Libertà è persona 15 settembre 2015
di Francesco Agnoli
L’articolo di Antonio Socci sul “divorzio cattolico” rischia di creare molta confusione. Perchè molto confuso. Non voglio né ho le capacità, per soffermarmi su un problema troppo arduo: come andava fatta la riforma del processo di nullità? E’ stata fatta bene, o troppo in fretta e troppo ambigua? Non mancano infatti i favorevoli ad una riforma, la stragrande parte dei padri sinodali, e non mancano, nello stesso tempo, coloro che ritengono andasse però fatta con più cautela e precisione.
Non è però sulle modalità migliori per l’accertamento della nullità che mi voglio soffermare, perché non è di ciò che Antonio Socci parla.
Dopo una critica a certe parole di Mons. Pinto, del tutto condivisibile, Socci spiega: «la carica di dinamite sta specialmente nell’articolo 14 delle Regole procedurali dove si evoca la “mancanza di fede” dei nubendi come possibile causa di simulazione o errore nel consenso e quindi di nullità del matrimonio. Finora la carenza di fede come causa di invalidità del matrimonio è sempre stata esclusa dalla Chiesa, la quale si limita ad elevare a sacramento il matrimonio naturale. Spiegava Bendetto XVI: “il patto indissolubile tra uomo e donna non richiede ai fini della sacramentalità la fede personale dei nubendi; ciò che si richiede, come condizione minima necessaria, è l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa“…»
Già qui si potrebbero fare vari appunti, che diverranno poi più chiari. Non è vero che la mancanza di fede non sia mai stata presa in considerazione. Nei vecchi manuali di teologia morale, pre-conciliari, come lo Jone, nei “Mezzi per assicurare la validità e la liceità del matrimonio” si invitano i futuri sposi ad istruire adeguatamente i nubendi nella dottrina cristiana, per renderli edotti di quali sono i fini che la Chiesa attribuisce al matrimonio. Non è richiesta dunque la fede, ma un assenso alla dottrina sì.
Proprio Benedetto XVI, che era convinto che oggi molti matrimoni odierni sono nulli, scriveva riguardo al matrimonio: «La fede in Dio, sostenuta dalla grazia divina, è dunque un elemento molto importante per vivere la mutua dedizione e la fedeltà coniugale» (Catechesi all’Udienza generale [8 giugno 2011] : Insegnamenti VII/I [2011], p. 792-793). Non s’intende con ciò affermare che la fedeltà, come le altre proprietà, non siano possibili nel matrimonio naturale, contratto tra non battezzati. Esso, infatti, non è privo dei beni che «provengono da Dio Creatore e si inseriscono in modo incoativo nell’amore sponsale che unisce Cristo e la Chiesa» (Commissione Teologica Internazionale, La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], 3.4: Documenti 1969-2004, vol. 13, Bologna 2006, p. 147).
Certamente, però, la chiusura a Dio o il rifiuto della dimensione sacra dell’unione coniugale e del suo valore nell’ordine della grazia rende ardua l’incarnazione concreta del modello altissimo di matrimonio concepito dalla Chiesa secondo il disegno di Dio, potendo giungere a minare la validità stessa del patto qualora, come assume la consolidata giurisprudenza di codesto Tribunale, si traduca in un rifiuto di principio dello stesso obbligo coniugale di fedeltà ovvero degli altri elementi o proprietà essenziali del matrimonio. …
Vorrei soffermarmi, infine, brevemente, sul bonum coniugum. La fede è importante nella realizzazione dell’autentico bene coniugale, che consiste semplicemente nel volere sempre e comunque il bene dell’altro, in funzione di un vero e indissolubile consortium vitae. In verità, nel proposito degli sposi cristiani di vivere una vera communio coniugalis vi è un dinamismo proprio della fede, per cui la confessio, la risposta personale sincera all’annuncio salvifico, coinvolge il credente nel moto d’amore di Dio…
Non si deve quindi prescindere dalla considerazione che possano darsi dei casi nei quali, proprio per l’assenza di fede, il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso; ad esempio, nell’ipotesi di sovvertimento da parte di uno di essi, a causa di un’errata concezione del vincolo nuziale, del principio di parità, oppure nell’ipotesi di rifiuto dell’unione duale che contraddistingue il vincolo matrimoniale, in rapporto con la possibile coesistente esclusione della fedeltà e dell’uso della copula adempiuta humano modo.
Con le presenti considerazioni, non intendo certamente suggerire alcun facile automatismo tra carenza di fede e invalidità dell’unione matrimoniale, ma piuttosto evidenziare come tale carenza possa, benché non necessariamente, ferire anche i beni del matrimonio, dal momento che il riferimento all’ordine naturale voluto da Dio è inerente al patto coniugale (cfr Gen 2,24) (https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2013/january/documents/hf_ben-xvi_spe_20130126_rota-romana.html) .
