Trascrizione della conferenza del 20 giugno 1985 a Milano, presso la Sala Capitolare della basilica di Santa Maria della Passione a cura dell’U.C.D. (Unione Cattolica Imprenditori Dirigenti)
di mons. Luigi Giussani
Vorrei iniziare gli accenni a quelli che mi sembrano i valori, i tratti fondamentali del fenomeno educativo, con un brano di Eliot. Insieme a Leopardi, è il mio poeta preferito, per cui lo leggo quasi ogni giorno.
E la Chiesa deve sempre edificare, e sempre decadere, e dev’essere sempre restaurata.
Ma qui sulla terra avete la ricompensa del bene e del male che fu fatto da quelli che vi hanno preceduto.
La Chiesa deve edificare di continuo, perché è continuamente minata dall’interno e attaccata dall’esterno;
[1]
Ho voluto rileggere questo brano innanzitutto perché, come ho già impazientemente accennato prima, il primo fattore fondamentale del fenomeno educativo viene proclamato. Il fenomeno educativo è evidentemente un presente (fosse un vestigio del passato, è nel presente che può diventare educazione), è un rapporto presente.
Ma per educare… Un buon teologo austriaco mi ha dato quella che io ritengo la definizione migliore di educazione che abbia trovato fino ad ora: dice che l’educazione è l’«introduzione alla realtà totale» (2). Ma perché l’uomo deve essere educato, cioè introdotto alla realtà totale?
L’uomo – osserva continuamente il Papa quando parla di educazione o di cultura, che in fondo è lo stesso, perché l’educazione è lo strumento principe della cultura e ultimamente le due parole hanno due radici che si richiamano – deve essere educato perché diventi più se stesso, si realizzi. L’uomo, infatti, non si realizza se non attraverso l’incontro con altro.
Forse qualcheduno di loro ricorda la Sinfonia pastorale di Gide (3) – mi pare ne fecero anche un film, ma io non vedo film da decenni -, dove Gide narra di un pastore protestante che a Natale fece la visita alle sue “pecorelle” ed entrò anche in una capanna molto povera, dal tetto molto spiovente, fin quasi a terra. In quella povera abitazione, mentre stava parlando coi due vecchissimi abitanti, s’accorse che quello che gli sembrava un mucchio di stracci, proprio nel sottotetto, si muoveva.
Allora si incuriosì, si alzò, s’avvicinò: c’era, sotto il mucchio di cenci, una ragazza dall’apparente età di diciassette anni. Questa ragazza era cieca e sorda, e quindi muta. Era nata cieca e sorda, e quindi era rimasta muta. I due abitanti della capanna erano i nonni. La madre, loro figlia, aveva dato alla luce quella creatura ed era morta mentre la dava alla luce.
I nonni avevano incominciato a fare tutti i versi caratteristici per destare la reazione della bambina, ma essa era cieca e sorda e perciò non recepiva nulla. Ignoranti e già stanchi, perché vecchissimi, l’avevano semplicemente lasciata lì, sempre nello stesso posto, dandole semplicemente da mangiare. Era cresciuta, dice Gide, evidentemente, come una bestia. Allora, il pastore protestante si incarica della riabilitazione, del recupero di quella creatura, ecc.
Ma, è vero il contenuto primo del romanzo: che l’uomo si sviluppa per rapporto, per contatto con altro. L’altro, tanto è originariamente necessario perché l’uomo esista, altrettanto è necessario perché l’uomo s’avveri, si inveri, diventi sempre più se stesso. Per questo l’uomo è destinato, per un compimento di sé, all’orizzonte totale. Perciò, potenzialmente almeno, l’educazione deve mirare a introdurre l’uomo nella realtà totale.
