Il Timone n. 163 Maggio 2017
La trasandatezza liturgica ha portato a ridicolizzare l’atto dell’inginocchiarsi. Invece è il segno che diamo al nostro corpo per orientare la nostra disposizione alla preghiera tra noi e Lui
di Claudio Crescimanno
Incedere ut adores è la scritta a caratteri cubitali che campeggia sulla modesta facciata di una piccola chiesa di una delle tante cittadine italiane. Ben prima che li la comunicazione fosse una scienza, in sole tre parole l’ignoto committente ha voluto riassumere tutta la teologia liturgica essenziale: qui si entra per adorare. Lo spazio sacro, che ospita i riti liturgici, non ha altro scopo che questo: l’adorazione. Papa Benedetto XVI, nell’omelia del 22 maggio 2008 nell’Arcibasilica Lateranense. dice a tal proposito: “Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi […] Noi cristiani ci inginocchiarne solo davanti al santissimo sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio”.
Il papa emerito in questo passaggio mette in chiara relazione il concetto di “adorazione” con il gesto concreto del “piegare le ginocchia”. Nella liturgia cattolica uno dei gesti più importanti che si compie con il corpo è la genuflessione
“Ogni ginocchio si pieghi”
Il termine è di origine latina e di semplicissima analisi etimologica; genu-flectere, ovvero “piegare le ginocchia” Sembra di risentire le parole di San Paolo quando dice “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2,10-11).
Il gesto della genuflessione consiste nel piegare il ginocchio destro fino a terra ed era già conosciuto in ambito romano come gesto da riservarsi ai personaggi di riguardo In ambito cristiano è stato da subito un gesto che esprime l’adorazione verso Gesù, riconosciuto nella sua natura divina: “La genuflessione – e l’inginocchiarsi che si può considerare una genuflessione prolungata-è un gesto di riverenza e adorazione con il quale si riconosce la propria piccolezza davanti alla presenza divina. Per questo dai secoli XII e XIII la genuflessione è divenuta l’atto più universale per esternare la nostra adorazione al Signore nell’Eucarestia” (J. Aldazabal, Dizionario Sintetico di Liturgia, LEV).
Esaminando il rito romano nella forma straordinaria, troviamo una ricca prescrizione di genuflessioni per il sacerdote celebrante e i ministri durante la celebrazione della S. Messa: circa una ventina. I fedeli sono invitati a sostare in ginocchio durante le preghiere ai piedi dell’altare, durante tutta la consacrazione dal Sanctus al Per Ipsum e dall’Agnus Dei fino al momento di ricevere la S. Comunione, sempre in ginocchio alla balaustra.
Anche la benedizione finale viene impartita sui fedeli inginocchiati. I fedeli si genuflettono al momento del “et incarnatus est” durante la recita o il canto del Credo e nel momento del “et Verbum caro factum est” durante la recita del prologo giovanneo prevista o dopo la benedizione finale.
Nella forma ordinaria del rito romano, si assiste a una riduzione piuttosto significativa delle genuflessioni e degli spazi in cui sostare in ginocchio. Il sacerdote celebrante e i ministri ne eseguono da 3 a 5 a seconda che il tabernacolo sia collocato o meno sul presbiterio (in tal caso a inizio e fine celebrazione si omette la genuflessione e si esegue l’inchino con la testa). I fedeli si inginocchiano soltanto per la consacrazione, dal Sanctus al Mysterium fidei, con la possibilità di prolungare fino al Per Ipsum e hanno inoltre la possibilità di ricevere inginocchiati la S. Comunione.
Durante l’anno liturgico si riscontrano inoltre diverse particolarità: la genuflessione viene rivolta al Crocifisso dal venerdì santo fino alla veglia pasquale, imitando il gesto del centurione che, sotto la croce, si inginocchia riconoscendo che “davvero costui era figlio di Dio!” (Mt 27,54). Nella forma ordinaria la genuflessione è riservata alle parole del Credo “et incarnatus” soltanto nei giorni dell’Annunciazione del Signore (25 marzo) e nel Santo Natale, mentre nella forma straordinaria ciò è prescritto per ogni celebrazione in cui si deve recitare o cantare il Credo. Nella forma straordinaria, inoltre, esiste la cosiddetta “doppia genuflessione” da riservarsi al Santissimo Sacramento esposto e consiste nel “piegare ambedue le ginocchia. Si abbassa prima il ginocchio destro e poi il sinistro; invece si alza prima il sinistro e poi il destro. Vi si unisce un inchino mediocre di corpo” (L. Trimeloni, Compendio di Liturgia Pratica, n.356). Nella forma ordinaria la genuflessione doppia è stata abolita.
Trasandatezza dei gesti liturgici
Al di là delle norme, si assiste spesso ad una trasandatezza dei gesti liturgici. La liturgia, nella situazione attuale della Chiesa, è spesso teatro di violenti scambi di opinione in cui anche i dettagli più innocui possono rivelarsi problematici. Se le norme liturgiche della forma ordinaria permettono, ad esempio, di ricevere la S. Comunione in ginocchio, la prassi seguita pare tutta diversa. Molti dei fedeli che vorrebbero ricevere l’Eucarestia in questo modo vengono ridicolizzati se non proprio impediti, talvolta anche con rimproveri pubblici, perché questo è visto come gesto “esagerato”.
In generale i fedeli non sempre vengono educati a un comportamento consono nella casa del Signore: invece di salutare Gesù nel tabernacolo con una semplice genuflessione ben fatta, ci si riduce ad un frettoloso segno della croce o a qualche abbozzata riverenza.
Galateo liturgico
Una catechesi liturgica ben fatta dovrebbe essere una priorità nelle parrocchie, per attuare quella partecipazione attiva tanto cara alla riforma liturgica postconciliare. Dare per scontato certi comportamenti o, peggio, lasciare che sia la spontaneità a regolarli per fuggire il rischio di dare troppe regole o di essere troppo fissati con i “dettagli”, costituiscono la paura più diffusa nei pastori.
Il compito di educare il popolo di Dio alla preghiera passa anche attraverso i gesti: il “galateo liturgico” non è l’equivalente della cosiddetta etichetta in salsa cristiana, ma è l’espressione esterna e visibile di una fede vissuta essenzialmente nel cuore e che ha bisogno di essere alimentata continuamente.
Inginocchiarsi davanti a Gesù nel tabernacolo ci aiuta a entrare subito in un clima di preghiera autentico, perché definisce e riordina i soggetti che intervengono in questo dialogo: Lui al centro, pieno di luce, circondato dai fiori e dagli ornamenti e io, peccatore, povero, penitente e in ginocchio per riconoscerlo il tutto che è e per rimarcare che il niente che sono ha bisogno di Lui come un bambino neonato della propria madre. E questo non è forse un buonissimo punto di partenza?