Due tesi che si integrano
di Augusto Del Noce
Il libro di Giuseppe Boffa (Il fenomeno di Stalin nella storia del XX secolo, Laterza, Bari, L.22.000) espone con molta diligenza e ampissima informazione, e col massimo dell’oggettività che uno studioso comunista possa raggiungere, otto fondamentali espressioni dello stalinismo.
La prima è la sovietica ufficiale: esprime il punto di vista di quel che consuetamente è chiamato “socialismo reale”, e permette di penetrarne meglio la natura. Come intendere, infatti, il senso di questo termine così diffuso, se non per l’affermazione, in primo luogo, di una continuità ininterrotta, lineare e coerente, nella «costruzione del socialismo», secondo il progetto già ideato da Lenin, dalla rivoluzione d’ottobre a oggi? Il termine stesso di “stalinismo” come indicante una transitoria fase involutiva, dovrebbe, secondo questa interpretazione, essere bandito.
Certo, si riconosce che difetti, errori, abusi di potere, metodi riprovevoli si ebbero negli anni in cui la guida fu nelle mani di Stalin; essi però sono addebitabili alle caratteristiche individuali dell’uomo. Per gravi che possano essere stati, non avrebbero affatto incrinato lo sviluppo del socialismo in Russia, che si sarebbe compiuto in forma pienamente corrispondente ai dettami marxisti e leninisti. Pensare altrimenti significherebbe attribuire ad una singola persona poteri smisurati e soprannaturali; errori ed orrori non avrebbero rappresentato che degli incidenti storicamente secondari; lo Stato, diceva Breznev, è sempre rimasto «quello creato dalla Rivoluzione di ottobre».
Il termine, coniato dai dirigenti sovietici pochi mesi dopo la morte di Stalin, e reso popolare dal rapporto Kruscev, in occasione del XX Congresso del 1956, di «culto della personalità» non autorizza affatto a parlare di «una brutta parentesi», in cui lo spirito della rivoluzione sovietica avrebbe subito una sorta di eclissi.
Il suo significato, riferibile al soggetto Stalin, non può venire allargato come se designasse la presenza nella storia sovietica di un «periodo del culto della personalità», quasi tappa particolare di cui il comunismo dovesse emendarsi.
Questa tesi della continuità non interrotta da Stalin può anche venire letta con segno valutativo rovesciato, ed è quel che fanno i più rigoroso critici del comunismo. Anche se la letteratura di questo indirizzo è vasta, il pensiero corre subito a Solgenycin: che ha questo diritto di preminenza se si considera la consequenzialità rigorosa per cui, partito dalla critica allo stalinismo, è stato portato a riscoprire la tesi “antimoderna”, già enunciata dagli scrittori controrivoluzionari dell’Ottocento, tra i quali Dostoevski occupa un posto particolarmente eminente in una prospettiva secondo cui così marxismo e comunismo, con l’indebolimento di tutta la civiltà occidentale, sono «soprattutto il risultato della crisi storica, psicologica e morale di tutta la cultura e di tutto un sistema di concezione del mondo che è cominciata all’epoca del Rinascimento e ha trovato le sue massime formulazioni negli illuministi del XVIII secolo» (parole ricordate dal Boffa, e che riassumono il senso del celebre discorso di Harward ).
Senza la critica dell’idea di modernizzazione quale viene offerta dal razionalismo laico, e che oggi è prevalente nell’Occidente, la critica stessa di Stalin cade, secondo Solgenycin, nel vuoto. Di fatto è avvenuto che il suo discorso è stato amputato di questa più profonda parte sulla genesi, perché considerata “reazionaria”. Il risultato è stato la banalizzazione dell’antistalinismo, la cui condanna di disumanità risulta insieme ovvia e sterile, come quando si rinuncia a un bisogno di spiegazione. Tornando alla sua tesi Solgenycin la riassume col dire che «Stalin fu continuatore, magari inetto, ma coerente e fedele dello spirito della dottrina leninista».
