14 Gennaio 1989
Cosa fu realmente la Rivoluzione francese? Quanto la mitologia ne ha deformato l’immagine? E il Terrore ne fu il frutto legittimo o una degenerazione? Sono questi i veri interrogativi cui bisognerà rispondere in questo anno del Bicentenario. Io storico francese François Furet, il più grande conoscitore dell’89, ha dato le sue risposte attraverso studi di straordinaria importanza. A febbraio l’editore Laterza manderà in libreria «L’eredità della Rivoluzione», un volume in cui il Furet coordina gli sforzi di un autorevole gruppo di storici. Il Sabato pubblica in anteprima parte dell’introduzione dello studioso francese
François Furet
La rivoluzione francese trae la propria eco universale dall’essersi proclamata tale: al di là delle particolari condizioni in cui è nata, e anche del Paese in cui è scoppiata, essa si è data la missione non di aggiustare le istituzioni alle circostanze della storia nazionale o al variare dell’opinione, ma di riscrivere da capo a fondo — ripensandolo e risugellandolo nuovamente sulla base dei princìpi della volontà ragionevole — il contratto sociale.
Essa costituisce quindi un evento inscindibilmente politico e filosofico, già considerato sotto entrambi gli aspetti dai suoi contemporanei dato che il 1789 era stato salutato come la vittoria della filosofia illuministica in un ordine di realtà che questa si era scelta come sua specifica: la riorganizzazione della polis.
Il carattere unico della rivoluzione francese nella storia moderna deriva da tale mescolanza di generi, grazie al quale il 1789 si apparenta a un’Annunciazione religiosa laicizzata, a una Promessa della ragione o dei diritti che si sostituisce a quella di Dio.
La prima non è forzatamente incompatibile con la seconda ma può al contrario, come nel caso americano, insediarvisi e trovarvi un più sacro e antico riparo; nel caso francese, tuttavia, s’installa a fianco del messaggio religioso, non avversa ma separata da lui, insieme completamente differente nel fondo e comparabile nella forma, limitata al dominio terrestre, ma investendolo interamente grazie all’idea di un’essenza umana da realizzare nella società: occupando l’intero spazio pubblico della comunità degli individui, l’universale democratico rinchiude la credenza religiosa nel foro privato.
Ma è proprio così che irrompe nella Francia di fine Settecento, delineando il carattere più enigmatico della rivoluzione francese, la discontinuità temporale: come nella nascita di una religione, il 1789 segna un prima e un dopo.
Un carattere così enigmatico è stato tuttavia talmente addomesticato dalla cultura politica moderna da esserci diventato familiare; i Francesi in particolare ne hanno fatto una credenza tanto diffusa da non percepirne più la stranezza. Da duecento anni il 1789 designa per questo popolo la divisione originaria tra destra e sinistra: chi al suo interno ha preferito l’Ancien Regime detestava la rivoluzione, e chi ha preferito la rivoluzione francese detestava l’Ancien Régime.
Schizofrenia politica
Ma, come aspiravano e ambivano gli uomini del 1789, tale schizofrenia politica si è espansa al di là della storia francese, costruendo dopo di loro l’universo politico rivoluzionario, pensato nei termini di un messianismo secolarizzato (come un avvento che segue una lunga oppressione). Una riflessione sulla rivoluzione francese può ancora oggi partire dalla riscoperta della bizzarra idea di una discontinuità temporale diventata sostanza necessaria della storia.
I Francesi del 1789 elaborarono subito quest’idea, nel suo aspetto negativo come in quello positivo, attraverso quanto essi abolivano e attraverso quanto essa instaurava di radicalmente nuovo. Essi distrussero l’Ancien Régime, e fondarono un ordine nuovo di individui liberi e uguali, sotto la sovranità della legge (nome differente della «volontà generale»).
La data di morte dell’Ancien Régime è più facile da definire della sua formazione, o della durata della sua esistenza; la formula appare solo quando se ne registra la liquidazione: non ve ne è traccia nei cahiers de doléances redatti all’inizio della primavera del 1789 dalle parrocchie e dai baliati per dare istruzioni ai loro delegati, e si costituisce poco a poco nel corso dell’estate, sul filo delle circostanze, degli eventi e delle decisioni prese dall’Assemblea diventata Costituente.
