Le vessazioni dei fanatici indù, specialmente in Orìssa, non sono un fenomeno recente, né hanno una natura esclusivamente confessionale. Dietro presunti conflitti religiosi si cela il tentativo di mantenere uno status quo segnato da ingiustizie sociali.
di Gerolamo Fazzini
Una violenza che viene da lontano
Potrà forse meravigliare qualcuno, ma già dieci anni or sono sul settimanale cattolico di Mumbai si poteva leggere un reportage che ricorda molto da vicino, per contesto e atmosfera, i fatti degli ultimi mesi. «Per i cristiani in India il messaggio si può leggere sui muri: è tempo di martirio. Non il martirio all’antica […], ma un nuovo martirio che testimonia il diritto di vivere da cristiani.
Le persecuzioni sono in aumento: suor Silvia e suor Priya uccise in Bombay mentre sì prendevano cura di un rifugio per bambini di strada; padre A.T. Thomas decapitato a Hazaribagh (Binar), per aver aiutato degli harijans (intoccabili) a rivendicare un pezzo di terreno ingiustamente usurpato da gente di casta alta; suor Maria Rani strappata fuori da un bus e pugnalata a morte in Madhya Pradesh perché insegnava ai poveri tribali a difendersi dagli usurai; padre Christudas, vicedirettore di una scuola a Dumka (Binar), denudato dai poliziotti e consegnato nudo a una folla inferocita in presenza di ufficiali governativi; due suore violentate in Gujarat. La lista è lunga: sedici casi di assassinio e quindici maltrattamenti negli ultimi dieci anni con quarantotto vittime».
Così scriveva Astrid Lobo Gajiwala su «The Exarniner» il 18 luglio 1998. E concludeva: «Quello che trovo più preoccupante è che nessun provvedimento è stato preso (eccetto in un caso) e i colpevoli girano liberi, protetti dal silenzio della maggioranza. Anche i difensori dei diritti umani si lavano le mani».
Un intreccio perverso
II problema di fondo è l’intreccio perverso fra il potere politico e l’identità culturale-religiosa, pesantemente strumentalizzata per un progetto di potere. Il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, in un’intervista all’«Osservato re Romano» del 4 gennaio 2009, lo ha detto esplicitamente: «Più che un conflitto di natura religiosa, si tratta di un problema di stampo sociale e politico. Ai cattolici viene rimproverato di occuparsi delle caste inferiori che costituiscono la manodopera per le caste superiori. Viene contestato al cristianesimo il fatto che esso è anche un fattore di emancipazione sociale».
A distanza di anni molte cose non sono cambiate, come attesta Io stillicidio di lanci di agenzie specializzate come Asia News. Laddove i partiti espressione dell’estremismo indù sono al potere, la condizione dei cristiani è sotto il segno della vulnerabilità. Anzi. Quanto accaduto in Orissa (e non solo) è di una gravità sin qui mai registrata nei conflitti tra indù e cristiani. Nel giro di pochi mesi sono state uccise circa 500 persone, distrutte migliaia di case, chiese, scuole e strutture pastorali. A inizio gennaio 2009 dei circa 50mila cristiani fuggiti dalle proprie case e rifugiati nei campi di raccolta dell’area solo 2.000 circa hanno fatto ritorno nei loro villaggi.
Organismi e partiti filo-indù utilizzano l’accusa delle conversioni forzate per scatenare la violenza contro i cattolici. Prakash Chand Dubey, bramino convertito al cristianesimo nel Binar, ha dichiarato all’agenzia Ucanews: «Gli estremisti indù stanno facendo leva sul terna delle conversioni forzate per due ragioni.
Anzitutto, questo li aiuta nel manovrare gli indù semplici e gradualmente serve per dipingere i cristiani come nemici dell’induismo. In secondo luogo, lo spauracchio della conversione offre uno strumento importante per accattivarsi gli industriali e commercianti indù ricchi e devoti in tutto il Paese. […]. Statistiche indiscutibili e pubbliche mostrano che organizzazioni indù come il Bajarang Dal e il Vishwa Hindu Parishad raccolgono ogni anno oltre 100 miliardi di rupie (2,4 miliardi di dollari) da persone di fede induista che vengono abbindolate».
E aggiunge: «Posso affermare con certezza che le conversioni forzate sono un mito. Ho passato i 50 anni e credo che la mia conversione sia opera del Signore. Affermo con forza che nessuno ha mai cercato di allettarmi con lusinghe (figuriamo obbligarmi!) perché diventassi cristiano».