Ma questa realtà totale, o questa realtà con cui il soggetto si impatta, con che occhi, vale a dire con che criteri, vale a dire con che “ipotesi di significato” sarà affrontata? Non ci fosse un’ipotesi di significato, non ci fosse un precedente punto di vista, quanto minor valore avrebbe tutto ciò! Basta entrare in questa sala: quanto è diversa la reazione che uno prova di fronte a questi capolavori a seconda dell’evoluzione che la sua coscienza ha avuto!
[2]
Insomma, un genitore – identificando nel genitore, giustamente, l’educatore per eccellenza, per natura -, in base a quali termini introdurrà il figlio nel rapporto con la realtà? Senza una proposta, il rapporto con la realtà è puramente reattivo, sarebbe come se cominciasse sempre da capo, sempre da zero, pura reattività – istintiva o d’opinione -, ma non sarebbe mai una conoscenza nel senso pieno del termine. Insisto con i giovani nell’uso del termine, della formula scientifica, “ipotesi di lavoro” perché un uomo conosce solo in base ad una ipotesi di lavoro.
La genialità dell’uomo sta nel reperimento d’una ipotesi di lavoro più adeguata. Io dico che l’ipotesi di lavoro in base alla quale un genitore introduce nella realtà il figlio si chiama “passato” è il passato. Ho detto che il fenomeno educativo si gioca nell’istante, in un presente. Ma cos’è un presente, un istante? L’istante presente è nulla: la sua densità, la sua ricchezza è l’eredità del passato, compreso l’istante precedente. Nell’istante presente, soltanto entra in gioco quella cosa misteriosa che si chiama libertà, che manipola in qualche modo ciò che arriva dal “precedente” dal passato.
Voglio dire che la prima condizione o il primo fattore fondamentale d’una educazione è la tradizione, è la ricchezza di una tradizione. Senza questo non esiste possibilità di educazione o l’educazione diminuisce, s’appiattisce, può diventare un encefalogramma a risultato piatto. Il primo fattore è la ricchezza della tradizione. Questa è la grande, più o meno ricca, ipotesi o punto di vista con cui la natura assiste la nuova creatura nell’impatto con la realtà.
L’avventura in cui la natura, l’esistenza, butta la nuova creatura è carica di dote. Non è spoglia, nuda, neutra, ma è carica di dote, e questa dote si chiama “il passato’! Insisto nell’osservare – Solzenicyn ha in questo senso delle pagine bellissime, ma è una sua idea insistente – che un regime, nel senso cattivo del termine, un potere che voglia essere potere sugli uomini, sul popolo, innanzitutto deve tagliare i rapporti del popolo che gli è soggetto con il passato.
Perché un popolo che non tagli con il passato, a cui non venga come svuotata la memoria, annullata – dice Solzenicyn – la memoria, ha una potenzialità di giudizio e quindi di critica, e quindi una potenzialità di ribellione, grande. Inversamente, quanto più grande è la ricchezza di una tradizione proposta, tanto più il giovane, l’educando, ha una pacificità di rapporto con chi lo precede, con chi è più grande, col padre e con la madre.
La cura della tradizione. Ma questo significa che l’attore o il mediatore dell’offerta, il genitore, deve essere il più possibile consapevole di ciò che passa. Non è assolutamente identificabile la consapevolezza con la ricchezza, perché la maggior parte, forse anche, della ricchezza viene comunicata, può essere comunicata anche senza consapevolezza critica.
Ma quanto più è consapevole criticamente, tanto più esplosivo è il fascino che la tradizione esercita. Io credo che la sicurezza o la stabilità o l’equilibrio psicologico di una persona sia estremamente legato alla positività di una proposta che riassuma -per la sua vita che si agita, nuova – il passato, la tradizione. Un senso per la vita, un significato per la vita non può non essere innanzitutto identificato dentro un passato, o da un passato offerto.
Infatti, la parola “tradizione” non significa semplicemente un magazzino di notizie, di dati o di abitudini comportamentali, ma significa innanzitutto un senso di essi. Perciò un’educazione – sono pronto a qual-siasi discussione su questo, desideroso di imparare se per caso esagerassi – innanzitutto è dipendente e proporzionale alla devozione, alla fedeltà e alla coscienza del passato che l’educatore ha.
