Roma – Sala del Campidoglio Sabato 12 febbraio 2011
A CENTOCINQUANT’ANNI DALL’UNITA’ D’ITALIA. QUALE IDENTITA’?
di Massimo Introvigne
(testo integrale dell’intervento tratto dal sito Facebook dell’autore)
Nel 1996 si è svolto a Parigi, per iniziativa del Centro Gobetti e dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, un convegno di studi nel settantesimo anniversario della morte di Piero Gobetti (1901-1926), [1] di cui nel 1999 sono stati pubblicati gli atti. Il convegno ha mostrato come «determinante nella biografia intellettuale» [2] di Gobetti, dove ha la funzione «di un principio esplicativo, di un progetto, di un modello» [3], sia la tesi secondo cui l’arretratezza dell’Italia deriva dal fatto che nel nostro Paese è mancata una Riforma protestante, la quale avrebbe invece garantito prosperità e sviluppo economico e politico alle nazioni più avanzate dell’Europa Settentrionale.
A questa drammatica mancanza avrebbero poi cercato di ovviare il Risorgimento prima e l’opposizione al fascismo poi. Dal convegno di Parigi emerge non solo come questa posizione sia assolutamente centrale per intendere il pensiero di Gobetti – nonché tutto il laicismo italiano successivo, che al pensatore torinese ampiamente s’ispira – ma pure come la tesi, non inventata da Gobetti, abbia una lunga genealogia che lega tra loro l’Illuminismo, il pensiero risorgimentale, l’antifascismo e anche una parte cospicua del socialismo e del comunismo italiani.
È interessante riflettere sul fatto che la tesi di Gobetti – che non è, appunto, solo sua – ha avuto a lungo un carattere principalmente polemico, con scarso supporto scientifico e documentario. Dopo l’unità d’Italia era stata diffusa principalmente dalla scuola degli hegeliani napoletani: Augusto Vera (1813-1885) [4], Angelo Camillo de Meis (1817-1897) [5], Raffaele Mariano (1840-1912) [6], nomi oggi quasi dimenticati ma al loro tempo tutt’altro che poco influenti. I loro argomenti erano però ispirati più alla filosofia che alla storia.
Prima ancora, a sostegno del legame fra la mancata Riforma protestante e l’arretratezza italiana era sceso in campo nel secolo XIX l’economista ginevrino Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842) [7], cui aveva risposto nel 1819 anche Alessandro Manzoni (1785-1873) con le sue Osservazioni sulla morale cattolica [8]. Ma la prolissa e scadente opera di Sismondi – autore che per altro verso, quando si era occupato non di storia ma di economia politica, si era mostrato capace di superare i suoi pregiudizi di protestante e aveva perfino influenzato esponenti autorevoli del pensiero sociale cattolico [9] – non era mai stata presa troppo sul serio dagli storici di professione.
Gobetti stesso costruisce la sua tesi utilizzando ampiamente un’opera giornalistica, La monarchia socialista di Mario Missiroli (1886-1974) [10], un autore che il pensatore torinese è «incline a sopravvalutare» [11]. Gobetti tiene ampio conto anche degli attacchi anti-cattolici sia del filosofo francese Ernest Renan (1823-1892)[12] sia del filosofo e uomo politico ceco Tomáš Garrigue Masaryk (1850-1937) – tra l’altro, esponente di primo piano della massoneria europea – la cui opera La Russia e l’Europa [13], che collega la Chiesa Cattolica e quelle ortodosse orientali all’arretratezza e il protestantesimo alla prosperità, diventa famosa anche negli ambienti marxisti per i commenti, sia pure non privi di critiche, che le sono dedicati da Lev Davidovič Trotsky (1879-1940) [14].
Gli stessi Masaryk e Trotsky sono autori da non trascurare quando si ricostruisce la genealogia più recente – i prodromi, infatti, risalgono all’Illuminismo – della tesi secondo cui l’arretratezza dell’Italia è dovuta alla sconfitta nel nostro Paese della Riforma protestante. Ma l’apparato scientifico che questi autori possono mettere in campo a sostegno della tesi rimane modesto.
Le cose cambiano, però, quando in Italia si comincia a leggere l’opera sociologica di Max Weber (1864-1920). Fra il 1904 e il 1905 Weber pubblica la prima edizione di uno dei lavori più importanti nella storia della sociologia, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [15]. Questo scritto – senza che se ne possa rendere particolarmente responsabile l’autore – gioca un ruolo decisivo anche nel dibattito sul ruolo della Chiesa Cattolica nella storia d’Italia, e questo a prescindere dal quesito, al quale anche al citato convegno di Parigi del 1996 sono state date risposte diverse, se Weber sul punto influenzi o meno Godetti [16].