Nella più celebre notte della storia parlamentare francese, tra il 4 e il 5 agosto 1789, se ne possono ritrovare non le parole ma i sentimenti, e l’emozione quasi sacrale cui dà vita. Quella sera la discussione nasce sotto la pressione delle circostanze — la Francia si è ribellata e qui e là i castelli vanno a fuoco — ma passa nel trasporto d’entusiasmo che in Assemblea unisce cuori e anime molto più dell’idea di salvare il salvabile.
I deputati, macchinisti quasi divini di uno spettacolo in cui il passato scompare e nasce un mondo nuovo, sanno tutti di mettere in scena insieme un crepuscolo e un’aurora e, cedendo alle circostanze, realizzano anche qualcosa che appartiene a un ordine completamente diverso: la «distruzione del regime feudale».
Con ciò i deputati intendevano non solo i diritti derivanti dal regime di proprietà signorile e feudale, ma anche la decima (percepita in natura dalla Chiesa su tutti i raccolti), e fenomeni infinitamente più recenti, come la vendita delle cariche, pratica tramite la quale — a partire dal primo Seicento — la monarchia aveva riempito le sue casse vendendo le funzioni ereditarie nella giustizia e nell’amministrazione finanziaria o municipale.
Il 4 agosto scomparve quindi, insieme alle istituzioni residue caratteristiche della proprietà feudale, l’intera struttura corporativa del reame. Il voto dell’Assemblea dissolse la contraddizione in cui da uno o due secoli si era trovata la monarchia assoluta, insieme dispensatrice di privilegi e combattuta in loro nome.
Con i corpi vennero infatti liquidati tutti i diritti particolari che costituivano le libertà dei sudditi del re, legate al loro «stato» sociale, cioè all’esistenza di collettività giuridicamente definite dai loro privilegi. D’ora in poi esisterà un solo diritto comune, identico per ogni membro della nazione, e tutte le associazioni di privati, intermediarie tra il cittadino e la sfera pubblica della legge verranno interdette in quanto corpi-schermo.
La legge universale
Gli elementi «feudali» distrutti nel 1789 caratterizzavano quindi piuttosto il periodo assolutistico in cui lo Stato centrale si era costruito vendendo privilegi: sotto questo aspetto gli uomini della rivoluzione ne coronarono l’opera uniformatrice, sopprimendo quanto aveva dovuto concedere allo spirito particolaristico feudale.
Si preoccuparono d’altronde (per lo meno la maggioranza tra loro) di trasformare in buona moneta borghese i diritti aboliti, precauzione niente affatto contraddittoria con lo spirito di liquidazione generale che li animava — come hanno a torto creduto tanti storici del nostro secolo che, ossessionati dall’idea socialista, hanno visto nel 4 agosto null’altro che l’ineguaglianza borghese subentrante a quella nobiliare.
Essi non riescono a concepire come la fine della società aristocratica abbia comportato qualcosa di molto più essenziale: la scomparsa della dipendenza gerarchica tra gli uomini, la nascita dell’individuo moderno e l’idea dell’universalità della legge. In rapporto a questa cesura storica, il mondo socialista si situa nello stesso campo del mondo borghese, in quanto semplice sviluppo delle promesse ugualitarie.
L’entusiasmo patriottico dei deputati il 4 agosto non era allora incompatibile con il carattere circostanziale dell’ordine del giorno e dei decreti votati: la rivoluzione contadina aveva cristallizzato un insieme di decisioni che attingevano alle fonti culturali del tempo, ecco tutto (anche se forse un poco prima di quanto fosse previsto, anche se forse un po’ più globalmente).
Ciononostante, la formula «Ancien Régime» non comparve nei dibattiti tra il 4 e l’11 agosto, e venne forgiata solo qualche tempo dopo, nelle settimane seguenti, nel corso della discussione sulla Costituzione.
Essa comportava infatti un secondo versante, ancora invisibile nella liquidazione della società «feudale»: il «governo monarchico», per il quale i contemporanei intendevano un insieme di princìpi e di meccanismi politici che rendevano il re un elemento chiave dell’autorità pubblica, sia una versione assolutistica corretta dal «dispotismo illuminato», sia in una forma più «costituzionale» nel vecchio senso del termine (a partire da un contratto immemorabile stipulato tra monarchia e nazione, garantito dalle leggi fondamentali e dalla consultazione degli «Stati» sulla creazione delle leggi).