[3]
Allora, questo sottolinea il secondo fattore del processo educativo. La tradizione, come proposta, si attua nella figura dell’educatore. Non credo che esistano affermazioni più prive di senso di quella, pur così répandue, che il genitore non debba dare al figlio idee, sentimenti, valori, che il figlio crescendo si dovrebbe scegliere da sé.
Niente di più insensato, perché niente di più innaturale. Un padre e una madre sono tali non solo perché danno latte prima e risotto poi al figlio che cresce; un padre e una madre danno loro stessi, un padre da se stesso al figlio, altrimenti l’ideale – mi perdonino – sarebbe avere un padre scemo e una madre idiota.
Evidentemente, se con lo svolgersi degli anni la mia vita acquista stima e devozione, commozione nella memoria e gratitudine sempre più vasta, per il mio povero papa e per la mia povera mamma, è perché, quanto più il tempo passa, tanto più m’avvedo di ciò che fu il mio povero padre, di ciò che è stata mia madre: scopro ricchezze in loro, nelle loro parole e nei loro atteggiamenti, cui non avevo certo fatto caso, né prima né dopo, per tanto tempo.
Ma, quando la mia povera mamma – lo ricordo spesso – veniva a darmi il bacio della buona notte e, rincalzandomi le coperte del letto, tutte le sere (prima che io entrassi in seminario, perciò per almeno dieci anni), cambiando sempre la frase, mi diceva: «Pensa ai bambini che non hanno il papà, pensa ai bambini che non hanno la mamma»; «Pensa ai bambini che non hanno il tetto o che hanno il tetto “buco” e si bagnano quando piove»; «Pensa ai bambini che non hanno mangiato come oggi hai mangiato tu», come ha sviluppato il senso delle relazioni questa frase breve, detta alla sera con noncuranza, senza che io evidentemente ne capissi il valore, soltanto commovendomi qualche volta!
E ho capito decine di anni dopo come debbo una certa sensibilità, lo sviluppo di una certa sensibilità, a quel comportamento!
Allora, quanto più è ricco di consapevolezza e di contenuti il soggetto educatore, la sua parola, il suo atteggiamento… Da questo punto di vista vorrei fare un’osservazione che qualche volta ha suscitato – ho visto – una certa reazione nel pubblico.
Dico che la questione principale circa l’atteggiamento dell’educatore non sta tanto nella coerenza dal punto di vista etico. Anche perché il ragazzo, evolvendosi, superato un certo momento dell’adolescenza, capisce benissimo che suo padre è un uomo come tutti gli altri e sua madre è una donna, una persona, come tutte le altre.
L’incoerenza nella vita pratica, concreta, suscita vari sentimenti, tra cui rabbia, se conviene, o quasi contentezza come avallo anche alle proprie fughe. Ma una cosa il giovane ha bisogno di vedere nel genitore, nell’educatore: la coerenza ideale. Quando i genitori insistono su certi valori e poi, nella valutazione dei casi della vita, nell’attenzione e nei suggerimenti per il futuro, non tengono mai conto dei valori su cui insistono, questo genera nel giovane uno scandalo, una ferita, che raramente può essere curata, dico incurabile!
Perché il giovane ha innanzitutto un’esigenza logica, razionale, grandissima. Se mi insisti su questo ideale e poi in tutti i tuoi giudizi questo ideale non c’entra mai, questo crea la disistima! Può darsi che io sottolinei unilateralmente riflessioni ed esperienze fatte, ma di quanto ho detto adesso sono persuaso. Il soggetto educativo deve essere quindi il più possibile consapevole nella proposta che compie e mantenere un atteggiamento verso questa proposta che è soprattutto un atteggiamento di coerenza intellettuale, di giudizio, e perciò di suggerimento e di valutazione, adeguato a ciò su cui insiste.