E conclude: «Un gesuita americano, padre Joseph O’Brìen, ha rivestito un ruolo “catalizzatore” nella mia conversione. Ma questo prete non mi ha mai suggerito di accettare il cristianesimo. […]. Padre O’Brien era noto per l’aiuto a migliaia di rifugiati dal Bangladesh che andavano a risiedere nella zona nord dello Stato di Bihar. A tale scopo raccoglieva fondi dalla sua famiglia e dai suoi amici negli Stati Uniti. Conosco centinaia di rifugiati che ricevettero aiuti da questo gesuita americano. Nessuno di loro è cristiano».
Conversioni forzate, un mito pretestuoso
A dispetto delle accuse mosse contro i cristiani, i dati dicono altro. Secondo i censimenti ufficiali, il cristianesimo non è in espansione in India: i cristiani sono passati dal 2,6% della popolazione nel 1971 al 2,44 del 1981, per arrivare al 2,32 nel 1991 e calare ulteriormente negli anni successivi. Non è quindi la diffusione della fede in Gesù il motivo dì preoccupazione, bensì gli “effetti collaterali” in campo sociale della predicazione cristiana: la promozione della giustizia e della dignità dei poveri, contro il sistema delle caste.
Il caso dell’Orissa, da questo punto di vista, è da manuale, come spiega padre Augustine Kanjamala, verbita, studioso e direttore dell’Institute of Indian Culture di Mumbai in Cristiani in India: perseguitati per la giustizia (pubblicato nel 2008 da Pimedit). «Il 40% della popolazione dell’Orissa è costituita da tribali e fuori-casta: questo lo rende uno degli Stati più sottosviluppati dell’India.
Il distretto di Kandhamal, che da almeno dieci anni soffre di violenze anticristiane, è anche l’area in cui si registra un gran numero di conversioni al cristianesimo. La conversione ha portato molti dalit a un progresso socioeconomico evidente. Di recente, molti tribali hanno deciso di seguire l’esempio dei dalit e sono divenuti cristiani. E così, mentre i cristiani in Orissa sono solo il 2% della popolazione, in 10 anni nel distretto di Kandhamal la percentuale è giunta al 5. Questo spiega l’astio contro i missionari cristiani».
Un altro fattore genera opposizione contro i cristiani: «La società si accorge che nell’Orissa, ovunque c’è una presenza di missionari cristiani, avviene anche un importante cambiamento sociale. La gente beneficia dello sviluppo, c’è una maggiore dignità nel loro modo di vivere e di comportarsi. Grazie all’educazione che ricevono […] i tribali e i dalit non sono più disponibili a essere usati come manodopera a basso costo per l’agricoltura. La loro dignità ed educazione da loro il coraggio di protestare contro Io sfruttamento e l’oppressione».
Svincolarsi dal mondo religioso indù per i dalit significa liberarsi del sistema castale e approdare a una nuova collocazione sociale. Agli occhi dei potenti indù è una minaccia eloquente. Un documento dei teologi cattolici indiani del 2000 fotografava con estrema lucidità il problema: «Gli sviluppi di tipo economico e politico che hanno avuto luogo nelle classi economicamente e socialmente inferiori nell’India del dopo indipendenza – come conseguenza del sistema delle “quote” [i posti di lavoro pubblici riservati a dalit e tribali] e tra le comunità musulmane e cristiane attraverso l’istruzione e l’aiuto straniero – hanno suscitato nella classe dominante indù il forte timore di perdere la propria posizione di predominio economico e di privilegio nel Paese […]. Per garantirsi il sostegno dell’insieme della popolazione indù, è stata utilizzata la religione come strumento di manipolazione e di sfruttamento».
È così che si sviluppa e si rafforza l’ideologia dell’ hindutva, la quale si fonda su quattro elementi-cardine: l’essere nati e cresciuti in territorio indiano; l’appartenenza alla razza indiana; la pratica di tutte le usanze e le tradizioni indù e l’accettazione della sola India come propria patria e terra santa e, infine, la fedeltà a una delle tradizioni religiose di origine indiana, ossia l’induismo e il buddhismo, il giainismo e il sikhismo. Sulla base di questi presupposti, musulmani, cristiani e altri sono esclusi dall’ovile indù.
