La Nuova Bussola quotidiana
21 Luglio 2018
Pagò 5.500 euro un’agenzia russa per ottenere lo status di rifugiata. Elis Gonn racconta alla NuovaBQ: «Inventarono falsità sulla mia vita, mi presentarono come lesbica perseguitata. La commissione italiana ascoltava le storie degli immigrati e dava permessi senza verifiche. Nei centri di accoglienza ricevevamo una miseria al mese in abbonamenti. La gente parla di carità e atti umanitatri ma se nessuno denuncia è solo per paura dei trafficanti»
di Benedetta Frigerio
Piange Elis Gonn mentre ci mostra il suo permesso di soggiorno ottenuto grazie ad un sistema che si beve le menzogne come se ne avesse bisogno per sopravvivere. E piange perché se anche ora è in Italia, dove voleva vivere, è passata «nell’inferno dello sfruttamento dei trafficanti e nella “mafia” dei centri di accoglienza». Soprattutto, però, piange perché in Italia ha riscoperto la fede in Dio ed è «amaramente pentita delle bugie dette, del sistema che sta distruggendo l’Italia che ho contribuito ad alimentare e della mia vita passata. Voglio quindi parlare anche se dovessero farmela pagare cara».
Tutto comincia un anno e mezzo fa, quando Gonn, giovane cittadina russa decide di voler crescere la figlia in Italia. «Prima – spiega la donna – ho cercato attraverso siti italiani un lavoro, poi ho contattato agenzie interinali del vostro paese, ma mi hanno detto che senza laurea era quasi impossibile trovare lavoro». Ma Gonn è determinata, «ho cercato su Google un’agenzia interinale in Russia che mi aiutasse a trovare lavoro in Italia. Una di queste mi rispose che sarebbe stato difficile, ma che per 1.500 euro potevano farmi un visto di lavoro polacco per poi trovare un lavoro in nero in Italia. Dissi di sì e compilai un questionario dove bisognava indicare, ad esempio, l’altezza e il peso».
Da qui l’agenzia scopre che la donna ha una figlia e ferma il procedimento burocratico. «Chiesi se non c’era un’altra opzione e mi parlarono dello status di rifugiato che costava 5.500 euro». Per convincerla a sborsare la cifra l’agenzia le promette un miraggio: «Ti garantiamo che la richiesta sarà accettata, lo Stato ti darà tutto, vitto, alloggio, soldi e tra 5 anni avrai la cittadinanza. Avevo qualche dubbio; ero cattolica, anche se non praticante, e non mi sembrava molto morale. Ma l’uomo dell’agenzia mi tranquillizzò sostenendo che anche Abramo aveva mentito, dicendo che sua moglie era sua sorella, quando era in un paese straniero. Sapeva parlare bene. Alla fine ho detto di sì».
La donna diede un anticipo di 500 euro e la restante parte «quando mi “allenarono” ad affrontare la commissione italiana per i richiedenti asilo, dandomi dei contatti di un avvocato Italiano che poi si rivelò un fantasma. Le bugie furono tante, come quella che non sarei stata messa insieme agli africani». Per affrontare la commissione preposta al rilascio dello status di rifugiato l’agenzia interrogò Gonn cercando dei punti su cui far leva.
«L’uomo dell’agenzia mi chiese di che religione ero: cattolica, “non va bene”, rispose. Di che nazionalità: russa, “non va bene”. Orientamento? Lesbica. Ah perfetto!». La donna subì violenze da bambina «ma non ho avuto fastidi da nessuno a causa delle mie relazioni con le donne, c’era chi mi trattava male per altre ragioni: ad esempio, una vicina mi odiava semplicemente perché secondo lei facevo troppo rumore».
Ma cosa fece l’agenzia? «Prese tutti questi episodi e li modificò per fare di me una perseguitata in quanto lesbica. Alcuni episodi li inventò lui dal nulla. Ad esempio, scrisse che ero stata picchiata in un parco perché baciavo una ragazza e mi disse di guardare su Google sia quel parco sia il posto di polizia dove secondo la storia ero stata portata, così da poter descrivere la scena e rispondere a tutte le domande. Pagando altri soldi ottenni un certificato del pronto soccorso (avevano un “collaboratore” lì).
Mi chiese poi di fare una foto con una prostituta: non servì e la cancellai dopo la mia conversione. Mi disse poi di scrivere sulla mia porta insulti come “lesbica disgustosa” e di fotografare: ma mia nonna si ribellò. L’uomo mi fece memorizzare la storia che avrei dovuto ripetere davanti alla Commissione italiana che poi mi ascoltò per circa due ore (gli africani vengono ascoltati circa 15 minuti)». Le storie «generalmente vengono accettate senza verifiche».
