di Massimo Introvigne
Isola di Nazino, Siberia, 1933: nel cuore di ghiaccio di Kostia Venikov, uno degli aguzzini della polizia politica sovietica Gpu, spunta un sentimento umano. La guardia s’innamora di una giovanissima deportata. Conoscendo i suoi commilitoni, quando si allontana dall’isola teme il peggio: e il peggio succede. Violentata? No: mangiata.
La campagna lanciata da Stalin nel 1932 che incita i membri del Partito a scrivergli personalmente e denunciare i loro superiori non è mera propaganda: Stalin legge le lettere, e nel caso di quella di Velitchko indaga. Ora dalla miniera di orrori degli archivi sovietici escono i lavori di quella commissione d’indagine, pubblicati in Francia da uno dei massimi storici dell’Urss, Nicolas Werth, in un volume choc dal titolo L’Isola dei Cannibali (Perrin).
I fatti di Nazino si inquadrano nel progetto della Gpu di affiancare ai campi di lavoro – i gulag – un secondo girone infernale di località inospitali della Siberia dove assegnare a domicilio coatto, muniti solo di un sacco di utensili e sementi, due milioni di «elementi antisovietici» non condannati ai campi. Si tratta di «purificare la società socialista» espellendo dalle grandi città e dalle località di villeggiatura – dove la loro vista infastidisce gerarchi e visitatori – non solo eventuali «nemici di classe» superstiti (ex proprietari, sacerdoti, dissidenti) ma anche gli invalidi, i vecchi decrepiti, i mendicanti.
La tecnica per prelevare milioni di persone e mandarle ai luoghi di domicilio coatto è la «passaportizzazione»: diventa obbligatorio circolare con il passaporto dovunque e a qualunque ora, e chi è troppo vecchio, debole o ignorante per procurarsi un passaporto è deportato. In Siberia – ma anche altrove – le strutture di accoglienza per i deportati sono inesistenti, e le guardie della Gpu sono spesso sadici criminali.
Nell’isola di Nazino, dove nel 1933 si ammassano seimila deportati e ne muoiono cinquemila, la commissione scoprirà che il comandante si ingozza di dolci di fronte a persone che non mangiano da giorni, e il suo vice usa i deportati come «cani da riporto» gettandoli nelle acque gelide del fiume perché vadano a riprendergli le anitre che ha abbattuto.
Peggio, giacché il cibo manca anche per le guardie, si passa senza vergogna al cannibalismo, prima sui cadaveri, poi anche sui vivi: una donna cui sono stati staccati i seni per mangiarli sarà trovata ancora viva dalla commissione ma passerà il resto della sua vita in manicomio. Si potrebbe dire che in questo caso almeno il sistema reagisce, e Stalin stesso indaga. Ma la conclusione del tiranno sarà terribile. Se i deportati non riescono a sopravvivere, per evitare episodi incresciosi c’è una soluzione semplicissima: fucilarli tutti.
Nel luglio 1937, il famigerato Ordine 00447 distingue i deportati sopravvissuti in due categorie. La maggioranza – ottocentomila persone – è fucilata nei mesi successivi, gli altri sono condannati a dieci anni di gulag. Sono tragedie che faticosamente emergono dagli archivi sovietici: ma che, finché c’è chi continua a proclamarsi orgogliosamente comunista, a nessuno è lecito dimenticare.