«Nei Paesi musulmani le folle sono facilmente condizionabili perché educate a obbedire, non a interpretare». L’analisi di Samir Khalil
Di Giorgio Paolucci
«Se non si metterà mano a una profonda revisione dell’educazione che viene impartita nelle scuole, nelle università e nelle famiglie, il mondo musulmano continuerà a vivere in maniera autoreferenziale e ad affrontare in maniera conflittuale il rapporto con tutto ciò che sta fuori da esso». Ne è convinto Samir Khalil Samir, gesuita, docente alla Saint Joseph University di Beirut e al Pontificio Istituto Orientale di Roma e profondo conoscitore di ciò che si muove nella umma islamica.
Cosa c’entra l’educazione con le proteste di piazza?
«Nei Paesi islamici la gente è facilmente condizionabile dalle parole d’ordine dei radicali. I quali si stracciano le vesti per l’oltraggio consumato nei confronti di Maometto (a cinque mesi dalla pubblicazione), strumentalizzano il sentimento religioso per finalità politiche e additano l’Occidente come il grande Satana. Ma tutto questo è il frutto avvelenato di dinamiche mentali che vengono da molto lontano».
E da dove vengono?
«Dal modo malato con cui si guarda alla realtà. Per esempio, attribuendo al gruppo responsabilità che sono anzitutto individuali. Chi in questi giorni protesta non se la prende solo con gli autori delle vignette ma con i governi dei Paesi in cui sono state pubblicate, e addirittura con l’Occidente o con i cristiani, con le tragiche conseguenze a cui abbiamo assistito, come l’omicidio di don Santoro. E questo è tipico di una mentalità che dimentica il valore della persona annegandola nel gruppo. Bisogna esercitare la ragione, non farsi determinare dall’emozione. Purtroppo nei Paesi islamici si sta vivendo il sonno della ragione».
Ma perché è così facile trascinare le folle e strumentalizzare l’opinione pubblica?
«Le faccio alcuni esempi che aiutano a capire. A scuola i metodi d’insegnamento sono basati sulla ripetizione e sulla memorizzazione piuttosto che sull’argomentazione logica. In famiglia l’obbedienza che i genitori esigono dai figli non è accompagnata quasi mai dall’offerta di motivazioni ma piuttosto da imposizioni, anche violente.
E sotto il profilo strettamente religioso, il Corano viene imparato a memoria e applicato in maniera meccanicistica e letterale, con una convinzione: visto che il testo sarebbe stato trasmesso direttamente da Dio a Maometto, esso contiene già tutto quanto serve per vivere e non è ammesso l’utilizzo di alcuna categoria interpretativa. E se qualcuno fa notare che – rispetto ai principi contenuti nel libro sacro e agli hadith (i detti attribuiti al Profeta, l’altra grande fonte della tradizione islamica) – bisogna sforzarsi di cercare l’applicazione più adeguata alla realtà attuale, viene accusato di essere un traditore dello spirito più autentico dell’islam e additato alla pubblica riprovazione, fino all’accusa di apostasia.
Il risultato è un mondo statico, autoreferenziale, timoroso di confrontarsi con la modernità. La quale viene vissuta come qualcosa che mette in pericolo la conservazione della “vera religione”».
Non le sembra che il problema di fondo risieda nel fatto che nel Corano si può trovare tutto e il contrario di tutto? Alcune sure esortano alla preghiera, alla concordia con le altre religioni monoteiste e alla pacificazione, altre invitano a combattere gli infedeli con ogni mezzo. Il risultato è che c’è chi presenta l’islam come religione di pace e chi brandisce il Corano per giustificare le gesta dei kamikaze.
«Proprio perché nel Corano si leggono frasi che vanno in direzioni molto diverse, è necessario che non si faccia un uso letterale e de-contestualizzato di quanto vi è scritto. Nella penisola araba del VII secolo la guerra era un evento diffuso, faceva parte dei costumi e della mentalità del tempo. Maometto ne ha combattute 19 in dieci anni, e si deve riconoscere che la velocità con la quale l’islam si è diffuso in Medio Oriente, in Asia e in Nordafrica è largamente debitrice alle conquiste militari sue e dei suoi successori.
Perciò risulta poco credibile chi continua a ripetere che l’islam è una religione di pace dimenticando l’altra faccia della medaglia. Bisogna avere l’onestà intellettuale di riconoscere che le esortazioni alla pace si mescolano con la legittimazione dell’uso della forza, e fare in modo che le parti più violente non prevalgano nella vulgata che viene diffusa nelle moschee e tra la gente. Ma per fare questo è per l’appunto necessario superare un approccio letteralista del testo, anziché considerare il Corano una specie di “surgelato religioso”».
Ammetterà però che questa posizione, che pure esiste nel mondo islamico, rimane largamente minoritaria. Come se ne esce?
«Purtroppo da vari decenni (anche con l’aiuto di certi governanti) si stanno diffondendo le posizioni più chiuse e antimoderne, mentre i liberali che vorrebbero “aprire” l’islam alla modernità sono in difficoltà. Credo che un Occidente illuminato e lungimirante dovrebbe aiutarli a fare sentire la loro voce nell’opinione pubblica di quei Paesi, oltre che contribuire alla diffusione delle loro idee. Come?
Ad esempio favorendo la circolazione e la traduzione delle loro opere, o invitandoli a parlare in Europa, anche per farli conoscere ai connazionali che vivono in emigrazione e vengono ammaliati dalle parole d’ordine di imam fondamentalisti. Ma soprattutto c’è un gigantesco lavoro da fare a livello educativo, nelle scuole e nelle università, agendo sui testi e sulla formazione degli insegnanti.
Un lavoro che richiederà generazioni, perché possa lentamente cambiare una mentalità che ha paura della realtà invece che misurarsi con essa. Come ci insegna il cristianesimo, la ragione non è nemica, ma alleata della fede».