Un’ideologia del genere ha precise implicazioni a livello politico: gli indù che si riconoscono nell’ambito dell’hindutva devono unirsi e combattere i loro nemici. I non indù devono essere convertiti all’induismo, abbandonando la propria fede e le proprie pratiche culturali. In caso contrario, come ha scritto uno dei principali teorici della supremazia indù, «vivranno all’interno del Paese in una condizione di subordinazione alla nazione indù, senza poter avanzare alcuna rivendicazione, senza godere di alcun privilegio o di alcun trattamento preferenziale, neppure dei diritti civili».
«Indiano uguale indù»
L’ideologia dell’hindutva risale al 1920 e venne codificata nel libro Hindutva. Who is a Hindu? di Vinayak Damodar Savarkar. Fortunatamente, con l’indipendenza del 1947, l’India diventa, dal punto di vista della Costituzione, uno Stato laico. Tuttavia – nota un esperto -«un certo orgoglio indù e una discreta antipatia verso i musulmani per il loro fondamentalismo e verso i cristiani per il loro proselitismo oggi sono diffusi tra gli indù a tutti i livelli, anche se non li manifestano secondo modalità violente».
L’ideologia dell’hindutva continua ad avere i suoi cantori che, in nome della purezza, vorrebbero persino “purificare” la storia dell’India ridimensionando fortemente il contributo di cristiani e musulmani. Negli anni scorsi si è verificato, in ambito scolastico, un tentativo di “zafferanizzazione” (zafferano è il colore arancio, simbolo dell’induismo).
Il presupposto è sempre lo stesso: indiano uguale indù. Eloquente, sotto questo profilo, è un’intervista recente a Prakash Sharma, leader del Bajrang Dal (organismo indù particolar-mente estremista), apparsa su una testata indiana indipendente, «Tehelka». All’intervistatore che chiede dove sia finita la tolleranza indù, Sharma risponde: «Noi indù crediamo che Dio possa avere qualsiasi nome e che ci possano essere strade diverse.
Abbiamo 3.200 tra dei e dee; figurarsi se ci farebbe problema aggiungerne uno maomettano o cristiano. Che problema hanno i musulmani indiani a dire che sono “indù maomettani” o i cristiani indiani a dire che sono “indù che credono in Cristo?”. Dopo tutto questo è un Paese indù». «Ma sono indiani (Bharatiya), che bisogno c’è che si definiscano anche indù?», ribatte il giornalista. E il leader nazionalista, di rimando: «Qual è la differenza tra essere Bharatiya e indù? Io non ne vedo nessuna».
Gli attriti con i musulmani e il dopo-Mumbai
Facile intuire come una visione del genere crei motivi di attrito e tensione anche con la comunità musulmana che in India è una minoranza, ma talmente cospicua sotto il profilo numerico (120 milioni) da costituire la terza o quarta nazione islamica al mondo, dopo Indonesia, Pakistan e Bangladesh.
È accaduto anche di recente. Come ha scritto Giorgio Bernardelli su «Mondo e missione», «nelle stesse settimane in cui il distretto di Kandhamal veniva messo a ferro e fuoco, nel Kashmir – lo Stato del Nord-Est a maggioranza musulmana – riesplodevano le violenze intorno alla questione del tempio indù di Amarnath.
Poi ci sono stati, nell’Assam, gli scontri tra i bodo (un’etnia tribale locale) e i musulmani. Senza dimenticare gli attentati sanguinosi di matrice islamica a New Delhi. Tutti questi fenomeni in India vanno sotto l’etichetta di communal violences, violenze tra gruppi etnici. Dove l’elemento religioso si intreccia con dissidi storici e nuove disuguaglianze».
Se tra indù e musulmani i rapporti storicamente non sono mai stati sereni, fra cristiani e musulmani il clima è stato – sin qui – migliore: in varie occasioni i membri delle due minoranze si sono alleati nel combattere le discriminazioni di casta e per difendersi dalle aggressioni dei fanatici induisti. Ma gli attentati degli ultimi mesi hanno pesantemente modificato lo scenario. «Oggi la situazione sta peggiorando, dal momento che i musulmani preferiscono reagire con attacchi terroristici.
Gli indiani di solito incolpavano di tale terrorismo i pakistani. Ora si sono resi conto che i terroristi sono nati e cresciuti in casa propria, anche se possono aver ricevuto un qualche addestramento all’estero». Si badi: questa analisi – firmata su «II Regno» da padre Michael Amaladoss, uno dei più noti teologi cattolici indiani – è stata scritta prima degli eventi di Mumbai. A conferma che siamo in presenza di fenomeni che da anni covano sotto la cenere.