Il 17 giugno il Terzo Stato si era proclamato «Assemblea nazionale», formula di cui non vennero sul momento indagate tutte le conseguenze; ma uno di quelli che l’aveva introdotta, Sieyès, nella sua famosa brochure Qu’est-ce que le Tiers-Etat? ne aveva spiegato con sei mesi d’anticipo tutte le implicazioni.
Si trattava, né più né meno, di un trasferimento di sovranità o, più esattamente, della nazione che si riprendeva i propri diritti imprescrittibili, delegandoli a un’Assemblea Costituente. A questo punto, tra metà giugno e inizio settembre, la spartizione della pubblica autorità tra Luigi XVI e i deputati divenne ambigua.
Nella notte del 4 agosto uno dei grandi avvocati della destra monarchienne, il nobile liberale Lally-Tollendal, riuscì ad associare il re al voto dell’Assemblea; alla fine, alle due del mattino, Luigi XVI fu proclamato «restauratore della libertà francese».
L’equivoco, tuttavia, durò poco e a partire dalla fine di agosto, al momento della discussione sulla nuova Costituzione, venne tranciato a favore dei deputati e contro il re […].
Fallimento monarchico
L’ idea di unire la storia nazionale alla rivoluzione tramite il «governo monarchico» urtò quindi contro una duplice impossibilità: i monarchiens si appellavano a una tradizione inesistente (o che non esisteva più se mai aveva iniziato a vivere) nel passato francese, e il tentativo di «restaurarla» dopo duecent’anni di assolutismo era tanto più irreale dopo la condanna radicale del principio «feudale», che aveva coinvolto — ma anche preceduto — la monarchia assoluta.
La ricerca di un Ancien Régime dove fondare le nuove istituzioni era quindi senza speranza; i monarchiens avrebbero voluto affondare in questo retaggio le radici di una co-sovranità del re (cioè del suo diritto di veto sul potere legislativo) e del bicameralismo, ma non fecero altro che sottolineare invece il fallimento di una storia monarchica della libertà cui pure si richiamavano come loro titolo principale.
Radicali moderati
In questi termini la componente radicale del campo rivoluzionario, appropriandosi della sovranità frutto dell’assolutismo mentre i monarchiens cercavano di reinventarla in una forma mai esistita, si rivelò senza saperlo più tradizionalista della componente moderata.
I radicali affidarono all’Assemblea Costituente il potere sovrano di ricostruire il corpo politico; il re era ormai solo il suo delegato, e presto sarà soltanto il primo funzionario del regno. La formula «Ancien Régime» prese allora tutto il suo significato negativo, mentre i monarchiens avevano inteso farne un principio di continuità della rivoluzione con l’essenza del governo monarchico; d’ora in avanti l’espressione accomunerà in una sola condanna «feudalità» e monarchia, passato sociale e passato politico della Francia.
Ma alla perentoria affermazione della discontinuità cronologica che dava un nuovo senso al termine «rivoluzione» i «patrioti» del 1789 appaiarono, inscindibilmente, la ripresa di una concezione della sovranità politica già definita dall’assolutismo: il popolo prese il posto del re, e la democrazia pura sostituì la monarchia assoluta.
Come l’antico potere sovrano escludeva tutto ciò che non fosse Il monarca, così il nuovo potere non concesse nulla a chi non era il popolo, o un suo presunto rappresentante […]
La monarchia assoluta venne spodestata come potere usurpato (una destituzione inedita che spezzò la catena temporale) ma il suo successore — il popolo — per quanto radicalmente differente da lei, poteva tuttavia contare su una sovranità altrettanto estesa.
Da questo punto di vista l’idea di Ancien Régime, e di un’interminabile usurpazione cui metteva fine l’avvento del sovrano legittimo, nascondeva uno dei più profondi legami degli uomini del 1789 con il passato nazionale; ciò che permetteva loro di affermare la discontinuità temporale li ricollegava anche a una concezione della sovranità pubblica derivante da quel governo monarchico da essi spodestato.
L’idea di discontinuità trovò però tanta risonanza negli animi perché sottintendeva quella di una ricomposizione del corpo politico su principi e non su un retaggio dei tempi. La manifestazione più spettacolare di questa reistituzione del contratto sociale fu la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, votata il 26 agosto 1789: si trattava in effetti di costituire la base del nuovo vivere insieme, enunciando i diritti che ciascun individuo reca con sé entrando a far parte della società, e che la società deve in cambio proteggere e garantire.
