3 febbraio 2016
di Costanza Signorelli
Diversi politici e quasi tutti i media favorevoli al disegno di legge Cirinnà, si stanno dando da fare in questi giorni – soprattutto dopo la manifestazione del 30 gennaio al Circo Massimo – per specificare e sottolineare come l’istituto della stepchild adoption contenuto nel ddl stesso, non abbia nulla a che fare con la pratica dell’utero in affitto. Che questa sia una palese menzogna, è stato già ampiamente dimostrato su queste colonne. Il disegno di legge che il Senato si appresta a votare nei prossimi giorni, prevede eccome la legalizzazione della maternità surrogata (articolo 5) e la prevede esplicitamente – seppur nell’incomprensibile linguaggio politichese. Ma allora, perché tanto spendersi per negare la verità? Cosa si vuole nascondere?
Mettiamo da parte, per un istante, gli approfondimenti giuridici, politici e sociali sul tema. E facciamo parlare la vita. Perché è la vita che inevitabilmente sbatte in faccia la verità, anche quella che non si vuole guardare. Perché è la vita – quella fatta di lacrime e sangue, di carne e di viscere – che dimostra che c’è un limite oltre il quale l’uomo non si dovrebbe spingere. Perché è la vita che grida, senza compromessi, che la legge deve proteggere l’uomo e non spingerlo verso la sua distruzione e condannarlo al peggiore degli incubi. E, invece, è proprio in un terribile incubo che la vita di Elisa Gomez si è trasformata negli ultimi nove lunghissimi anni.
«Il mio nome è Elisa Gomez. Ho tre figli. La terza non la vedo più da quando ha due anni mezzo. Ora ne ha quasi nove». Inizia così il racconto di questa donna americana che nel 2006 ha preso «la peggiore decisione della vita»: diventare una madre surrogata. «Senza saperlo né immaginarlo in quel giorno di otto anni fa, sul tavolo di quel ristorante, ho firmato la mia riduzione in schiavitù». Non lo sapeva Elisa che quella scelta avrebbe portato con sé uno tzunami devastante di sofferenza, per lei e per i suoi tre figli. Non lo poteva sapere Elisa o forse non lo voleva sapere. Erano tanti i problemi, anche economici, che in quel momento stavano affossando la sua vita. E quella scelta le parve una soluzione così possibile, così praticabile, che ci si aggrappò senza pensarci troppo.
«Nel 2006», spiega la Gomez, «la mia figlia maggiore iniziò ad avere gravi difficoltà a causa di suo padre che l’abbandonò quando era ancora molto piccola. Questa situazione mi provocò molti problemi sul posto di lavoro: essendo una madre single, ero l’unico genitore per i miei figli e insieme ero anche l’unica persona che potesse provvedere alla stabilità finanziaria della famiglia. La disperazione di dover mantenere da sola i miei figli e il fatto che, per questo, non potessi mai trascorrere del tempo con loro, mi fece prendere quella tremenda decisione che mi avrebbe poi perseguitato per il resto della vita». Per Elisa tutto gioca incredibilmente a vantaggio di quella scelta che si realizza con estrema semplicità: in Minnesota (Usa), il Paese della donna, la maternità surrogata è legge ormai da anni.
«Mi sono offerta come madre surrogata in un forum on line», racconta Elisa. «Non c’era alcuna consulenza legale, né erano previsti avvocati per rappresentarmi, anche perché non me li potevo permettere. Incontrai diverse coppie committenti e, alla fine, scelsi una coppia gay. Inizialmente, furono meravigliosi. Decidemmo insieme di usare i miei ovociti e il mio utero per una maternità surrogata». La maternità di Elisa procede senza intoppi e la coppia garantisce alla donna che potrà rimanere la madre della bambina. «Mi pagarono 8.000 dollari per mettere al mondo mia figlia e consegnarla a loro. Ma a una condizione: io sarei sempre stata presente nella vita di mia figlia come la sua madre». Evidentemente il piano ha molte falle. Se da un lato la donna non può vantare alcuna protezione legale, dall’altra lo Stato del Minnesota tutela giuridicamente l’istituto della maternità surrogata. Insomma, una forma di schiavitù legalizzata, ovviamente, a senso unico.