Ora l’attacco terroristico di Mumbai ha ridato fiato, anche nella tollerante India di Gandhi, alle ali dell’islam più aggressivo. E questo è un vero pericolo, perché storicamente il Paese non ha conosciuto le derive estremiste e la rigidità normativa tipica di molti contesti mediorientali.
Anzi: a detta di molti esperti, l’India sarebbe un terreno ideale per sviluppare il dialogo islamo-cristiano; ci sarebbero, sulla carta, le condizioni per quel confronto sereno auspicato da Benedetto XVI. Se non che la lezione di Ratisbona e i successivi sviluppi (la lettera dei 138 e gli incontri in Vaticano fra esponenti cristiani e musulmani) pare non abbiano ancora fatto presa sulle rive del Gange, come constatava amaramente uno studioso gesuita del calibro di padre Christian Troll.
Le reazioni degli indù «illuminati»
Una nota di speranza, in questo panorama complesso e preoccupante, viene dalla società civile indiana. Fortunatamente, una tragedia come quella dell’Orissa sembra stia producendo, oltre che fiammate di odio, un sussulto di coscienza civile in alcuni intellettuali indiani, che hanno preso apertamente posizione condannando la violenza anti-cristiana. Due esempi: Arun Gandhi, nipote del Mahatma, intervistato da «Avvenire» nell’ottobre 2008, ha dichiarato: «L’induismo è una religione aperta e tollerante: è stata stravolta dai fondamentalisti che hanno introdotto l’odio e la cultura della violenza, quanto di più contrario ci sia a Dio».
Ma la presa di distanza più significativa è quella che un intellettuale indù – Shashi Tharoor, saggista e scrittore, già sottosegretario all’Onu – ha affidato alle colonne di una prestigiosa rivista indiana: «Come fedele indù provo vergogna per ciò che stanno facendo persone che dichiarano di agire a nome della mia fede […]. Il fondamentalismo induista è una contraddizione in termini […]. Come osa un manipolo di santoni immiserire la sublime maestà dei Veda e delle Upanisad con il ristretto fanatismo del loro marchio identitario politico? Perché gli indù dovrebbero consentire loro di ridurre l’induismo a vociante autoesaltazione di hooligan da stadio, di prendere una religione di immensa tolleranza e ridurla a violenza sciovinista?».
E ancora: «Le aggressioni alle famiglie cristiane, le devastazioni vandaliche dei loro luoghi di preghiera, la distruzione delle case e dei mezzi di sussistenza, gli stupri brutali, le mutilazioni e le persone bruciate vive di cui sì è avuta notizia, non hanno niente a che fare con le credenze religiose, né quelle delle vittime, né quelle degli aggressori. Tutto ciò è invece parte di uno spregevole progetto politico il cui più vicino equivalente può essere trovato nelle bombe fatte esplodere da mujahiddin indiani a Delhi, Jaipur e Ahmedabad, in ospedali, in mercati e in campi di gioco. Entrambi gli atti sono anti-nazionali; entrambi mirano a dividere il Paese contrapponendo le persone secondo le rispettive identità religiose; ed entrambi calcolano di ricavare profitto politico da una simile polarizzazione. Abbiamo il dovere di non lasciare che l’una o l’altra forma di terrorismo vinca».
E conclude: «Le bande criminali dell’Orissa cercano di uccidere i cristiani e di distruggere le loro case e chiese per terrorizzare la gente e per trasmettere il messaggio: “Questo non è il tuo posto”. Come siamo arrivati a far sì che una terra che è stata rifugio di tolleranza per le minoranze religiose nel corso della sua storia sia caduta così in basso?».
Dalla risposta a questo bruciante quesito dipenderà il futuro dell’India come Paese democratico e rispettoso della libertà religiosa.
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Gerolamo Fazzini, giornalista professionista, esperto di temi internazionali e di informazione religiosa, è direttore editoriale del mensile «Mondo e missione» (rivista del Pontificio istituto missioni estere – Pime – di Milano), editorialista di «Avvenire» e coordinatore della Fesmi (Federazione della stampa missionaria italiana). Ha curato Il libro rosso dei martiri cinesi (2006, tradotto in francese, polacco, spagnolo e inglese) e Cattolici in Cina (2008, con A. Lazzarotto)