Si trattava in breve di ripetere a grandezza naturale la scena primordiale delle filosofie contrattualistiche, con la quale l’uomo della natura diventa un cittadino, e come essere sociale deve conservare quanto imprescrittibilmente gli appartiene come essere naturale.
Gli Americani avevano effettuato questo famoso passaggio, oggetto di tante e tali speculazioni, qualche anno prima dei francesi, connotandolo già con le «Dichiarazioni dei diritti»; ma nel loro caso si trattava proprio del momento cruciale, filosofico per eccellenza, della fondazione del contratto?
I testi americani non ruppero brutalmente con uno stato sociale precedente, non affermarono diritti misconosciuti dalle piccole comunità di emigranti che avevano progressivamente popolato la futura repubblica, ma «dichiararono» invece diritti percepiti come fondamentali dai coloni fin dal loro arrivo su una terra vergine, in una società che si veniva formando sulla base di adesioni volontarie.
L’America era un mondo nuovo, ancora vicino alla natura e poco intaccato dall’ineguaglianza, e le sue «Dichiarazioni» non comportavano alcuna dinamica sovversiva […].
La forza della debolezza
Marcel Gauchet ha di recente ricostruito l’elaborazione della Dichiarazione votata il 26 agosto, e sottolineato le «imposizioni d’universalità», come le chiama, proprie del testo finale. I deputati francesi non avevano un atteggiamento mentale particolarmente astratto — molti tra loro vedevano e calcolavano i rischi di una proclamazione generale dei diritti individuali in una società tanto numerosa, ineguale e formatasi secolarmente in uno spirito così diverso — ma d’altra parte dovevano compensare l’incerta origine della loro sovranità proclamando con forza maggiore la loro missione, ed erano presi nella logica delle decisioni votate il 4 agosto […].
L’ottimistica convinzione del volontarismo politico francese era contenuta nella formula secondo cui «La legge è l’espressione della volontà generale»; la libertà degli individui naturali veniva raddoppiata da un potere nato dal loro consenso e dalla loro partecipazione collettiva.
Non esisteva alcuno spazio di riserva per un eventuale scarto tra la legge e il suo fondamento, e non era di conseguenza previsto alcun rimedio per scongiurarne l’apparizione, se non il diritto di resistenza all’oppressore che rimettesse in causa l’intero contratto, senza che ne venissero definite le legittime condizioni d’esercizio
La società nuova
Nei pochi mesi dell’estate 1789 presero così forma con straordinaria rapidità i principi e le modalità di una società nuova, reinventata a partire dall’autonomia degli individui e sulle rovine della loro soggezione ancestrale.
In questi termini una logica comune operò nei testi del 4 agosto, nella Dichiarazione dei diritti e nella discussione d’inizio settembre sui poteri pubblici, conferendo all’Ancien Régime e alla rivoluzione i loro caratteri essenziali.
Se la rivoluzione francese si considerò fin dall’inizio dell’estate 1789, un’assoluta rottura con il passato, i suoi avversari ebbero la medesima sensazione (anzi, in un certo senso, ancora maggiore). Il periodo che ho appena analizzato dalla parte dei rivoluzionari si aprì e si chiuse infatti con due ondate emigratorie: il segnale di partenza venne dato all’indomani del 14 luglio e della capitolazione del re davanti a Parigi dai grandi privilegiati — il conte d’Artois in testa — o dai più paurosi; dopo il 6 ottobre se ne andarono i primi sostenitori della rivoluzione (Mounier lasciò Parigi e l’Assemblea, per ritornarsene nel suo Delfinato e poi abbandonare la Francia l’anno seguente).
Queste deliberate partenze da un reame in cui chi partiva non riconosceva più né le proprie abitudini né i propri compatrioti segnarono così nella storia nazionale la completa frattura con l’Ancien Régime, che venne però ancora più fortemente sottolineata l’anno seguente, quando Burke scrisse e pubblicò le sue Reflections on the Revolution in France; Il parlamentare inglese non ebbe bisogno di un periodo più lungo dell’estate 1789 per rifiutare senza scampo l’impresa rivoluzionaria: per emettere la sua condanna gli bastò lo spettacolo offerto dal teatro rivoluzionario francese tra maggio e ottobre.