Ma come è pericoloso, no!, come è distruttivo che il soggetto propositore sia contraddittorio nella scelta dei collaboratori, cioè che i genitori facciano una proposta a livello di certi valori ultimi, dei significati, e l’insegnante a scuola, e la compagnia in cui si permette tranquillamente che il figlio vada, abbia insistentemente una proposta diversa!
Non sarebbe deleterio o distruttivo se tutto fosse affrontato consapevolmente e criticamente: allora sarebbe un aspetto dell’introduzione dell’educando a tutta la realtà. Ma le ragioni debbono venire a galla! Tutto ciò che è censu-rato provoca o un disagio e un fermento inconsapevole, ma molto attivo, dal fondo del cuore, oppure fa passare cose contradditto-rie, rendendo l’animo sprovveduto di fronte alla necessità morale, alla necessità etica.
Perciò, oltre che consapevole della tradizione, il soggetto educatore deve compiere la grande fatica di identificare i collaboratori secondo la linea della preoccupazione che è stata o che è fondamentale nel rapporto con i propri figli. Su questo punto credo che si debba fare qualsiasi sacrificio, perché non esiste un attentato più grande dell’incocrenza della linea propositiva a dei giovani. Io mi ricordo, al mio liceo Berchet, che una volta stavo uscendo e, nell’atrio che introduceva alla scala, una mamma stava entrando, molto agitata.
Appena mi ha visto con la «vestina», mi ha assalito dicendo: «Qui è entrato mio figlio in quarta ginnasio, veniva con me in chiesa, diceva con me le orazioni; adesso, terza liceo classico, non vuole più venire in chiesa, e la colpa è sua, come insegnante di religione». E io le ho detto: «Ma signora, in cinque anni, quante volte è venuta ad interessarsi di come suo figlio si comportava a scuola da me, quale giudizio avessi?
Come mai non si è mai preoccupata che suo figlio andasse col tale, col tale e col tale, continuamente? Come mai, soprattutto, signora, lei non si è mai interessata di quanto diceva il professore di italiano “x” e il professore di filosofia e storia “y”?», e le ho fatto i nomi.
Una coerenza di proposta è una questione grave di sanità e di intensità di rendimento d’una personalità. Paradossalmente, solo se un giovane è aiutato a provare, a “verificare” – citerò ancora tra poco questa parola – fino in fondo una coerente ipotesi di affronto della vita, sarà anche capace, per lealtà, in forza dei valori reali acquisiti, anche di abbandonare quella strada e di progettarne un’altra.
Ma affrontare l’esistenza, o permettere che s’affronti l’esistenza, senza innanzitutto essere leali con ciò da cui si nasce, cioè dalla tradizione, attentamente e “criticamente” affrontata – ma spiego anche questo tra poco -, significa fare ancora una volta della propria reattività il criterio del vivere: ho voglia, non ho voglia, mi piace, non mi piace, mi pare o non mi pare.
Perché, dico sempre ai giovani, l’uomo nasce con una delle due famose bisacce di Esopo dietro le spalle, e in questa bisaccia che sta dietro le spalle (lo spunto da Esopo è puramente esterno, di immaginazione esterna) i genitori o chi per essi (chi vuole il bene del bambino) mettono tutto quello che credono opportuno.
E questo è giusto, come abbiamo detto prima, perché è naturale. Ma ad un certo punto, la stessa natura, in nome della quale si da al proprio figlio quello che sembra più giusto, spinge il bambino, il ragazzo oramai, ad afferrare la bisaccia che sta dietro alle spalle e a buttarsela di fronte alla faccia, per guardarci dentro. «Buttare di fronte alla faccia» si indica con una parola italiana che deriva dal greco, la parola “problema” (“gettato davanti”), e «rovistare dentro» per vedere se la questione vale o no viene indicato da un’altra parola italiana, che deriva ancora dal greco, che è la parola “crisi”.