Il 24 aprile 2017 Gonn atterra all’aeroporto di Roma, dove fa la domanda per ottenere lo status e da lì viene portata presso la Croce Rossa di via Ramazzini a Roma, dove rimarrà fino a settembre. «Era vivere come in un campo rom, quando qualcuno veniva a controllare si faceva pulizia e si fingeva che fosse un posto decente. Non so quanti soldi prenda la Croce Rossa per ogni ospite, ma agli ospiti dà solo 70 euro al mese in ricariche telefoniche Lyca, che gli africani spacciano alla stazione per aver dei soldi in tasca».
A lavorare come volontarie «venivano delle ragazze ideologicamente molto motivate (legate ai centri sociali) e per questo volenterose ma sottopagate». I centri, in maggioranza occupati da africane «sono delle zone a sé con le loro leggi tribali: la spazzatura, gli africani la buttano per terra, o dalla finestra, così che alla fine la Croce Rossa rimosse i cestini perché tanto non servivano».
La maggioranza degli ospiti, spiega Gonn «sono stati forzatamente sradicati dalla loro terra: gli manca la terra natia, la famiglia, tutto. Ma non vogliono neanche tornare, perché hanno bruciato i ponti. Gran parte di loro sperano di scappare in Germania o in Austria e alcuni ci provano, ma vengono catturati e riportati indietro, perché non hanno il diritto di lasciare il paese di primo approdo».
Nelle tendopoli dove stanno gli immigrati «si moriva di caldo o di freddo, a seconda della stagione. A cucinare era una comunità di tossicodipendenti. Molti si indignano perché i migranti si lamentano del cibo, ma assicuro che se lo assaggiassero cambierebbero idea: di commestibile c’era ogni giorno solo la pasta, con qualcosa che assomigliava al sugo. L’aspetto scandaloso non è che il cibo che danno gratis ai migranti è immangiabile, ci mancherebbe, ma che i centri di accoglienza ricevano una somma considerevole dal governo per fornire questo cibo. Dove vanno questi soldi mi chiedo?»
La donna ricorda anche lo scoppio di un incendio di cui la stampa non si curò, sebbene «nessun sistema di allarme fosse attivo…non ci fu alcun intervento per riparare i danni, la tendenza è a non spendere, basti pensare che nel nostro centro c’era una lavatrice probabilmente regalata da qualcuno, ma non funzionava per la semplice ragione che la Croce Rossa non ha ritenuto necessario comprare la prolunga».
Certo Gonn ricorda di aver sempre ricevuto sapone e oggetti per l’igiene, «ma praticamente tutto quello che avevamo veniva dalle donazioni private. Nessuno smartphone veniva comprato ai migranti (è una delle tante bufale che girano), anche se quasi tutti ne compravano uno per conto proprio con soldi di dubbia provenienza». Gonn non vuole accusare qualcuno di furto, non avendone le prove, ma porre delle domande.
«Non posso dire con esattezza quanti soldi al mese riceve la Croce Rossa per ogni ospite, se i famosi 35 euro al giorno di cui parlano tutti. Posso però dire con esattezza quanti ne ricevevano i migranti: 70 euro al mese a testa, che non venivano mai dati in contanti, ma in ricariche e abbonamenti». La donna, dopo ripetute richieste di lasciare il programma immigrati per mantenersi da sola e per cercarsi una casa in affitto, viene spostata in una cooperativa vicina a Capena dove viene messa a vivere con una nigeriana: «Alcuni centri di accoglienza vogliono far credere che non si ha il diritto di lasciare il centro, anche se non è vero».
La cooperativa prima le mentì dicendo che «dovevo per legge vivere in una struttura, altrimenti mi avrebbero rifiutato il permesso (nessuna legge dice questo). Poi ho cercato di scappare con un taxi, ma loro sono venuti a cercarmi con la macchina e mi hanno portata indietro. Sono riuscita a fuggire con la bimba al terzo tentativo. La cooperativa si è arrabbiata molto e ha cercato di mettermi nei guai, dicendo alla prefettura che ero una pazza pericolosa, ma non ci fu nessun seguito, perché una lesbica è intoccabile. Alla fine ho ricevuto lo status di rifugiata vivendo già con la bambina in una casa in affitto». Avevo già da molti mesi ricominciato ad andare a messa e con il tempo capii che in Italia e non in Russia i diritti umani sono gravemente violati».
Gonn oggi vuole parlare «in nome dell’Italia, della Russia e della giustizia. Voglio smascherare me stessa per smascherare questo business immondo. So che ci saranno gravi conseguenze per me, ma sono pronta a tutto pur di essere coerente con la verità che ho abbracciato». Si capisce perché da anni i vescovi africani gridano di chiudere le porte dell’Europa, di non favorire il traffico umano, di non illudere la loro gente, di favorire lo sviluppo in casa. Ma che vantaggio ne avremmo quando è possibile coprire ogni ingiustizia con l’ideologia della carità teorica e dell’antirazzismo alimentando un mercato proficuo? Forse chi usa questo gergo buonista dai suoi salotti radical chic dovrebbe farsi qualche domanda come Gonn. Ma si sa, sarebbe troppo scomodo anche questo.