Nella nostra epoca c’è un odio feroce nei confronti di chi vuole diventare mamma. E, come nel caso della legge un discussione in Francia, si è disposti ad aumentare il rischio per la salute della donna pur di assassinare un bombo vitale. Con metodi atroci
di Silvana De Mari
Sono nata nel 1953 in provincia di Caserta. Sono nata a casa. All’epoca usava così, sia per motivi igienici, dato che a casa c’erano solo i batteri locali mentre in ospedale ce n’erano invece di innumerevoli provenienze, sia per l’assoluta sfiducia nelle capacità dell’organizzazione sanitaria di non scambiare i bambini.
Tenendo presente che le infezioni ospedaliere ammazzano circa 40.000 persone all’anno e che qualche scambio di neonati in ospedale onestamente c’è stato, forse non erano così deliranti.
Sono nata di sette mesi e con problemi respiratori: non riuscivo nemmeno a piangere. La levatrice ha detto alla mia mamma che io non sarei arrivata fino a sera e di non prendersela troppo, dato che era giovane e di figli ne avrebbe fatti altri. All’epoca i corsi e i master di comunicazione con il paziente erano piuttosto ruspanti.
La mia mamma ha cominciato a recitare rosari uno dopo l’altro, nella ferrea quanto ingenua convinzione che, fino a quando lei fosse riuscita a dire il rosario, io non sarei morta. Ad un certo punto è crollata, gli occhi le si sono chiusi, si è addormentata, ed è stata poi risvegliata dal mio pianto.
Tutto questo per dire che un bambino di sette mesi è assolutamente vitale e può cavarsela nel mondo anche senza culla termica, senza un accidente di niente con, a disposizione, la tecnologia zero di una qualsiasi casa del 1953. In Francia, come in altre nazioni, è invece arrivata, lo scorso mese, una nuova luce di civiltà: la possibilità di abortire fino al nono mese.
L’Assemblea nazionale ha infatti votato (di notte, con l’aula semideserta: erano presenti 101 deputati su 557) un emendamento alla legge di bioetica che allarga notevolmente le possibilità di abortire. C’è speranza che la norma possa essere cancellata dal Senato. Altrimenti l’aborto «medico» cioè l’aborto oltre i tre mesi (e fino alla nascita) sarà possibile non solo per malformazioni fetali o per pericolo di vita della madre, ma anche se un medico attesta che la donna soffre disagio psicologico e sociale per la nascita del bambino.
Lo spiego in parole povere. Se al settimo o all’ottavo o al nono mese di gravidanza una donna non vuole il figlio nel ventre, le si può indurre il parto e poi si può dare il bimbo in adozione. Per ogni bimbo abbandonato ci sono in media sette coppie in vista dell’attesa.
Se tutto questo succede al sesto mese prima di essere dato in adozione, il bimbo deve essere tenuto in culla termica. Non c’è nessuna necessità di assassinare un feto che una volta fuori dall’utero materno è un bambino vitale. Nell’aborto al settimo, ottavo e nono mese invece viene assassinato un bambino che sarebbe vitale se nessuno lo ammazzasse.
L’aborto si fa così: si induce il parto, e si causa una rotazione del bambino così che si presenti con parto podalico. Questo aumenta i rischi per la madre. Vorrei che quest’ultima fase fosse molto chiara nella mente di tutti.
Indotto il parto, il bimbo esce podalico, cioè i piedini escono per primi. Il tizio o la tizia che seguono il parto, mi rifiuto di usare la parola medici, lo afferrano per i piedi e lo estraggono fino al collo. La testa deve restare dentro la vagina della madre, perché il bimbo non pianga. Se piange, smette di essere un aborto e diventa omicidio. Il tizio/a che assiste il parto incide profondamente dietro il collo, recide il midollo allungato e il bimbo muore: prima sgambettava e muoveva le manine, poi si affloscia come un burattino cui hanno reciso i fili.Il senso dell’aborto volontario è: la donna non vuole il bimbetto nell’utero.
L’utero è suo e lo gestisce lei. Lei vuole recuperarsi l’utero. Il bimbetto dev’essere tolto dall’utero. La morte del bambino è una condizione sine qua non perché la madre o, forse sarebbe meglio dire, proprietaria dell’utero, possa avere l’utero libero dalla presenza del suddetto. Il senso dell’aborto a nascita parziale è: la donna vuole il bambino morto.