La parola “crisi” o “critica” significa cogliere le ragioni, rendersi conto delle ragioni e perciò dei limiti e dei non-limiti di una proposta. Senza abituare a questo lavoro, senza compiere la fatica di abituare a questo lavoro, l’educando cresce reattivamente, con la reattività come ultimo criterio: reattività psichica o reattività mentale. Però, questo processo, se l’adulto in qualche modo non l’ha compiuto o, con l’occasione del figlio, non impara a compierlo, come farà ad aiutare il figlio?
In questo senso, innanzitutto la libertà entra in gioco nella figura dell’educatore. Veramente, innanzitutto la libertà è entrata in gioco nell’atteggiamento che l’educatore ha assunto nei confronti del passato. Come è triste una società in cui nessuno veramente si da da fare per difendere la possibilità di comunicare l’eredità alle creature nuove che emergono! Dai giornali alla televisione e alla scuola, tutto può creare un sipario e un coibente che impedisce il contatto vivo con i valori del passato.
A mio avviso siamo in un’età in cui nessuno più ricorda. Jaca Book ha fatto una Storia della Chiesa (per bambini; ndr). Io ho notato che tutti gli adulti che hanno preso quei libri, li hanno letti imparando quello che non avevano mai sentito. Ed è un sommario fatto per bambini, con le figure per bambini! Un cristiano, figlio della Chiesa, che non sa la storia della propria casa, come fa a percepire la profondità dei valori che gli vengono proposti? È impossibile. Del resto, la nobiltà di un sangue, di un cuore o di un animo, in una famiglia, la si vede innanzitutto dalla sensibilità alla storia della propria famiglia.
[4]
Ma vorrei accennare al terzo fattore che entra in gioco nel processo educativo, ed è soprattutto per questo terzo fattore che chiamo normalmente il fatto educativo un “rischio” È l’aspetto più drammatico, veramente drammatico. Credo che, tante volte, anzi, normalmente, poche siano le sorgenti di delusione o di dolore che i genitori possono avere dai figli come quello che viene suggerito a questo punto del discorso.
L’ho già detto in altre parole: quello che viene proposto non può semplicemente essere proposto. Non è educazione proporlo e basta. Bisogna in qualche modo allenare, per quello che si può, la propria creatura a paragonare ciò che gli si è dato con la problematica cui lo sviluppo della vita lo rende aperto.
L’esperienza che il figlio crescendo compie – esperienza: cioè l’impatto della realtà con il soggetto -, l’impatto della realtà con un soggetto è come una presenza provocante. “Provocante” ha la stessa radice della parola cristiana “vocazione” (infatti, la vocazione “è” attraverso le provocazioni determinate da questo impatto). Queste provocazioni pongono domande a cui il giovane, l’educando, deve rispondere, davanti alle quali deve realizzare la sua responsabilità, cioè la sua capacità di risposta.
Ecco, l’educazione deve implicare un aiuto ad esemplificare queste risposte, che è in fondo quanto abbiamo detto prima parlando di “critica”. Occorre saper rendere ragione di ciò che si da a loro. Rendere ragione non è mai un fenomeno astratto. Rendere ragione vuoi dire mostrare come ciò che io ti do – ragazzo mio – è capace di farti affrontare l’interrogativo più o meno drammatico, più o meno appassionato, che la realtà ti pone, in modo intelligente e cordiale, da uomo, più che non quello che ti dice il tuo compagno o quello che ti ha detto il tuo professore in classe, o quello che ti ha fatto vedere la sequenza del film o quello che diceva Severino nel tale articolo sul Corriere della Sera.
L’educazione è soprattutto in questo fenomeno che si chiama – in termine tecnico e anche scientifico – “verifica”: la verifica dell’ipotesi. Ora, in questa verifica si intensifica la fatica dell’adulto, perché è provato lui, innanzitutto.