Nella sua ricerca – che si dovrebbe definire notissima, se non fosse per il fatto che è spesso più citata che letta – Weber sostiene la teoria delle affinità elettive fra il protestantesimo calvinista e il processo di modernizzazione collegato al capitalismo.
Alle origini di questo processo sta, per Weber, l’idea calvinista della predestinazione – al Cielo o all’inferno – e di conseguenza la domanda angosciosa che ogni buon calvinista si pone circa la propria salvezza. Giacché un certo calvinismo interpreta il successo mondano come segno di una predestinazione favorevole, chi vive di questa teologia – proprio per liberarsi della domanda ossessiva circa la salvezza eterna – s’impegna a conseguire il successo nell’economia, negli affari, nell’amministrazione dello Stato.
La dottrina della predestinazione gioca così a favore del capitalismo, e anche dello sviluppo dello Stato moderno e delle sue burocrazie, tanto più quando si combina con l’abbandono di ogni pretesa d’indirizzo e di controllo dell’autorità religiosa rispetto al potere politico che consegue, in molte forme del protestantesimo, alla rottura fra fede e ragione e all’arroccamento dei teologi protestanti nel regno della sola fides, con conseguente abbandono ai prìncipi della sfera dell’agire razionale, economico, politico.
La tesi di Weber suscita quasi immediatamente un enorme interesse nell’Italia dei primi anni del secolo XX, proprio perché s’inserisce nel dibattito – in corso da decenni, se non da secoli – sul presunto danno arrecato all’Italia dalla mancata adesione alla Riforma protestante. All’alba di un nuovo secolo, può sembrare che l’opera di Weber possa finalmente offrire la chiave scientifica per confermare la vecchia tesi di Sismondi.
La teoria che identifica il progresso economico e politico con il protestantesimo e l’arretratezza con il cattolicesimo passa, per così dire, dall’utopia alla scienza. Il male dell’Italia – si ripete ancora una volta, ma con la pretesa che ora sia la nuova scienza della sociologia a confermarlo – consiste nel fatto che il nostro popolo ha rifiutato la Riforma protestante.
L’ethos specifico dell’Italia – in quanto irrimediabilmente radicato nella tradizione cattolica e nello spirito della Controriforma – diventa così un’eredità negativa di cui, si dice, occorre liberarsi per avviare anche nel nostro Paese un processo di modernizzazione e di progresso, avviato dal Risorgimento proprio in quanto laico e anticlericale e – in questo senso – autentica «rivoluzione contro la Controriforma» e versione italiana della Rivoluzione francese.
Dal dibattito su Weber si precisa e si consolida nelle sue parole d’ordine quello che si può chiamare un partito anti-italiano, che chiede all’Italia di rinunciare al suo ethos tradizionale per non perseverare in una presunta condizione di arretratezza, d’inferiorità e di subordinazione rispetto alle nazioni protestanti, che sono proposte al contrario come modello.
Queste idee diventano così comuni da essere incessantemente ripetute – in una sorta di grande vulgata neo-weberiana – nei libri di testo delle scuole e nella stampa quotidiana, fino a passare nel grande catalogo popolare dei luoghi comuni. Che cosa pensarne? Il sociologo deve anzitutto osservare che la tesi centrale diffusa dal partito anti-italiano riposa su una pessima lettura di Weber.
La teoria esposta dal sociologo tedesco è scambiata per la tesi della scuola cattolica contro-rivoluzionaria sul ruolo negativo del protestantesimo, semplicemente cambiata di segno. Il pensiero contro-rivoluzionario – che sul punto trova una prima sintesi nel saggio del 1842-1844 El protestantismo comparado con el catolicismo del filosofo spagnolo Jaime Balmés (1810-1848)[17] – sostiene che il protestantesimo, rompendo la sintesi medievale fra fede e ragione, separando la figura di Gesù Cristo dalla Chiesa e proclamando il diritto di ogni fedele al libero esame della Scrittura è alle origini dell’individualismo e del soggettivismo moderni. Mentre per Balmés questa è una catastrofe antropologica, Weber – o così ripetono i lettori italiani del sociologo tedesco – dimostra che si tratta, al contrario, del segreto della prosperità dei Paesi protestanti.