E, infatti, ben presto inizia a rivelarsi come tale, con tutte le sue agghiaccianti conseguenze. «Le cose cambiarono drasticamente al momento del parto. In ospedale, la coppia non mi lasciò mai sola nemmeno un secondo, anche quando li implorai di farmi dormire. Non riuscii a riposare per quaranta ore di fila. Poi la mia bambina vide la luce e subito mi sentii legata a lei per sempre. Lei era mia figlia e io lo sapevo, me lo sentivo dentro. Sapevo anche che non potevo lasciarla andare, ma ero estremamente esausta e confusa per tutta quella situazione. La coppia iniziò ad insistere per farmi dimettere dall’ospedale: io iniziai a piangere, piansi per tutto il tempo, fino a quando mi trovai letteralmente scaricata fuori dalla porta di casa mia. Da sola. Senza la mia bambina». La donna è fuori di sé, si sente come incastrata, dentro ad un incubo. Le cose peggiorano giorno dopo giorno e lei non ha la forza di comprendere quello che sta accadendo, né tantomeno di reagire.
«Non mi lavavo più, non mangiavo più, mi sentivo come se fossi un fantasma di me stessa. Ma soprattutto mi sentivo come se la mia bimba, mia figlia fosse morta. Non avrei mai potuto immaginare lo strazio che avrei provato nel vedere mia figlia strappata dalle mie braccia. Il dolore che ho provato e che provo tuttora non si può descrivere, è come un bruciore nelle ossa, una ferita che punge ogni fibra dei miei muscoli». Nel frattempo la coppia taglia ogni comunicazione con la donna e abbandona lo Stato del Minnesota facendo perdere ogni traccia di sé e della bambina. «In quel momento nessuno dei due uomini compariva ancora sul certificato di nascita della bambina: si trattava a tutti gli effetti di un rapimento, ma le autorità mi trattavano come se la figlia non fosse mia».
Da quel momento Elisa inizia un’estenuante battaglia legale. «Nel primo processo il giudice stabilì che potevo vedere mia figlia solo quattro ore al mese per un paio di mesi e mi ordinò di pagare gli alimenti per il suo mantenimento. Solo più tardi venni a sapere che ci fu un accordo alle mie spalle tra il giudice e il perito legale: tutti loro, insieme alla coppia di uomini, erano parte della comunità Lgbt della quale io non ero parte. Questo stesso giudice», continua la Gomez, «mi mandò poi da otto psicologi: voleva a tutti i costi dimostrare che ero instabile di mente. Ma tutti e otto i medici dissero che ero in perfetta salute mentale, stavo solo soffrendo le pene dell’inferno per il fatto di non poter vedere la mia bambina. I due uomini, invece, mi coprivano di minacce, molestie e insulti ed erano sempre troppo ubriachi per prendersi cura di mia figlia. Ho diversa documentazione che dimostra tutto questo. Ma il giudice, per dar ragione alla coppia di uomini, ha silenziato me e i miei avvocati, emettendo il divieto di pubblicazione degli atti del processo».
Purtroppo queste sono solo le battute d’inizio di un processo che va avanti da oltre otto anni e che sta strappando mamma e figlia dal momento stesso della nascita. «Non dimenticherò mai», conclude la Gomez, «le telefonate che feci alla coppia di uomini i primi giorni dopo la nascita di mia figlia: la sentivo urlare disperata in sottofondo. Mi dissero che si addormentava sfinita solamente sul seggiolino della macchina: era l’ultimo posto dove aveva visto la sua mamma».
É questo il racconto che Elisa Anna Gomez ha rilasciato ieri in una conferenza stampa organizzata da Toni Brandi (ProVita) e Lucio Malan (Forza Italia) presso la Sala Nassirya del Senato. Quello stesso Senato che in questi giorni si appresta a votare la legge che introduce anche in Italia l’orrenda, bestiale e inaccettabile pratica dell’Utero in Affitto. Sarà per questo che molti, in questi giorni, parlando del ddl Cirinnà sentono di aver qualcosa da negare e nascondere?