Giudicando sulla base di questo breve periodo, Burke divenne il primo teorico della rivoluzione francese vista come un «blocco». Burke non conosceva logicamente ancora il seguito, soprattutto la dittatura e il Terrore che daranno a posteriori al suo libro un valore predittivo e un’immensa popolarità europea; si limitava a parlare degli avvenimenti del 1789 e dei principi messi in gioco per dirigerli e giustificarli.
Prendendo sul serio — come essa faceva — le nuove idee sorte al suo interno e che egli reputava essenziali, Burke rinchiuse in questi pochi mesi l’intera rivoluzione, e la sua critica trasse profondità dalla complicità conflittuale con gli uomini del 1789.
Ciononostante, le idee del 1789 non erano per lui le idee del secolo; il tratto peculiare della refutazione burkeiana di quell’anno non era solo la sua precocità, ma il suo stupore di fronte a un evento di cui l’osservatore inglese intuiva perfettamente il carattere filosofico ma di cui non scorgeva — a differenza della maggioranza dei contemporanei — il legame di filiazione naturale con il movimento illuministico.
La rivoluzione francese venne così riconosciuta dal suo maggiore critico come quello che aveva inteso essere: una frattura nella catena temporale; questa pretesa — che costituiva il suo orgoglio — alla discontinuità storica, ispirò la stupefatta indignazione del suo avversario.
Il silenzio del passato
Dire che Burke la condannasse è dire poco: non riusciva neanche a concepirla. Un popolo senza un passato era ai suoi occhi un’idea assurda e insieme un’impresa disperata, era una collettività umana privata dei suoi elementi costitutivi, di quei secoli di accumulazione grazie ai quali le generazioni successive elaborano le loro buone creanze, le loro usanze e abitudini, il loro modo di vivere insieme e la loro Costituzione politica.
Da buon parlamentare whig, Burke non metteva in dubbio gli errori della monarchia assoluta dei Borboni, ma non la credeva tanto malvagia e «dispotica» — come si diceva allora — d’aver impedito l’evoluzione della civiltà, come testimoniavano al contrario la prosperità e le buone maniere dei Francesi di fine Settecento.
D’altra parte, i testi politici degli anni pre-rivoluzionari si riferivano sovente a un’antica «Costituzione» del regno, in funzione della quale erano stati convocati gli Stati Generali del 1789.
Il primato dell’astrazione
Restava allora da chiedersi perché i Francesi avessero subito dopo voluto rinnegare nel modo più assoluto questo retaggio, il loro retaggio; Burke, più che spiegarlo, si limitò a constatarlo indignato, indicando come momento e modalità di questa rottura le grandi votazioni dell’agosto 1789, in particolare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo.
La Dichiarazione proclamava il nuovo principio organizzatore del sociale offerto dalla rivoluzione al mondo, gli imprescrittibili diritti di ognuno, sole fondamenta possibili di una società fatta di individui liberi e uguali.
Burke, che aveva capito come questa idea contenesse l’astrazione costitutiva della democrazia moderna — l’universalismo della cittadinanza —, le opponeva la società reale, i pregiudizi, le passioni e gli interessi, definendo quanto diventerà dopo di lui e grazie a lui uno dei temi principali del pensiero conservatore e anche, più in generale, della critica alla democrazia (da destra come da sinistra): la differenza tra gli individui concreti contrapposta alla pretesa di fondare la società sulla loro identità astratta.
Allo stesso modo, i diritti naturali degli individui non permettono di pensare e meno ancora di costituire il potere: cosa può unire una società se essa si definisce da sola a partire da ciò che appartiene soltanto a ogni individuo?
Burke ereditò la questione centrale del Settecento, rivista alla luce del 1789, e fu così il primo osservatore degli avvenimenti francesi a capire quanto il problema della rappresentanza politica si situasse nel cuore della rivoluzione francese, nell’esatta misura in cui in questa si manifestava l’individualismo radicale di diritti naturali.
La rivoluzione — come nel 1789 era evidente un po’ per tutti, ma soprattutto in Sieyès — passò infatti direttamente dall’individuale all’universale, negando tutti i poteri intra-sociali in quanto schermi (od ostacoli) alla volontà generale, e rifiutando la rappresentanza degli interessi nella formazione della sovranità.
