo delle «belle lettere», secondo il modello classico – cioè intramontabile – del vir bonus dicendi peritus.
Per il mondo dove trionfa il romanzo scipito più che volgare, la poesia dei versacci invece che dei versi o il cinema fatto per generi sessuali e gusti strambi, personaggi come Bradbury sono assolutamente inattuali eppure più che necessari. Possibile davvero che persino un racconto fantascientifico possa far primavera? Possibilissimo. Anzitutto perché, scienza a parte, la fantasia è lo strumento primo e non negoziabile della creazione artistica tout court: applicarla alla scienza piuttosto che alla storia o alle produzioni plastico- figurative è – da questo punto di vista – solo un accidens.
In secondo luogo perché il senso autentico di quella potenza evocativa e sublimante che chiamiamo «fantasia» (che serve all’uomo sempre, non solo quando crea artisticamente in senso stretto: cosa sarebbero infatti una professione, una vita familiare, un’attività sportiva o una ricreazione prive di fantasia?) è la capacità di suscitare situazioni, condizioni, stati e figure attraverso cui agire in prima persona «testando» il reale. Antica almeno quanto l’antigiacobino Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), la «fantasia» è infatti propriamente «immaginazione». E, osservava perfettamente Kirk alla scuola di mille maestri, essa si divide in «immaginazione diabolica» contro «immaginazione morale».
«Perché», ha osservato Kirk, «al pari di Lewis, di Tolkien di altri talentuosi narratori di favole, Ray Bradbury ha sfoderato la spada contro il materialismo cupo e corruttore del secolo XX; contro l’idea di una società ridotta alla mera dinamica produttore/consumatore; contro la bruttezza del vivere moderno; contro il potere senza criteri; contro l’ossessione sessualista; contro l’intellettualismo vuoto; e contro la retta ragione pervertita nel giro mentale di chi dipende solo dalla televisione. I suoi marziani, i suoi spettri e le sue streghe non sono infatti un intrattenimento che distrae; al contrario, essi diventano, per vie misteriose, i difensori della verità e della bellezza».
Kirk vergò queste parole in un saggio, The Revival of Fantasy, parzialmente dedicato proprio a Bradbury, che fu pubblicato nel fascicolo datato maggio 1968 del mensile tradizionalista cattolico Triumph, fondato e diretto L. Brant Bozell jr. (1926-1997). Poi quel saggio venne raccolto nel volume kirkiano Enemies of the Permanent Things: Observations of Abnormity in Literature and Politics, uscito nel 1969 (Arlington House, New Rochelle [New York]), e quindi riedito in versione riveduta nel 1984 (Sherwood Sugden, Peru [Illinois]), un libro che osa affermare che in letteratura vale la stessa natura normativa che vige in politica, che il bene è cioè sempre bene, e che il peccato è sempre lo stesso ovunque lo si commetta. Ebbene, nel breve e sapido fraseggio sopra riportato vi è tutta la visione del mondo di Kirk.
La «spada» che anche Bradbury ha sfoderato per una esistenza intera è la stessa che suggella sin dal titolo l’autobiografia di Kirk stesso, The Sword of Imagination: Memoirs of a Half-Century of Literary Conflict (Eerdmans, Grand Rapids [Michigan] 1995). La «retta ragione» è quel criterio normativo che l’uomo scopre in ciò che lo circonda, e che da lui non dipende, attraverso l’uso coscienzioso ed educato dell’intelletto quale suprema facoltà umana, altrettanto data: Kirk la scoprì in Edmund Burke (1729-1797), il fondatore del conservatorismo angloamericano ai tempi – e contro di essa – della Rivoluzione Francese (1789-1815, a voler, correttamente, considerare come parte integrante di essa pure l’«età napoleonica», 1799-1815), e poi imparò che è la tradizione che almeno da Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) arriva sino al Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) quando l’argomento è il diritto naturale.
Le «realtà permanenti» evocate nel titolo del suo libro del 1969 sono una citazione da L’idea di una società cristiana (1939) di Eliot che in Kirk diventa proverbiale: Eliot era stato prima maestro e poi amico di Kirk, e quegli gli aveva tra l’altro insegnato a semantizzare in quel modo la philosophia perennis che è l’anima vera di ogni conservatorismo autentico per riconoscerla ovunque la incontrasse, anche nelle fogge più diverse. Appunto in Bradbury, per esempio.
Nelle bizzarrie, persino negli orrori della fantascienza e del genere gotico (di cui lo stesso Kirk fu autore prestigioso), Kirk seppe così leggere l’ammaestramento sempiterno che risiede nel mito, nelle leggende e persino nelle fiabe, diverso persino talora contrastante ma mai contradittorio con il logos nel cercare e soprattutto nel contemplare la verità. E sempre mistico, sacrale, religioso. Una tradizione di umanesimo sincero, l’unico, che dal passato brumoso del genere umano giunge fino a penne sapienti quali i notissimi J.R.R. Tolkien, C.S. Lewis e – magari inconsapevolmente, ma è più un rafforzativo che una obiezione – J.K. Rowling, madre di Harry Potter, lungo una filiera dove scorrono i volti dei fratelli Jacob (1785-1862) e Wilhelm (1786-1859) Grimm, di Hans Christian Andersen (1805-1875), di Charles Perrault (1628-1703), e su su quelli degli ignoti «inventori» di favole e fiabe del tempo che fu.
Di cose così Bradbury e Kirk discutevano e chiacchieravano, amici quali erano, entrambi luminari del conservatorismo contemporaneo. Sì, anche Bradbury, nonostante non sembri, benché pochi lo ricordino ora nei necrologi, malgrado meno ancora lo sospettino.
Gli scenari bradburyani, com’è stato ricordato efficacemente, sono del resto sempre quelli della «Smalltown America» di «provincia»: piccoli borghi, fattorie a misura di uomo, estati torride e inverni gelidi, insegne al neon magari pencolanti e incombenti sull’asfalto in una terra che pare di nessuno e front porch, quelle verande tipiche che nell’«Heartland America» non è casa se mancano. A Bradbury – Kirk è stato maestro di tutti in questa interpretazione peculiare, ma pochi oggi lo rammentano – interessava meno la tecnologia che non l’immaginazione morale.
Non prese mai la patente di guida e ogni Natale chiedeva alla moglie che gli regalasse giocattoli, non altro. Le sue storie, i suoi set e i suoi personaggi sono figure: come nella letteratura migliore, dal padre Omero (chissà quando ha calcato il suolo terrestre) al nostro Eugenio Corti, passando per la Commedia definita – con appropriata e opportuna intuizione «angelica» – «divina» e incamminandosi lungo le mille tra strade e viottoli di cui si compone il «canone occidentale». Figure, sì. Gallerie. Persino, nel senso più bello del termine, laboratori: capaci di parlare con lingua non biforcuta poiché sempre ancorati all’unica cosa che conta e che l’uomo conosce, la realtà. Quella data. Da un Altro.
Per Bradbury è testimonio il testo magistrale l’arcinoto, Fahrenheit 451, in cui l’uomo e la sua libertà spirituale e culturale interiori non possono strutturalmente mai soccombere al potere che li manipola giacché di altro e da altro sono fatti. Altro d’irriducibile. Ray Bradburty è stato un grande conservatore. Un alfiere dell’unico pensiero autenticamente a misura di uomo, e secondo il piano di Dio. Mettetevi il cuore in pace.