Il cardinal Scola argomenta così: oggi «non si può dare per scontato che i coniugi con la celebrazione del matrimonio intendano fare ciò che intende fare la chiesa» e «una mancanza di fede potrebbe condurre a escludere i beni stessi del matrimonio». Per Scola andrebbe verificata la presenza di un “minimum fidei” per ritenere valido il matrimonio (http://www.ilfoglio.it/chiesa/2015/05/20/nullita-sinodo-chiesa-famiglia-scola___1-v-128956-rubriche_c329.htm).
Come si conciliano allora le frasi di Benedetto XVI, sulla non necessità, per il matrimonio cristiano, di essere tra persone di fede, e sul fatto che «proprio per l’assenza di fede» può accadere che «il bene dei coniugi risulti compromesso e cioè escluso dal consenso stesso», rendendo di fatto nullo il matrimonio? Con il fatto che tale carenza di fede «possa, benché non necessariamente, ferire anche i beni del matrimonio», rendendolo dunque nullo?
Facciamo un passo indietro. Socci non ha chiaro che il matrimonio naturale non è esattamente, soprattutto oggi, quello che molta gente crede. Per la Chiesa il matrimonio naturale esige che chi si sposa in Chiesa creda e dia assenso vero, non simulato, a: indissolubilità, unicità, apertura alla prole, bonum coniugium.
Se manca il consenso di uno dei nubendi ad uno solo di questi punti, si ha nullità, non per la riforma di papa Francesco, ma per il codice di diritto canonico. Citando Socci, che cita Benedetto, per la validità del matrimonio, «si richiede, come condizione minima necessaria, è l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa». Ma il fatto sta qui: la condizione minima necessaria è molto spesso non riconosciuta dagli stessi sposi che si sposano in Chiesa, che abbiano la fede o meno. Basta che uno di loro sia chiuso alla vita (cioè non voglia figli), o che non creda nell’indissolubilità (e quindi consideri per esempio il divorzio come una soluzione praticabile e giusta, eventualmente, per il suo futuro), per far sì che venga a mancare “l’intenzione di fare ciò che fa la chiesa”! E quindi per far sì che venga a mancare la validità del matrimonio! Cioè che il matrimonio, pur celebrato apparentemente, non vi sia mai stato (la Chiesa non annulla i matrimoni, ma riconosce in certi casi che un matrimonio celebrato era invalido dal principio, cioè inesistente).
In altre parole, le persone che giurano in chiesa di voler essere fedeli “sempre”… possono farlo senza alcuna convinzione, simulando… (parola presente in tutta la giurisprudenza rotale tradizionale, e non una invenzione del nuovo processo, come sembrerebbe leggendo Socci).
Dunque per la Chiesa accettare certi elementi fondamentali del matrimonio è “naturale” (ma, lo si è detto, in tanti casi, sempre meno naturale per l’uomo di oggi), e in ogni modo legato in parte anche alla fede (altrimenti non si capirebbe perché prima del cristianesimo, non esista l’indissolubilità; né perché nell’Antico Testamento Do permetta il ripudio, cosa che non fa nel Nuovo, dopo la Rivelazione).
In Luce del mondo Benedetto XVI scriveva: «Fino ad oggi il diritto ecclesiastico ha presupposto che chi contraeva matrimonio sapesse che cos’è il matrimonio. Nell’odierno groviglio di opinioni e in una costellazione totalmente mutata, è più facile che si creda che corrisponde semplicemente alla normalità rompere il matrimonio» .
Notare che quando usa il verbo “sapere”, Benedetto dà per scontato che il lettore sappia un fatto: senza consapevolezza di cosa sia il matrimonio, senza sapere cosa sia, non vi può essere vero consenso, e «senza consenso non si dà matrimonio» (catechismo)
In un altro passaggio Benedetto affermava: l’ «accentuato soggettivismo e relativismo etico e religioso» della cultura contemporanea ritiene che «legame che duri per tutta la vita … non corrisponda alla natura dell’uomo e sia piuttosto in contrasto con la sua libertà e autorealizzazione».
Dunque se per Benedetto e molti altri (Scola, Mueller…) ciò che la Chiesa ritiene comprensibile, naturale, alla luce del diritto naturale, oggi è spesso ritenuto, al contrario, contro natura (come l’indissolubilità e l’apertura ai figli: sono considerati più naturali il divorzio e la contraccezione), e ciò che la Chiesa ritiene cristiano è ritenuto da molti cristiani opzionale e non vincolante (quanti cristiani ritengono che il divorzio sia giusto), ne deriva ancora più evidentemente che in passato la possibilità di ancorare la validità del matrimonio ad un “minimo” di fede: quel minimo che permetta ai nubendi di dare un assenso sincero e non simulato, senza il quale non esiste matrimonio sacramentale, a indissolubilità, apertura ai figli, unicità… e al fatto di voler fare «ciò che fa la Chiesa». Quel minimo che, secondo le parole di mons. Pinto, costituisce un «ponte verso la conoscenza e quindi la libera volontà di dare il consenso sacramentale».
