di Khaled Fouad Allam
Mentre le preoccupazioni sul declino dell’Europa si fanno sentire sempre più chiaramente – drastico calo demografico e dunque forte invecchiamento della popolazione, stagnazione economica, paralisi politica, divisione fra i popoli europei, scetticismo intellettuale – forse non ci si è chiesti che cosa pensino dell’Europa i nuovi europei, quelli che come me vivono qui anche da oltre vent’anni, e che vi sono approdati per ricostruire la propria esistenza, per sperare in una vita migliore.
Educato nell’islam, musulmano, ho lasciato una terra, l’Algeria, che ha generato Sant’Agostino, Albert Camus e uno dei più grandi mistici dell’islam, Sidi Abu Meddin. Ho imparato a vivere in un islam di testimonianza, capace di confrontarsi e di rimettersi in causa nei confronti dell’altro: ed è perciò che la questione delle radici d’Europa interroga il mio essere europeo e musulmano.
Le questioni in gioco sono molteplici, complesse, difficili, ma una è essenziale: quella dei fondamenti dell’identità europea. Nell’odierno momento storico esistono gli europei, ma non esiste l’Europa: e il richiamo di Giovanni Paolo II alla questione delle radici cristiane del continente assume un’importanza centrale, e richiede molto più di una semplice lettura storica e culturale. Certo, più d’uno ha contestato un tale approccio: alcuni temono che quel richiamo possa trasformarsi in uno strumento per infrangere i principi della laicità; altri, appellandosi alla sfera giuridico-costituzionale, affermano che il compito di una costituzione è quello di organizzare i rapporti fra i diversi poteri.
Tutti questi argomenti mi sono sempre apparsi deboli: quella in discussione non è infatti una costituzione, ma una convenzione europea, vale a dire un patto che richiede di riconsiderare le ragioni del nostro stare insieme, della nostra condivisione di valori e, infine, di chiederci come uno spazio politico in itinere possa essere considerato anche uno spazio di speranze. La questione posta dal Santo Padre ci porta a riconoscere che il pensiero politico non si riduce a un’expertise contabile, e che è sempre necessario interrogare la politica, purché non la si riduca a strumento di manipolazioni o a cinica espressione del potere; con la domanda sulle radici cristiane, è la politica che ci invita a interpretare, a interrogare dei saperi per capire e costruire, a formulare delle ipotesi.
Mi sono chiesto più volte perché il tema delle radici cristiane susciti ancora tante polemiche, mentre la parola “mercato” suona come leit motiv in tutto il testo della convenzione, e come mai ciò non abbia suscitato alcuna riflessione sul rapporto fra mercato e costruzione europea. Certo, a prima vista è possibile dare un’interpretazione esclusivista delle parole “radici cristiane”, ma si tratta di una lettura errata perché non tiene conto del contesto in cui la questione si colloca: quella domanda si situa come prolungamento di venticinque anni di attività del papa sulle vie del pianeta.
In realtà, l’insistere di Giovanni Paolo II sulla questione delle radici cristiane d’Europa non deve essere separato dalle sue molteplici iniziative di dialogo: dalla preghiera di Assisi del 1986 al suo incontro con il rabbino Toaff nella sinagoga di Roma, dal suo viaggio in Israele al suo incontro nella moschea di Damasco con il muftì di quella moschea, e prima ancora all’incontro di Casablanca con la gioventù marocchina nel 1985. Tutto ciò ha definito un nuovo sguardo, una nuova lettura del cristianesimo che la storia dei secoli passati aveva impedito. E la costruzione europea, all’orizzonte del XXI secolo, avviene parallelamente al definirsi di questo nuovo cristianesimo che si è emancipato dalla propria storia e che ha interiorizzato la secolarizzazione.
In effetti, che cosa fa il Santo Padre se non rinnovare costantemente il viaggio di san Francesco verso i sultani del mondo, verso le altre culture e religioni? Le polemiche sulle radici cristiane d’Europa mettono a nudo le nostre contraddizioni: il rifiuto di ammettere quelle radici è sintomo di un timore, di un blocco interiore nei confronti di tutto ciò che i ragazzi europei, oggi quarantenni, hanno imparato sui banchi di scuola (crociate, guerre di religione, la notte di san Bartolomeo, etc.): ma la storia richiede distanza critica e onestà. Non si può eludere il fatto che le nostre moderne istanze politiche si radicano proprio nel cristianesimo: il diritto e le istituzioni sono frutto dell’elaborazione complessa che questa civiltà ha prodotto, oltre che delle lotte fratricide che l’hanno segnata nei secoli passati.
Ma c’è anche qualcosa di più profondo, che ha segnato in modo indelebile questo continente le cui frontiere culturali sono molteplici ma in cui riconosciamo un’unica essenza, che difficilmente si riesce ad elaborare razionalmente in modo univoco ma che è presente nel cuore più profondo dell’essere europeo: la passione per la libertà – ovvero le passioni democratiche – e il sentirsi partecipi di una storia comune, che ha fatto del cristianesimo il punto focale intorno cui l’Europa si è definita. È così che ci si commuove dinanzi a un Cristo di Cimabue o ci si sente incantati dalle Madonne rinascimentali, che ci si sente travolti all’ascolto di un mottetto di Bach o del Requiem di Mozart.
Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza quel debito. L’Europa è debitrice verso il cristianesimo: perché, che lo voglia o no, esso le ha dato forma, significato e valori. Rifiutare tutto ciò significa, per l’Europa, negare se stessa. La questione delle radici cristiane d’Europa, in un momento in cui tutti parlano di eterogeneità delle culture e di multietnicità, suscita altre problematiche: come accogliere l’altro se si nega se stessi? Come saldare un patto fra le comunità umane se l’Europa rifiuta di riconoscersi?
Le radici affondano nella terra, dove incontrano e incontreranno altre radici. Se le radici del cristianesimo affondano nel mondo ebraico e in quello greco, oggi esso incontra l’islam, domani l’Asia e l’Africa. L’incontro è possibile soltanto se si è consapevoli delle proprie radici. Pensare alle radici d’Europa significa pensare ai possibili, a volte inediti, prolungamenti del continente. Oggi l’America, la Cina, l’Africa ci interrogano, ognuna con le proprie radici fatte di dolore e di speranza, mentre in terra d’Europa l’inquietudine ha già preso forma e si sta diffondendo. L’Europa, faccia a faccia con se stessa, è ricca di saperi ma restia ad accettarsi. Ma per me essa rappresenta l’albero d’ulivo che nel Corano, al versetto 35 della Sura della Luce, è “né d’oriente né d’occidente”.