Direttamente opposta, nelle apparenze, a tale interpretazione, è quella che vede nello stalinismo una «rivincita della vecchia Russia» o, per usare le parole dello storico americano di Princeton a cui il Boffa particolarmente si riferisce, Robert C. Tucker, «una rivoluzione che distrusse un’altra rivoluzione nel nome di questa».
E’ una tesi che già si affacciò intorno al ’20 negli ambienti dell’emigrazione russa, che ebbe il suo capostipite nello storico liberale, leader del partito dei cadetti, Milyukov, e che trovò negli anni Trenta la sua sistemazione nel filosofo Berdiaev, il quale facilmente la combinò con l’opinione, allora corrente, sul «comunismo storia russa estranea all’Occidente», svolta, anche a livello comune, nei consueti paragoni tra Stalin e Ivan il Terribile o Pietro il Grande , o nei discorsi sulla continuazione della tradizione autocratica zarista.
La tesi ha avuto uno sviluppo particolarmente accurato, così da presentarsi definita in tutti i suoi particolari in studiosi recenti, come appunto il Tucker. per lui si deve parlare di una revisione a un tipo di processo rivoluzionario che la storia russa aveva già conosciuto in precedenza.
Lenin pensava a un processo di distruzione del vecchio ordine e alla costruzione di un ordine affatto nuovo e operava in conseguenza. La revisione staliniana sarebbe invece avvenuta attraverso una trasposizione della rivoluzione in rivoluzione dall’alto, secondo il modello già praticato da Pietro il Grande.
Risultato, il compimento dello varismo come «costrizione di tutte le classi dall’infimo servo al nobile più altolocato, al servizio obbligatorio dello Stato»; il marxismo assolverebbe a un compito analogo a quello che la Chiesa esercitava per lo varismo, quello di santificare il sistema. La reversione come ritorno al passato spiegherebbe i processi del ’37, e l’eliminazione della vecchia classe dirigente bolscevica. Al bolscevismo, orientato verso l’avvenire di Lenin, si sarebbe sostituito, con Stalin, il bolscevismo del ritorno al passato.
Continuità, dunque, o frattura. Le altre cinque interpretazioni rientrano, a ben guardare, nell’una o nell’altra tra quelle di cui si è sinora discorso. Non per questo sono meno importanti: dimostrano come il processo che la rivoluzione sovietica ha percorso esemplifichi in modo perfetto la fenomenologia a priori della rivoluzione totale.
Assai spesso gli studiosi di storia hanno diffidato dalle interpretazioni filosofiche come aprioristiche; dobbiamo oggi riconoscere che per quel che riguarda una almeno di esse, non legata, per il suo carattere, fenomenologico, a sistemi particolari, non hanno fatto che verificarla. Consideriamo infatti i tipi interpretativi opporti della scuola totalitaria e della scuola termidoriana (trotzkista); in un’analisi filosofica (per esempio quella, ma non è la sola, condotta da Jacques Ellul nella sua Autopsia della rivoluzione) si conciliano, perché l’idea della rivoluzione totale include quella del totalitarismo e quella del “tradimento”, necessario per il suo successo storico.
La rivoluzione totale, promessa da Marx e iniziata da Lenin, non poteva non essere totalitaria, in quanto intendeva operare un passaggio tra opposti , dal regno della necessità al regno della libertà, e si presentava come creazione di un nuovo tipo umano, l’”uomo totale”; insistere perciò sulla presenza, nello stalinismo, dei tanti caratteri attribuiti al totalitarismo (l’unica ideologia ufficiale consentita, l’unico partito di massa, la funzione del capo, il monopolio degli strumenti di comunicazione , il terrore poliziesco, l’abolizione della sfera privata, la proprietà statale dei mezzi di produzione, la direzione centralizzata dell’economia, lo stimolo all’attivismo rivoluzionario, l’espansionismo in politica estera, e quanti altri se ne voglia aggiungere) è dire semplicemente che esso continua e porta a una forma quasi perfetta il progetto del marxismo-leninismo.
