Avvenire, 27 febbraio 2008
Alla vigilia dell’incontro tra esponenti musulmani e Santa Sede, parla l’esperto gesuita Khalil Samir
di Giorgio Paolucci
Nel 2006 Benedetto XVI lo invitò a Castelgandolfo per tenere una lezione in occasione dell’annuale incontro con i suoi ex alunni del Ratzinger Schülerkreis. Col gesuita Samir Khalil Samir parliamo delle prospettive aperte dallo scambio di lettere tra i 138 saggi islamici e la Santa Sede, che tra qualche giorno sfocerà in un primo colloquio tra una delegazione vaticana e una musulmana e, più avanti, nell’incontro con il Papa.
L’incontro programmato per il 4 e 5 marzo in Vaticano sarà una «prima volta»: cosa è legittimo sperare e su cosa è meglio non nutrire eccessive illusioni?
«Anzitutto va chiarito che l’imminente riunione tra le due delegazioni serve per definire alcuni aspetti procedurali, non entra ancora nel merito ma punta a focalizzare gli argomenti da affrontare in futuro. Essendo la prima volta, non si può andare molto lontano perché si devono calibrare le rispettive posizioni. Che, vorrei ricordare, non sono ‘solo’ due: all’interno delle delegazioni coesistono atteggiamenti e sensibilità diversi».
Una certa concezione di dialogo tende a mettere tra parentesi ciò che divide per enfatizzare ciò che unisce. È questo il senso della posizione della Santa Sede, espressa nella risposta del cardinale Bertone alla «lettera dei 138»?
«Nella risposta della Santa Sede la posizione è chiarissima: ‘Senza ignorare o sminuire le nostre differenze in quanto cristiani e musulmani, possiamo e quindi dovremmo guardare a ciò che ci unisce’. È una posizione all’insegna del realismo e della ragionevolezza: quando si dialoga bisogna guardare l’interlocutore nella sua interezza, non immaginarlo come ci piacerebbe che fosse. Faccio un esempio: se dico che l’islam ha grande stima di Gesù, lo considera un grande profeta e il Corano ne racconta i miracoli, dico qualcosa di vero ma di parziale. Devo infatti aggiungere che il Corano accusa i cristiani di avere elevato Gesù alla dignità divina, di avere inventato la Trinità, di avere falsificato i Vangeli. Benedetto XVI ci invita ad andare a fondo, a non fermarsi alla parte positiva e a non farsi frenare da quella negativa: questo significa dialogare nella verità».
Tra gli elementi comuni, quali sono a suo giudizio quelli su cui il confronto può produrre passi avanti?
«Il rispetto della dignità di ogni persona è certamente il più importante perché pone le basi della convivenza e dell’etica. La recente apertura dell’arcivescovo anglicano di Canterbury all’introduzione di elementi della sharia nella società inglese è figlia dell’idea che ognuno può venire giudicato a partire dalla sua fede religiosa, mentre si deve riaffermare che tutti siamo tenuti al rispetto di principi inderogabili universalmente ammessi, come appunto la dignità della persona. E dentro questa affermazione sta anche la libertà religiosa, che a sua volta comprende la possibilità di aderire a una fede diversa da quella in cui si è stati educati. Questo è un nervo scoperto nel mondo musulmano, dove chi esce dalla comunità viene accusato di apostasia e rischia la morte, la persecuzione o la discriminazione ».
Dunque non basta affermare che crediamo nell’unicità di Dio e nell’amore per il prossimo, come viene solennemente affermato nel documento dei 138 saggi musulmani?
«È un’affermazione importante ma va declinata nel concreto, altrimenti rischia di restare un vago auspicio. Cosa significa concretamente l’amore per il prossimo? Posso amare il nemico? Posso amare il peccatore, chi ha tradito la legge divina? E posso amare chi ha cambiato religione, l’apostata? Sono interrogativi non secondari, con i quali ci si deve misurare».
Un altro nodo fondamentale a cui la lettera della Santa Sede fa riferimento è la necessità di una conoscenza oggettiva della religione dell’altro. Cosa la rende possibile?
«Oggi prevale una conoscenza basata su stereotipi o sulle aspettative che si nutrono nei confronti dell’interlocutore. A questo deve subentrare una conoscenza basata su ciò che l’altro dice di sé. In questo senso è fondamentale, ad esempio, rivedere le approssimazioni e le vere e proprie menzogne contenute nei libri di testo scolastici, sia cristiani che musulmani, che alimentano ostilità preconcette e seminano veleni sulla strada di un incontro possibile».
Qualcuno ha definito deludente il documento dei 138 perché non affronta un nodo centrale per l’islam contemporaneo: la sovrapposizione tra religione e politica. Che ne pensa?
«Obiezione condivisibile. Il problema non è, lo ripeto, teorizzare l’amore per Dio e tra gli uomini, ma piuttosto capire come possiamo vivere insieme restando diversi, come accettare la differenza senza demonizzarla (magari in nome di Dio), come amare chi ha una posizione opposta alla mia. E questo è certamente un nervo scoperto nel mondo musulmano contemporaneo, sul quale molte autorità religiose si pronunciano in maniera strumentale. Arrivando a usare versetti del Corano per dare una motivazione teologica a posizioni politiche, fino alla giustificazione degli attentati kamikaze. Altri arrivano a usare versetti della Bibbia per dare motivazione teologica a posizioni politiche, fino a giustificare il possesso di una terra, o la necessità di fare guerra a un popolo».
La pluralità dei firmatari (sunniti, sciiti, ismailiti, sufi, appartenenti a 43 nazioni) è una garanzia del consenso che il documento riscuote nel mondo islamico, o resta comunque aperto il problema di una religione che non ha una gerarchia universalmente riconosciuta?
«I firmatari appartengono a 43 nazioni ma non le rappresentano. Molti sono personalità autorevoli e prestigiose, però, come sempre nel mondo musulmano, non possono parlare a nome di una collettività. Qualcuno, in nome dell’islam, potrebbe sempre obiettare a ciò che dicono. A questo va aggiunto che, come mi è stato raccontato da qualcuno dei firmatari, c’è chi ha sottoscritto il documento senza neppure averlo letto. Si sono fidati dell’autorevolezza dei proponenti, che come noto fanno riferimento alla prestigiosa casa reale (Aal al-Bayt) di Giordania».
Insomma, ci sono molti motivi per essere scettici…
«Dobbiamo essere realisti, come ci chiede il Santo Padre. Realisti e fiduciosi nella buona volontà degli uomini e nell’opera dello Spirito che non mancherà di illuminarli. Pur senza nascondersi irenicamente le difficoltà, la novità dell’evento è indiscutibile e non va sottovalutata: è la prima volta che un gruppo di sapienti musulmani si esprime manifestando più di un motivo di sintonia con il cristianesimo. E la risposta della Santa Sede non è stata una semplice ‘ricevuta’. Speriamo e preghiamo che si possa fare un pezzo di cammino insieme. L’importante non è discutere un documento, né farne uno nuovo, ma decidere d’incontrarsi regolarmente (almeno una volta all’anno) per trattare insieme argomenti concreti preparati in anticipo con serietà e responsabilità. Si deve iniziare un legame duraturo, non occasionale».
(A.C. Valdera)