Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa
Newsletter n.956
Lorenzo Bertocchi
Il quotidiano italiano “La Verità” ha pubblicato ieri lunedì 14 gennaio una intervista all’arcivescovo Giampaolo Crepaldi, presidente del nostro Osservatorio, a firma di Lorenzo Bertocchi. L’occasione era data dall’uscita in libreria del Decimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo dell’Osservatorio stesso, edito da Cantagalli. Purtroppo i redattori del quotidiano hanno messo un titolo sbagliato: “Non esiste un diritto ad emigrare”, come se questo emergesse dall’intervista di Mons. Crepaldi, cosa che invece non è. Già nell’Ottavo Rapporto dedicato proprio al fenomeno delle Migrazioni, il vescovo Crepaldi aveva chiarito l’insegnamento della Dottrina sociale della Chiesa sull’argomento: c’è un diritto ad emigrare, non c’è un diritto assoluto ad immigrare, ossia ad entrare in un altro Stato. Fatta eccezione per questo errore nel titolo, opera redazionale e da non attribuirsi all’autore dell’intervista, le risposte di Mons. Crepaldi meritano attenzione e per questo riportiamo qui sotto l’intervista
Si moltiplicano gli appelli all’accoglienza, spesso anche da parte di uomini di Chiesa. Quali sono i criteri che la Dottrina sociale della Chiesa offre per affrontare il problema delle immigrazioni senza cadere nel vuoto buonismo?
Una delle vie privilegiate di esercizio della carità è la politica, la quale richiede anche l’uso della ragione perché non si limita ad azioni personali di solidarietà ma vuole costruire una società solidale, che funzioni in tale modo. Non potendo andare tutti a Lampedusa ad accogliere immigrati bisogna impegnarsi con una buona politica la quale deve sempre perseguire il bene comune, che non è solo quello degli immigrati, ma anche quello della nazione accogliente e quello del bene della comunità universale.
Quindi le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza e nello stesso tempo interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune ONG, non scaricare tutta la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea e mediterranea e così via. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nella tutela del bene di tutti.
Secondo il recente Decimo Rapporto del vostro Osservatorio, la questione del rapporto con l’islam assume chiaramente una rilevanza politica e deve perciò essere giudicata anche con i principi della Dottrina sociale. Cosa significa per l’integrazione dei migranti di fede islamica?
La politica che si occupa di religioni deve prima di tutto conoscere le religioni di cui si occupa, evitando di considerarle tutte uguali o tutte diverse. In altre parole, deve misurarsi con la verità delle religioni, altrimenti non esercita la propria razionalità politica. Questo è un dovere della politica che va attuato anche nei confronti dell’islam. È un compito, in un certo senso, anche della Chiesa, che non dovrebbe limitarsi al solo dialogo interreligioso o predicare una accoglienza generica e indifferentista. Anche la Chiesa dovrebbe valutare l’islam – come del resto le altre religioni – alla luce dei principi della sua Dottrina sociale.
L’integrazione autentica richiede questa valutazione, nel rispetto di tutti, compreso l’islam che certamente non ha interesse ad essere considerato diversamente da quello che è. Per conoscere una religione però, bisogno rifarsi alla sua teologia, alla sua visione di Dio, la quale richiede sempre al fedele una coerenza rispetto ai suoi principi. Questa coerenza teologica si impone sempre, prima o dopo. Le discussioni sull’islam “moderato” o “europeo” qui cadono.
Ecco perché non bisogna far finta che nella teologia islamica non ci siano elementi che rendono difficile l’integrazione. Ne elenco alcuni: l’idea di Dio come Volontà, le sue leggi come decreti a cui obbedire alla lettera, l’impossibilità di un diritto naturale, la coincidenza tra legge islamica e legge civile, la distinzione antropologica tra categorie di persone, la priorità della Umma sull’umanità allargata, l’espansione come conquista… Illudersi che queste ed altre caratteristiche possano mutare è ingenuo, come pensare che un cattolico possa rinunciare alla Trinità di Dio e alla incarnazione di Gesù.
Per qualcuno sembra che il fenomeno dell’immigrazione sia ineluttabile e l’unica soluzione sia la società multietnica fatta di diverse culture e religioni. Lei che ne pensa?
Bisogna distinguere tra le situazione di fatto e quelle di diritto. Può darsi che il fenomeno delle migrazioni e delle immigrazioni di fatto continui, ma nessuno può dire che sia in sé un bene. I vescovi dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la Dottrina sociale della Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro la marea migratoria ci celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni non sono quindi un bene in sé, la cosa dipende se servono il bene dell’uomo o no, e se non sono un bene in sé non sono nemmeno ineluttabili, anche se il giudizio di fatto oggi sembra dirci così.
Lo stesso dicasi per la società multireligiosa: non è un bene in sé, essa è a servizio del bene comune, che rimane il fine ultimo della comunità politica. Ci sono religioni che propongono e impongono prassi contrarie al bene dell’uomo, come la superiorità del maschio sulla femmina o le mutilazioni genitali. Dire che è un bene in sé significa rinunciare a valutare le religioni con un criterio di verità
In un celebre discorso pronunciato 9 giorni dopo l’attacco alle torri gemelle di New York, il cardinale Giacomo Biffi disse che a proposito dell’immigrazione «dovere statutario del popolo di Dio e compito di ogni battezzato è di far conoscere Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto per noi e risorto, e il suo necessario messaggio di salvezza». Questo compito della comunità cristiana non viene messo un po’ in secondo piano oggi?
L’evangelizzazione e la promozione umana vanno insieme. Questo vuol dire anche che la promozione umana non può sostituire l’evangelizzazione. Accogliere e integrare può essere l’obiettivo della politica, ma la Chiesa ha un obiettivo che va oltre: annunciare Cristo. Ritengo che oggi ci sia la tentazione di fermarsi prima dell’annuncio.
Sempre secondo Biffi «poiché non è pensabile che si possano accogliere tutti, è ovvio che si imponga una selezione» e indicava chiaramente che «la responsabilità di scegliere non può essere che dello Stato italiano, non di altri». Sembra buon senso, eppure oggi sembra sostituito da un “ecumenismo” dal sapore “politico”. Sbagliava forse il cardinale Biffi?
Come dicevo sopra, l’ecumenismo politico che accoglie tutte le religioni indiscriminatamente, significa l’abdicazione della politica al proprio dovere di perseguire il bene comune, che non è una semplice convivenza ma una convivenza ordinata. Ci sono aspetti delle religioni che mettono in pericolo questa convivenza ordinata. Bisogna però anche rovesciare il ragionamento: la ragione politica occidentale si è indebolita e tollera ormai tutto. Essa nasconde questa sua debolezza trasformando in valore la sua indifferenza religiosa.
Il debole, come diceva Nietzsche, si difende trasformando in virtù la propria miseria. Così fa anche l’Europa che chiama tolleranza religiosa l’indifferentismo religioso. La politica deve essere tollerante ma non può tollerare il male da qualsiasi parte esso venga, comprese le religioni. Le politiche religiose, fatta salva la dignità delle persone, devono tenere conto di queste differenze sia nell’accogliere che nell’integrare e non può mai fare di ogni erba un fascio