Ma soprattutto, starei per dire, è provata la fatica dell’adulto, perché non è automatico che riesca a persuadere con il suo intervento verificatore: perché sia la proposta sia l’azione di esemplificazione verificante s’arrestano sulla soglia del mistero della libertà del cuore del figlio o dell’educando.
Occorre quindi continuamente proporre, sperando contro ogni speranza in qualunque situazione, continuamente cogliendo l’occasione per mostrare la ragionevolezza di quello che s’è sostenuto e che si è dato, anche quando la reattività sembra in senso contrario, anche quando sembra che il proprio figlio, o l’educando, sia impermeabile, anche quando percorra evidentemente altre strade: continuare in questo dovere paterno e materno, generatore, con questa contrizione del cuore, con questa amarezza tremenda, superare lo sconforto.
Ecco, il “rischio” educativo è a questo punto che si gioca: perché a noi, all’adulto, è dato di amare, cioè proporre e accompagnare per una verifica, affinchè la persona a cui si è proposto possa cogliere le ragioni che abbiamo colto noi. L’amore è questo. Non può essere la pretesa di un’ob-bedienza, che deve conseguire a una persuasione, a una convinzione non ancora formata.
L’uomo, e quindi anche il proprio ragazzo o giovanotto, è rapporto libero con il destino, con l’infinito, con Dio, con la verità e con il bene. È un rapporto libero, perciò è misteriosa la strada per cui la ricerca del destino si muoverà in lui. Questo non può sospendere mai l’inesauribilità della nostra attenzione, della nostra proposta e del nostro aiuto. Ad un abulico si può far fare ciò che si vuole, ma non è educabile oltre un certo limite. Per concludere mi permetto leggere un’altra pagina di Eliot.
«È difficile per coloro che non hanno mai conosciuto persecuzione,
Questo è il “trionfalismo” del cristiano autentico! Ma io ho letto questo brano per affermare che ogni storia personale è come se incominciasse da capo. Nonostante l’eredità, il vero punto del dramma, il punto della comprensione e perciò della decisione -perché per comprendere bisogna “decidere” di comprendere -, il vero punto della decisione si pone sempre come se fosse la prima volta (quello di Adamo e di Eva), e la grande tenacia, o la grandezza d’animo, meglio, dell’educatore è questa indefatigabile, continua riproposta. Proprio come dice la più bella frase di tutta la Bibbia – secondo me, anche perché ne ho bisogno -: «In spem cantra spem», sperando contro ogni evidenza.
Io ho voluto semplicemente dire quelli che mi sembrano i fattori fondamentali di tutto il processo educativo. Innanzitutto, il valore della tradizione, il primo fattore bersagliato e censurato laddove nella società domini in qualunque modo un potere: nella società familiare, nella società civile, nella società religiosa, paradossalmente.
Può avvenire, in un determinato momento, che la società ecclesiastica, se vissuta secondo una volontà di potere, censuri il proprio passato. In secondo luogo, la figura, il soggetto attore dell’educazione: l’educatore, che è il luogo dove la tradizione resa cosciente diventa proposta, ma è una proposta che deve accompagnare nell’impatto, perciò nel paragone, e nel paragone mostrare le ragioni della proposta stessa.
Ma questo, il terzo fattore, cioè la verifica, come esito non è matematico, non è logico, si arresta, come ho detto prima, sulla soglia della libertà. Qui è la drammaticità del “rischio” educativo. Ma, qualunque sia l’immediato esito della propria passione amorosa – perché, come dice il Papa, non c’è nessuna dimostrazione di amore all’umanità come l’impegno educativo -, indefatigabile deve essere la proposta vivente, cioè l’io dell’educatore, che non ha né circostanze di spazio e di tempo, né quindi età, né situazione esteriore, né tipo di risposta che lo possano fermare.
Note:
1) T.S.Eliot, Cori da «La Rocca», Bur 1994, pp.55-57