Ma Weber e Balmés non descrivono lo stesso processo. Balmés è certamente convinto che i riformatori abbiano volutamente voluto sovvertire l’etica e l’antropologia tradizionali. Weber precisa invece che «i programmi di riforma etica non hanno mai rappresentato il punto di vista centrale per nessuno dei Riformatori» [18] e che «gli effetti culturali della Riforma furono in buona parte – anzi, per i nostri punti di vista specifici, in prevalenza – conseguenze impreviste o addirittura non volute del lavoro dei Riformatori, spesso lontane o addirittura contrastanti rispetto a ciò che essi vagheggiavano» [19].
In secondo luogo, Weber non sostiene affatto che quanto chiama «spirito capitalistico» [20] sia «soltanto […] emanazione di determinate influenze della Riforma» [21], e meno ancora «un prodotto della Riforma» [22]. Weber sa bene che questa tesi, che definisce «scioccamente dottrinaria» [23], cadrebbe di fronte alla semplice osservazione storica secondo cui «certe forme importanti di impresa commerciale capitalistica sono notoriamente assai più antiche della Riforma» [24].
Era questa la principale obiezione al recepimento di una vulgata weberiana in Italia – dove i cittadini di Firenze e di Prato, per esempio, non avevano atteso Giovanni Calvino (1509-1564) per dare prova di spirito capitalistico – formulata in un’importante opera di Amintore Fanfani (1908-1999) [25], che ebbe a suo tempo vasta risonanza e che vale sempre la pena di rileggere, insieme del resto ai riferimenti critici alla tesi di Weber nelle opere del sociologo tedesco Werner Sombart (1863-1941) [26].
Weber, dunque, non pensa affatto che il protestantesimo abbia creato il capitalismo. Si limita a trasporre il concetto di affinità elettive di Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) dalla psicologia letteraria alla sociologia, affermando che ci sono delle affinità di questo genere fra un certo protestantesimo e il prevalere del capitalismo su altre forme di produzione e di economia, che è appunto cosa diversa dalla nascita del capitalismo.
Inoltre – ma non si tratta di un punto secondario – Weber non sostiene neppure che tutto il protestantesimo si sia trovato in una situazione di «affinità elettiva» [27] rispetto allo «spirito del capitalismo» [28]. Il sociologo tedesco tende anzi a escludere da queste affinità Martin Lutero (1483-1546) e tutto il protestantesimo della prima generazione. Per lui è piuttosto un protestantesimo di seconda generazione, che chiama «protestantesimo ascetico» [29], ad avere favorito il successo dello spirito capitalista moderno.
Nel «protestantesimo ascetico»[30] Weber rubrica «il calvinismo» [31] (ma «nella forma che esso ha assunto nelle principali regioni dell’Europa occidentale in cui è dominante, particolarmente nel corso del secolo XVII»[32], quindi il calvinismo dopo Calvino), «il pietismo» [33], il «metodismo» [34] e quelle che chiama «sette sorte dal movimento battistico» [35].
Non è questa la sede per indagare se – sul terreno della storia e della sociologia delle religioni – la tesi di Weber sia interamente corretta. Per esempio. all’interno del protestantesimo il metodismo, in tema di predestinazione, adotta in genere posizioni teologiche contrapposte a quelle calviniste [36]. Gli storici hanno sottolineato in particolare l’influenza su Weber del teologo di Berna Matthias Schneckenburger (1804-1848), i cui saggi – popolari nel secolo XIX – sono oggi considerati come superati.
Giova però osservare che il protestantesimo che Weber chiama «ascetico» – il solo, fra i molti protestantesimi, che Weber colleghi davvero al capitalismo – ha avuto certamente un ruolo dominante, in certi periodi storici, in Olanda, in Inghilterra e negli Stati Uniti d’America. Ma in altri Paesi europei il protestantesimo dominante è rimasto quello di tipo luterano o proto-calvinista diverso, come si è accennato, dal calvinismo dopo Calvino di marca presbiteriana e puritana.
Quando si confronta lo sviluppo di questi Paesi – la Germania, la Scandinavia, molte regioni della Svizzera – con quello dell’Italia, invocare l’autorità di Weber significa, semplicemente, non aver letto il suo testo. L’etica protestante di cui parla Weber certamente non è il protestantesimo di Lutero e della Scandinavia luterana, e neppure, in senso stretto, il calvinismo delle origini e della tradizione ginevrina.