Riprendiamo il concetto sopra citato di Socci: egli critica l’idea che la “mancanza di fede” dei nubendi sia «possibile causa di simulazione o errore nel consenso e quindi di nullità del matrimonio». Davvero crede che due nubendi, che non hanno la fede, e che vivono in una cultura in cui i fini del matrimonio come li vede la Chiesa sono considerati “innaturali”, non possano ragionare così: «Sì, mi sposo in chiesa perché me lo ha detto la mamma… perchè si usa, perchè vuole la mia fidanzata… ma non credo in Dio, nè nella Chiesa, e neppure nelle promesse di indissolubilità e di apertura ai figli”?
E se uno dei due sposi ragiona così (quindi simula di credere al giuramento, che fa, pur non credendo nè al matrimonio naturale nè a Dio), forse il suo matrimonio è valido?
Certamente no, e la Chiesa lo ha sempre pensato (il matrimonio infatti, non è, come pensa Socci, come il battesimo, che può essere amministrato illecitamente, ma è sempre valido nel senso che il sacramento ha un’ efficacia intrinseca: il matrimonio richiede il consenso esplicito e consapevole, senza il quale non esiste. Infatti non esiste la possibilità di un battesimo nullo, ma la possibilità di un matrimonio nullo, cioè che non è mai esistito, sì).
Alla luce di quanto detto risultano ancora più incomprensibili, quanto Socci afferma nel proseguo dell’articolo.
Le frasi di Socci «basta volere il matrimonio naturale»; oppure «Ma da quando in qua per sposarsi validamente occorre essere santi o prendere una laurea in teologia alla Gregoriana?»; oppure la frase: la Chiesa ha «sempre insegnato che la disposizione spirituale degli sposi (la loro santità) incide sui frutti del sacramento, non certo sulla sua validità», dimostrano una incomprensione del matrimonio secondo la Chiesa.
Prendiamo la prima: semplice dire «basta volere il matrimonio naturale», senza aggiungere che per la Chiesa naturale significa fedele, unico, aperto alla vita…! Senza specificare che la parola “volere” per la Chiesa ha un senso cogente: volere il matrimonio vuol dire volerlo così come è, con tutti i suoi doveri, in nulla diminuito.
Assurdo parlare della santità dei nubendi, quando di fronte ad un sacramento essa non è mai decisiva (il sacramento ha una efficacia intrinseca, sia che sia dato o celebrato da ministri mediocri, sia che lo sia da ministri santi), ma della veridicità del assenso. Quando si parla di nullità nel campo matrimoniale, lo si fa non per la santità o meno degli sposi, ma per la loro disposizione. Come si è detto più volte, ma il concetto è capitale, i ministri del matrimoni sono gli sposi, e il matrimonio richiede, per essere valido, un consenso vero, sincero, totale, libero e non simulato o parziale.
E’ l’assenza di vero consenso che può rendere nullo il matrimonio, non la minore o maggior santità di chi lo celebra. Ogni processo rotale può analizzare l’esistenza o meno del consenso, non la fede dei nubendi (altro è dire, come Benedetto e altri, che laddove vi sia fede, soprattutto oggi, è più facile vi sia consenso vero!).
Quando Socci critica il passaggio in cui il nuovo processo parla di nullità per «la brevità della convivenza coniugale» o perché i due ragazzi si sono sposati per ovviare ad una gravidanza indesiderata, si dovrebbe approfondire, non restare sul vago, per non far credere fischi per fiaschi. Ora è giusto dire che certi capi di nullità andrebbero circostanziati e compresi meglio, ma nella sostanza, siamo sulla linea tradizionale. E’ dai primi secoli che la Chiesa annulla matrimoni non liberi, cioè imposti da genitori, status sociale, circostanze… Un matrimonio celebrato solo per ovviare alla nascita di un figlio, magari da due ragazzi, dietro spinte emotive, economiche, familiari vincolanti, è valido? Se ne può ben dubitare, visto che per un consenso libero è richiesta una vera e piena libertà!
Riguardo alla «brevità della convivenza coniugale», in un matrimonio in cui due persone si lasciano dopo due mesi, si può forse ritenere che nell’atto del giuramento, Giuro di essere fedele sempre…, giurassero con vero consenso e convinzione, o che simulassero?
Alla luce delle considerazioni fatte occorre dire che certi articoli servono solo a gettare sconcerto e confusione… non a fare il bene della Chiesa. Perchè le critiche legittime ed utili che si possono fare alla modifica del processo, sono annullate da tante critiche infondate e senza motivo, generando così caos e incomprensibilità.
Detto questo, i problemi che si pongono sono altri: può la Chiesa continuare a celebrare matrimoni che, come spesso di può capire dal principio, sono nulli? E’ ancora giusto lasciare che qualcuno si sposi in Chiesa senza crederci? Non sarebbe opportuno, da una parte impedire matrimoni senza vero consenso, dall’altra fare finalmente una vera pastorale dei fidanzati, perché chi si sposa in Chiesa sappia a quali compiti e doveri è chiamato?