Fuori dal suo utero il bimbetto sarebbe vitale e potrebbe fare felice una coppia di aspiranti genitori adottivi. Potrebbe anche divertirsi a vivere. Ma la madre lo vuole morto: è un suo diritto secondo la legge francese, come secondo la legge di alcuni Stati degli Stati Uniti.
La morte del bambino non è necessaria perché la mamma (proprietaria dell’utero) se ne liberi. È una necessità a parte che la donna vuole anche a costo di aumentare il proprio rischio sanitario. Per ottenere questo aborto è necessario secondo la legge francese che ci sia «disagio psicosociale», dizione che non vuoi dire assolutamente nulla nel senso che indica tutto.
Quale può essere il motivo psicosociale per cui una donna aumenta il rischio pur di assassinare un bimbo vitale?
Fino a qualche anno fa per gli aborti in questa fase della gestazione si usava la tecnica ipersalina. Veniva iniettato nel ventre un grosso quantitativo di acqua con un alto tasso di sale. Questa salinità causava la disidratazione del bambino e diffuse ustioni sulla sua delicatissima pelle che infatti, alla nascita, era nerastra. Questa era anche stata la tecnica usata in Cina per l’aborto cui erano costrette le donne nell’attuazione della politica del figlio unico.
C’erano diversi svantaggi: un enorme quantitativo di acqua e sale nell’organismo della donna con una notevole fatica per i reni eil rischio di «fallimento». Il feto poteva nascere vivo. Questa è la storia di Gianna Jensen, bambina abortita e sopravvissuta all’aborto, sia pure con deficit neuromuscolari, e ora attivista pro-life.
Lo sfidante delle elezioni statunitensi, Joe Biden, è un fanatico sostenitore dell’aborto a tutti mesi, e ha dichiarato che, se eletto, la prima cosa che farà sarà riempire di quattrini Planned parenthood, la meravigliosa società abortista che ha aiutato così tante donne a svuotarsi l’utero di bimbetti di cui loro non sapevano che farsene e che l’associazione ha riconvertito in un fantastico business, rivendendone i tessuti.
C’è un odio feroce nella nostra epoca nei confronti della madre. Già dagli anni Sessanta la moda è disegnata per donne troppo magre, tutte le modelle – praticamente senza eccezioni – hanno un livello di magrezza tale da non poter avere più le mestruazioni. Hanno ossa di carta velina e non possono diventare madri. Le modelle diventano un «modello» e le ragazzine si affamano o imparano a vomitare per somigliare a persone sottopeso e malate.
L’aborto è facile e gratuito. Tra i nuovi diritti c’è anche quello di sputare in faccia al medico obiettore che, essendo lui sì un medico che si è laureato in medicina per salvare la vita, non vuole trovarsi sui guanti un corpicino smembrato, oppure ancora intero e che si muove.
La volontà della donna che vuole abortire pare essere l’unica volontà che abbia un senso. In compenso non importa un fico a nessuno delle volontà di una donna di non avere gli spacciatori ai giardinetti ove giocano i suoi bambini, di non avere i maschi che impazziscono di disinteresse e violenza davanti a una pornografia sempre più folle, di vivere in una società che garantisca il lavoro e la possibilità di mettere al mondo bambini e allevarli, di non dover sottoporre i propri figli ai vaccini che lei e suo marito non ritengono giusti, di non volere che i propri figli assistano a lezioni di cosiddetta educazione sessuale dove la loro innocenza sarà calpestata, di non volere che i propri figli assistano a lezioni di cosiddetta educazione civica dove si insegnerà che l’aborto è un diritto tale da essere considerato una festa.
Le donne dovrebbero riavere la libertà che hanno avuto fino agli anni Ottanta, di poter camminare per strada senza avere paura, di poter andare alla Stazione Centrale alle 6 del mattino senza avere paura, di vivere in un mondo dove non sia tecnicamente possibile che qualcuno le smembri e le metta in due trolley.
Le donne rivogliono il diritto di poter essere madre tutte le volte che vogliono e quando vogliono.