Politico e sociale divisi
Il 1789 — lo diranno sia Burke che Marx — separò il politico dal sociale e lo Stato dalla società civile ma, per il parlamentare whig, se si prendeva come punto di partenza l’immagine di individui insieme peculiari e eguali, il corpo politico poteva trovare spazio solo nell’esaltazione astratta, illusoria e insieme pericolosa, dello Stato-comunità (illusoria perché la società politica non ha nulla a che fare con la società reale, e pericolosa perché l’emancipazione degli individui da soggezioni sociali che li superano e li precedono comporta un’autorità non minore ma spostata e più ampia, sotto forma di uno Stato incarnazione della sovranità popolare).
Da questa previsione di un despotismo democratico — che si sarebbe realizzato uno o due anni più tardi nel Terrore — derivò l’enorme influenza dell’analisi burkeiana nell’Europa intera.
Fallì prima del Terrore
Un’opinione ostile al 1789, e che respingeva la rivoluzione come insieme di principi falsi e nocivi, si formò quindi prestissimo (già dal 1790), condannando in anticipo come irrimediabilmente nefasti gli avvenimenti nati da questa disastrosa rottura nella continuità della storia francese, ai quali essa assegnava allora un carattere secondario e derivato dall’errore iniziale.
Nel pensiero posteriore di Burke, e per i primi critici tedeschi della Dichiarazione dei diritti francese (quali Mòser o Jacobi, cfr. A. Renaut, Rationalisme et historicisme juridiques. La première réception de la Déclaration de 1789 en Allemagne, in «Droits», ottobre 1988), il Terrore non costituì un problema particolare; come gli uomini del 1789, ma in senso inverso, gli avversari più profondi della rivoluzione condannarono l’intera impresa da un punto di vista più generale e più astratto: se era assurdo il tentativo di farne tabula rasa e ricostruire l’ordine sociale sulla ragione, ciò che seguì poteva esserne dedotto quale catena consequenziale.
Più tardi Bonald ne parlerà in questi termini, riprovando madame de Staël: «Non so, lo confesso, cosa siano quelli che vengono chiamati gli eccessi rivoluzionari. Tutti i crimini da essa prodotti, per quanto orribili, ne sono stati solo le conseguenze naturali e previste dagli animi retti» (L. de Bonald, Observations sur l’ouvrage ayant pour titre: Considérations sur les principaux événements de la Révolution française, par madame la baronne de Staël).
Il pensiero controrivoluzionario non trovò alcuna difficoltà a porsi prestissimo e una volta per tutte contro l’astrazione rivoluzionaria: gli bastò prendere sulla parola le ambizioni dichiarate degli uomini del 1789.
Quest’anno famoso, esibendo su una scena universale la filosofia della democrazia moderna, alimentò di contraccolpo una critica sistematica di tale filosofia e schierò gli uni contro gli altri, in un conflitto che pervase l’intera cultura europea, «antichi» e «moderni».
Alla ricerca del passato
Il campo dei sostenitori del 1789, soffrì tuttavia quasi subito di un handicap rispetto al campo avversario, in quanto gli toccò rendere conto non solo dei principi ma anche dell’evoluzione della rivoluzione francese.
Il 1789 definì in effetti Ancien Régime e rivoluzione, ma non chiuse i conti né con l’uno né con l’altra; prova ne è che la rivoluzione non smise mai di spostare a valle la linea immaginaria che la separava dal passato maledetto. Iniziò con il conservare nella ricostruzione del vecchio reame e nella nuova Francia, Luigi XVI, l’antico monarca; non credendo — secondo la filosofia del tempo — possibile una repubblica in un grande paese, anche dopo Varennes (1791), fingendo di credere a un suo «rapimento», lo rinstallò in qualche modo al suo posto.
All’epoca la forma repubblicana dello Stato veniva immaginata solo sul modello antico, possibile unicamente in piccoli territori che permettessero di esercitare la democrazia diretta. E tuttavia, il 10 agosto 1792 l’insurrezione popolare liquidò anche la monarchia, e la rivoluzione divenne infine repubblica; per meglio connotare la rottura, la Convenzione accompagnò la sua decisione con un’altra determinazione capitale dal punto di vista simbolico: l’avvento della repubblica segnerà anche il primo giorno dell’anno della libertà.
Il 1789 venne respinto nell’Ancien Régime, e a un deputato che proponeva l’anno IV, invece che il primo, per situare l’evento in continuità con il 1789, uno dei suoi colleghi (e non un estremista) rispose il 22 settembre: «E’ ridicolo datare all’anno IV della libertà, perché sotto la Costituzione [il regime stabilito tra il 1789 e 1791] il popolo non era veramente libero […]. No, signori, siamo liberi solo da quando non abbiamo più un re («Le Moniteur», tomo XIV, seduta del 22 settembre 1792).