In ogni caso sul Weber reale ha prevalso – secondo un processo che peraltro forse non avrebbe sorpreso il sociologo tedesco – un Weber ideale e mitologico, volgarizzato a uso e consumo del partito anti-italiano. Per questo partito «fatta l’Italia» non si trattava soltanto di «fare gli italiani» – secondo l’espressione attribuita a Massimo d’Azeglio (1798-1866) –: occorreva piuttosto fare l’Italia contro gli italiani, disfare il tradizionale ethos italiano radicato nel cattolicesimo per costruire un ethos nuovo, progettato a tavolino, modellato sulle presunte caratteristiche delle più avanzate nazioni protestanti europee.
E, dal momento che lo spirito protestante, ritenuto superiore, era collegato a un forte senso dello Stato centrale, mentre si considerava l’ethos cattolico dell’Italia come radicato nelle sue cento culture locali e localistiche, il partito anti-italiano era, nello stesso tempo, un partito centralista che guardava con sospetto a ogni ipotesi di federalismo e anche di semplice decentramento.
Da questo punto di vista il modello di modernizzazione del partito anti-italiano era quello della Rivoluzione francese, e non quello – molto diverso – della Rivoluzione americana. Una differenza fra i due modelli – oltre, naturalmente, al diverso atteggiamento nei confronti della religione – sta appunto nel ruolo cruciale svolto in Francia dal centralismo, cui si collega il richiamo a una libertà astratta e illuministica, e negli Stati Uniti d’America invece dal federalismo e da un autentico culto delle libertà pratiche e concrete [37].
2. L’ethos italiano e la modernità
La pessima lettura di Weber messa al servizio di un progetto di denigrazione sistematica, spinta fino all’autolesionismo, della nostra tradizione nazionale a opera del partito anti-italiano ha largamente impedito una seria riflessione sui rapporti fra ethos nazionale italiano, religione, unità d’Italia e modernità, che si avrebbe interesse a sviluppare proprio tenendo presente la lezione del sociologo tedesco.
Si tratta, naturalmente, di prendere in considerazione la modernità come fatto – come sviluppo tecnologico, culturale ed economico – separandola, per quanto possibile, dalla modernità come ideologia e come teoria della laicizzazione e della secolarizzazione: i due concetti di modernità hanno naturalmente relazioni fra loro, ma non coincidono.
Si tratta, anche, di tenere conto del dibattito che i sociologi delle religioni cosiddetti neo-weberiani hanno promosso sull’eredità di Weber, ripensandola criticamente e mettendo in luce in particolare come l’attenzione alle relazioni fra religione ed economia del sociologo tedesco si sia concentrata sul momento della produzione, mentre nelle dinamiche economiche moderne non minore rilievo hanno il momento del consumo e i comportamenti dei consumatori [38].
Di Weber possiamo però considerare ancora attuale la tesi secondo cui l’ethos di una nazione ne influenza tutta la storia, anche economica, e l’indagine sulla natura di questo ethos non può prescindere dalla religione. Una controversia è ancora oggi in corso fra i sostenitori di due diverse risposte alla domanda su quale sia il «cuore» dell’ethos nazionale degli Stati Uniti. Per la prima risposta, si tratta della ricerca di un minimo comun denominatore fra tante diverse forme di cristianesimo.
Per la seconda, di un panteismo neopagano che origina da una certa massoneria. La querelle è stata riproposta all’attenzione non solo degli americani prima con il viaggio negli Stati Uniti del 2008 di Benedetto XVI, nel corso del quale il Papa ha sostenuto la fondatezza della prima risposta[39], quindi – senza volere ovviamente mettere sullo stesso piano i due avvenimenti – con la pubblicazione nel 2009 del romanzo di Dan Brown Il simbolo perduto [40], dove il romanziere americano è sceso in campo per difendere invece la seconda versione, neopagana e massonica, dell’ethos statunitense.
A prescindere dal carattere piuttosto rozzo delle argomentazioni di Brown [41], non si può non osservare come i termini di questo dibattito restino ancora oggi a loro modo weberiani, nel senso che per accertare quale sia l’ethos di una nazione si fa principale riferimento alla religione.