Ed è inoltre da ricordare come il termine di totalitarismo fosse, nel periodo tra le due guerre, usato in senso positivo non soltanto dagli scrittori fascisti, ma dagli autori comunisti, come Lukàcs e Gramsci. Assunse il senso di punto massimo della tirannide quando si constatò che la rivoluzione totale, anziché realizzare le «radiose aurore» della Luxemburg o di Trotzkij, era destinato a ricadere nella vecchia storia, come avvenne appunto con Stalin, figura al riguardo simbolica; ma il processo avvenne per la natura stessa della rivoluzione totale, non per l’intenzione di un gruppo. In questo senso si deve parlare di una continuità rigorosa tra Lenin e Stalin, in un processo che è di eterogenesi dei fini rispetto all’intenzione originaria.
In ragione della complessità del fenomeno e del lavoro che è ancora da fare Boffa si schermisce dal dare una interpretazione sua, riconoscendo il contributo, se pur di non eguale importanza, di tutte quelle che ha esposto. Ma, a guardare meglio, si vede che l’autore con cui si raccorda è Roy Medvedev, esponente di un alquanto addomesticato dissenso, la cui opera maggiore Lo stalinismo. Origini, storia, conseguenze è stata tradotta in italiano nel 1972. Dissenso strano, perché il Medvedev continua a vivere indisturbato a Mosca, e ai suoi lavori, che in Russia sono proibiti, è stato però concesso il permesso della pubblicazione all’estero.
E’ difficile sottrarsi al pensiero che questo permesso, silenzioso o meno, sia stato accordato perché la sua opera facesse da contrappeso a quella di Solgenycin, che non ha mancato di osservarlo. «”Stalinismo” è un concetto molto comodo per quei nostri circoli marxisti “ripuliti” che cercano di distinguersi dalla linea ufficiale, nei fatti distinguendosi in misura insignificante (come tipico rappresentante di questa linea si può segnalare Roy Medvedev); in quanto in essa il durio giudizio sullo stalinismo non coinvolge la critica né del marxismo, né del comunismo». Insomma è uno storico che sembra fatto apposta per quell’eurocomunismo che il sistema sovietico deve tollerare; e dell’eurocomunismo il libro del Boffa è senza dubbio un documento significativo.
Ora, una riflessione spassionata sulle interpretazioni porta innanzitutto a ridurle a due (della continuità e della frattura), poi a constatare come esse non sono affatto opposte come parrebbe; e come entrambe siano vere. Se si prescinde, come si deve fare, dalle differenze psicologiche, non si trova nel pensiero leninista alcun principio che permetta di condannare l’opera di Stalin. Non certo si può ravvisare la rottura della staliniana «rivoluzione dall’altro», che continua la concezione elitaria del partito già affermata da Lenin.
Forse il nazionalismo? ma anche a questo riguardo è da domandarsi se la rivoluzione leninista avrebbe potuto riuscire senza il sostegno di una fede popolare in un primato russo per un’opera di redenzione del mondo, che permaneva mutata di segno. Lo zarismo l’aveva lasciata cadere intervenendo nella prima guerra mondiale accanto alle nazioni democratiche che ne avevano la guida e ne dettavano l’ideologia; il socialismo democratico di Kerenski allineava a esso la Russia, mettendola però di fatto in una posizione di coda; con Lenin ritrovava il primato. Ora, Stalin portò al limite il connubio tra il marxismo dogmatico e il primato russo; l’interpretazione della continuità e l’interpretazione della rivincita della Russia si integrano anziché escludersi.
E ora? Penso che qualsiasi discorso sulla Russia pststaliniana o recente debba prender inizio dalla crisi di questo connubio; la fede nel marxismo dogmatico, surrogato di fede religiosa, si è certo andata affievolendo, e parlare di affievolimento è dir poco.