Arriva Napoleone
La rivoluzione trovò così nuovo slancio, in un nuovo anno zero, rinnovato punto di partenza per la rigenerazione nazionale. Questo periodo, in cui essa si tramutò nel suo proprio fine, avendo rinunciato a radicarsi nella legge, e si allargò, definita da una tautologia come «governo rivoluzionario», si chiuse il 9 termidoro 1794.
Robespierre e la sua dittatura vennero respinti nel passato come forme dell’usurpazione monarchica nella rivoluzione, e di nuovo suonò l’ora delle istituzioni rappresentative, destinate a dare ai princìpi del 1789 la loro veste definitiva: questa sarà la Costituzione dell’anno III (1795), meno definitiva che mai, dato che il personale rivoluzionario non riuscirà mai a pagarne il prezzo elettorale.
A ogni rinnovo delle Assemblee — lasciando perdere la loro stessa formazione nel 1795 — la legge costituzionale verrà violata. Fondando una «monarchia della rivoluzione» nel 1799 Bonaparte metterà fine all’instabilità, mescolando la Francia del 1789 e l’antico principio di governo.
Individualismo poliedrico
Il corso di questi dieci anni esemplifica quindi un aspetto della rivoluzione nascosto invece dalla polemica tra chi la celebra e chi la detesta in quanto «blocco», e cioè il suo manifestare in così poco tempo una pluralità di forme politiche.
Dopo aver distrutto una volta per tutte il 4 agosto le strutture della società aristocratica e fondato durevolmente l’individualismo moderno (coronato dalla Dichiarazione dei diritti), essa fece sfilare un corteo di regimi fragili e instabili, esibendo in successione: un regime misto repubblicano e monarchico senza il consenso del re; una dittatura terrorista che aveva rinunciato a fondare sulla legge il suo potere; una repubblica di colpi di Stato incapace di rispettare la Costituzione che essa stessa si era data; infine il governo di uno solo, garante dell’uguaglianza civile ma più dispotico di tutti i re di Ancien Régime.
Sotto questa luce la rivoluzione appare non più solo come un insieme di principi destinati a rifondare sulla ragione il corpo sociale e politico, ma come un processo e un’evoluzione di vari eventi inseparabili da questi nuovi principi (in quanto ne formarono la sequenza cronologica) e tuttavia molto diversi (in quanto lasciarono succedersi governi e anche regimi contraddittori).
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FURET
Cambiò il volto della storia
NESSUNO conosce come lui la storia della Rivoluzione francese. E nessuno s’aspettava che sulle sue tesi potesse raccogliere tanto consenso. François Furet, 62 anni, direttore del Centre recherches historiques all’Ecole pratique des Hautes études di Parigi, nel 1965, insieme a Denis Richet, aveva pubblicato una storia della Rivoluzione francese destinata a segnare una svolta nell’interpretazione dell’89.
Di fronte ad una tradizione storiografica tutta o quasi apologetica, Furet invece tenta una revisione critica. Non spiega più gli errori della Rivoluzione come degenerazioni di fanatici, ma spiega che negli stessi princìpi che hanno mosso il corso degli eventi rivoluzionari erano comprese tutte le astrazioni e il dispotismo del periodo del Terrore.
In secondo luogo c’è una continuità nella storia francese che la Rivoluzione solo scalfisce. Le tesi contenute nella sua Storia (attualmente esaurita) Furet le avrebbe svolte in maniera ancor più esplicita in un libro scritto tredici anni più tardi: Critica della Rivoluzione francese (in Italia edito da Laterza, £ 18.000).
In occasione del Bicentenario, Furet ha pubblicato numerosi altri libri. In particolare Il Dizionario critico della Rivoluzione, scritto a quattro mani con Mona Ozouf (e pubblicato in Italia da Bompiani, £ 50.000) e soprattutto L’eredità della Rivoluzione francese, che sarà in libreria per Laterza a febbraio, da cui è stata tratta l’anticipazione pubblicata dal Sabato in queste pagine.
Si tratta di un libro molto importante corredato da una nutrita parte iconografica, che sotto la direzione di Furet raccoglie anche i contributi di Strada, di Geremek, di Ferry e altri storici.