Se si volessero applicare le categorie di Weber all’ethos nazionale italiano, occorrerebbe partire – come appunto suggeriva il sociologo tedesco – dalle idee e dalle tendenze religiose prevalenti nell’insieme della popolazione, e chiedersi in che cosa queste idee si differenziano dal tipo di protestantesimo che Weber prende in esame. Situandosi di fronte al fatto della modernità l’ethos nazionale italiano radicato nel cattolicesimo presenta tre principali caratteristiche, ciascuna delle quali meriterebbe di essere adeguatamente approfondita: il realismo, la libertà dall’esito e l’universalismo.
La modernità si presenta spesso con il manto dell’utopismo, dei sogni di un’età dell’oro che sarebbe possibile instaurare in terra grazie agli sforzi degli uomini. L’ascetica del capitalismo dovrebbe garantire una perfetta organizzazione dell’economia, e il culto laico dello Stato dovrebbe condurci al migliore degli Stati possibili. Questa è l’ideologia che il filosofo cattolico italiano Augusto Del Noce (1910-1989) chiamava «perfettismo» [42], intendendo con tale espressione «la dottrina che estende il concetto di progresso dal campo dove è legittimo, la scienza e la tecnica, al mondo morale e umano, e di conseguenza pensa a un processo della storia per cui la presenza del male andrebbe continuamente diminuendo sino all’estinzione» [43], in quanto «leggi provvidenziali concilierebbero la ricerca dell’utile individuale con l’utile collettivo e la piena libertà economica porterebbe infine il mondo a uno stato paradisiaco» [44].
Secondo Del Noce – e si tratta di un tema fondamentale che percorre tutta la sua opera – il perfettismo consiste ultimamente nel rifiuto di prendere in considerazione le conseguenze sociali del peccato originale. L’ethos nazionale italiano di fronte alla modernità e alla sfida del perfettismo si costituisce, precisamente, come rifiuto delle utopie, come scetticismo di fronte alla prospettiva di un’economia paradisiaca, di uno Stato etico o garante dell’etica, di una società perfetta. Vale la pena di sottolineare il ruolo cruciale nella formazione di questa ostilità italiana al perfettismo di una figura radicata nella tradizione napoletana, sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787), dottore della Chiesa e, per oltre un secolo, massima autorità riconosciuta nel mondo cattolico nel campo della teologia morale.
Il probabilismo di sant’Alfonso – che si oppone al rigorismo giansenista influenzato dal protestantesimo puritano, e anche a un certo lassismo volgare sorto come reazione eccessiva al rigorismo – costituisce la più sicura garanzia contro i sogni utopistici, e il più equilibrato monito agli uomini tentati dal perfettismo, ai quali è ricordato che la perfezione non è di questo mondo e che i nostri sforzi possono al massimo avvicinarsi a quanto sembra buono con un grado ragionevole di probabilità.
Come ricorderà – dopo la tragica esperienza delle ideologie del secolo XX – Benedetto XVI nell’enciclica Spe salvi, «chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa» [45], e dell’utopia comunista in particolare oggi «sappiamo anche come si sia poi sviluppata, non portando alla luce il mondo sano, ma lasciando dietro di sé una distruzione desolante» [46].
Se si aggiunge che, fra tutti i dottori della Chiesa, sant’Alfonso è stato definito «il più letto» [47] dai comuni fedeli; che egli fu anche un grande predicatore popolare con i suoi opuscoli e cantici ancora oggi familiari agli italiani – si pensi al famoso Tu scendi dalle stelle –; e che la maggioranza del clero – in Italia come in Francia – ne adottò le massime nella pratica quotidiana del confessionale, si comprende il ruolo decisivo che questa figura ha avuto nel radicare – nel dialogo e nella dialettica con la modernità – un sano realismo che resta scettico di fronte a tutte le utopie e che ha preservato per buona parte l’Italia da ubriacature ideologiche, «religioni civili» e culti dello Stato che hanno avuto ben più ampio corso in altri Paesi.
Di fronte al weberiano spirito del capitalismo – alla cui formazione l’Italia, come si è visto, non è stata estranea, come basterebbero a dimostrare i banchieri toscani, lungo percorsi che prescindono completamente dal protestantesimo – l’ethos italiano prende forma senza alcun riferimento al concetto di predestinazione, che il Concilio di Trento (1545-1563) relega con successo ai margini della discussione teologica e soprattutto della pietà popolare. Senza l’angoscia della predestinazione il processo weberiano, che spinge un certo tipo di protestante a ricercare nel buon esito delle sue imprese economiche una certificazione della futura salvezza, non può avere corso nel nostro paese.
