Avv. Arduino Aldo Ciappi – U.G.C.I. – Unione di Pisa
Come funzionano, spesso, le cose nella carta stampata o in tv si poteva immaginare, ma che si giungesse a creare dal nulla una notizia ripresa in prima pagina o in apertura da quasi tutti i media, a noi, inguaribili ingenui, sembrava troppo. Invece, sentite qui: «Cassazione sui PACS: sì ai risarcimenti per i “vedovi” gay» (uno tra i tanti titoli)
“In questo contesto, che si situa in perfetta linea con l’ indirizzo ormai consolidato in materia, l’unico riferimento a situazioni di convivenza, del tutto irrilevante rispetto all’oggetto del giudizio, e che dunque resta un mero obiter dictum (ossia puro esercizio lessicale), è stato estrapolato dal contesto, in modo certamente non causale, da abili cacciatori di notizie da qualcuno opportunamente messi sulle traccie, per sparare il titolone a nove colonne sull’apertura al riconoscimento giuridico dei PACS (patti civili di solidarietà) da parte della Suprema Corte di Cassazione.
Abile sebbene consumata operazione di disinformazione che, ad olfatti esercitati come il nostro, puzza di imbroglio lontano un km. Ed infatti…
Allora è bene che la “polpetta” venga rispedita al mittente: In primo luogo, per chi non lo sapesse (e non saranno pochi, purtroppo) la Cassazione svolge, una funzione di mera intepretazione delle leggi in vigore nel nostro ordinamento e non ha di certo una funzione “creativa del diritto”, nè avviene che “sentenza schiaccia sentenza”. In secondo luogo, la Cassazione non è il Padreterno ma è un organo giurisdizionale formato da più giudici con idee, gusti e quant’altro non sempre condivisibili, tanto che non di rado i suoi componenti vengono sottoposti a giudizio e puniti da altri giudici (qualcuno si ricorda il caso Carnevale?).
Per di più, esistono più sezioni della stessa Corte le quali si trovano spesso a decidere su identiche questioni di diritto in maniera opposta, tant’è che in questi casi è poi chiamata ad intervenire la stessa Corte a Sezioni Unite. In attesa, pertanto, che il legislatore, al quale solo spetta la funzione di emanare le leggi, metta, se lo ritenga il caso, mano alla materia (e questa è certamente materia incandescente su cui la debole maggioranza potrebbe scivolare), per adesso preme segnalare a quei giornalisti, che hanno dato in pasto la notizia (rectius: bufala) in maniera a dir poco fuorviante, che permangono, con tutta la loro valenza interpretativa, sentenze della stessa Cassazione di segno del tutto opposto (ossia nel senso dell’irrilevanza della convivenza ai fini del diritto al risarcimento del danno morale o riflesso; cfr., tra altre, Cass. pen. Sez. IV, 05-07-1994 e Cass. pen. Sez. I, 07-07-1992).
Inoltre, quando anche il convivente “more uxorio” potesse chiedere il risarcimento dei danni derivatigli, quale vittima secondaria, dalla lesione materiale, cagionata alla persona con cui convive dalla condotta illecita del terzo (come si espressamente affermato in altra decisione, e precisamente in Cass. civ. Sez. III, 29-04-2005, n. 8976; ma allora dov’è, ribadisco, la notizia!?) si deve considerare: – che “dalla libera determinazione dei conviventi di fatto di non contrarre il vincolo del matrimonio, e quindi di non assumere gli obblighi che l’ordinamento impone vicendevolmente ai coniugi (coabitazione, fedeltà, solidarietà, assistenza materiale e morale), consegue l’inesistenza di qualsiasi diritto, sia di natura personale che patrimoniale, di un convivente verso l’altro, ed infatti è pacifico che qualsiasi prestazione patrimoniale fra loro, se non costituisce adempimento di una regolamentazione negoziale, non può esser pretesa”; – che “(…) in relazione alla disciplina della responsabilità civile dalla circolazione dei veicoli non è superfluo rilevare che il legislatore, nell’estendere l’assicurazione obbligatoria per la RCA al convivente, aveva previsto la risarcibilità del danno patrimoniale e morale soltanto per il convivente superstite della vittima deceduta – così regolamentando un’ipotesi che da tempo aveva trovato riconoscimento giuridico nella giurisprudenza – ed aveva a tal fine disciplinato i requisiti della convivenza (art. 20 legge 12 gennaio 1992, tra cui la durata di essa per un periodo non inferiore a cinque anni) – in tal modo consentendo all’interprete di superare ogni questione scaturente dalla necessità di raccordare i principi in tema di responsabilità civile, tra cui quello secondo il quale il fatto dannoso, a norma dell’art. 2043 cod. civ., deve essere contra ius e cioè deve ledere un diritto; – e, infine, che (… ) per poter esser ravvisato il vulnus ingiusto a tale stato di fatto, deve esser dimostrata l’esistenza e la durata di una comunanza di vita e di affetti, con vicendevole assistenza materiale e morale, non essendo sufficiente a tal fine la prova di una relazione amorosa, per quanto possa esser caratterizzata da serietà di impegno e regolarità di frequentazione nel tempo, perchè soltanto la prova della assimilabilità della convivenza di fatto a quella stabilita dal legislatore per i coniugi può legittimare la richiesta di analoga tutela giuridica di fronte ai terzi” (tratto dalla motivazione della stessa sent. n. 8976/2005 citata, pubblicata in Giur. It., 2006, 2, 246 nota di MANDIROLA).
Questo solo premeva precisare, magari in nota a ciascuno dei tanti titoloni sparati in prima pagina.