Questo non significa che manchi una coscienza delle nuove prospettive economiche, né una riflessione sull’etica del lavoro. E questa riflessione si muove in Italia, in epoca moderna, sulle tracce principalmente di san Francesco di Sales (1567-1622), un altro dottore della Chiesa, savoiardo, cui non a caso san Giovanni Bosco (1815-1888) vorrà intitolare la sua congregazione, i Salesiani.
In una ideale ricostruzione neo-weberiana della riformulazione di un ethos italiano di fronte allo spirito moderno, il piemontese Giovanni Bosco dovrebbe collocarsi in continuità con il napoletano Alfonso de’ Liguori. Sulla scorta dell’etica anti-utopistica e moderata di quest’ultimo – e del modo con cui aveva guardato al lavoro umano san Francesco di Sales – don Bosco, certo con altri ma con un contributo decisivo, trasmette all’Italia nascente un ideale di santificazione del lavoro, dell’operosità, dell’educazione sostanzialmente diverso dall’etica calvinista descritta da Weber.
La differenza fondamentale consiste nella libertà dall’esito, che don Bosco, come Francesco di Sales, non cessa d’insegnare. Se per il puritano britannico di Weber è l’esito, è il successo che libera dalla paura della predestinazione, per il cattolico italiano di don Bosco non è l’esito che conta, ma la consapevolezza dell’impegno e del lavoro svolto rispondendo alla propria vocazione, che è chiamata di Dio a diventare ciò che si è. Insegna Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate che lo sviluppo – la cui dimensione integrale va peraltro al di là dell’economia – anche nel suo aspetto economico è essenzialmente una vocazione: ma «dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall’altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo» [48].
La moderazione e l’avversione alle utopie ereditate da sant’Alfonso insegnano che non vi è nessuna garanzia, nessun automatismo che garantisca il successo come esito del lavoro ben fatto. Ci si santifica rispondendo alla propria vocazione a prescindere dall’esito, anzi rimanendo in una libertà dall’esito che conferisce al lavoro un carattere più pacato e umano, al di là della freddezza gelida che caratterizza una certa ascetica puritana del capitalismo nord-europeo.
La differenza fra l’etica weberiana dell’esito, in cui centrale è il successo, e l’etica cattolica della santificazione del lavoro, in cui centrale è la risposta alla vocazione, induce, fra l’altro, a considerare con cautela le letture neo-weberiane, oggi venute di moda, anche di personaggi contemporanei – come san Josémaría Escrivá de Balaguer (1902-1975), fondatore dell’Opus Dei, uno spagnolo legato all’Italia da molteplici relazioni – che nel secolo XX, ma radicandosi nella stessa tradizione, hanno posto al centro del loro magistero spirituale la santificazione del lavoro e delle professioni [49].
In terzo luogo – e non si tratta di un aspetto secondario – l’ethos nazionale italiano mantiene, di fronte alla modernità e principalmente a causa della presenza in Italia del centro visibile della Chiesa romana, il suo tradizionale carattere cattolico nel senso etimologico del termine, cioè universale. Benché «universalismo» sia una parola che può assumere una pluralità di significati, la si può utilizzare per descrivere un aspetto specifico dell’ethos italiano: la tenace resistenza che l’Italia – nonostante tentativi risorgimentali e una più massiccia, ma mai popolare, retorica fascista – ha opposto a qualunque forma di nazionalismo di tipo esclusivista o escludente.
L’universalismo cattolico, in questo senso, non è sempre facile da comprendere, e ai non italiani può sembrare talora scarsa attenzione alla patria. In realtà l’universalismo cattolico si oppone da una parte al nazionalismo deteriore, dall’altra al cosmopolitismo illuminista e all’internazionalismo marxista. L’universalismo cattolico italiano è un’attenzione alla propria patria che non esclude l’apprezzamento di quanto di positivo si trova in altre esperienze nazionali, e che rimane aperto al confronto e al dialogo.
A monte dell’universalismo cattolico vi è un amore per le differenze concrete, tutte apprezzate nelle loro caratteristiche uniche, nelle loro piccole storie parziali, che vanno a comporre la grande storia globale delle nazioni e degli uomini. Il nazionalismo deteriore, il cosmopolitismo e l’internazionalismo hanno dopo tutto in comune un disprezzo per le differenze e il riferimento a un unico presunto tipo ideale di persona e di società.
Naturalmente, ogni medaglia ha il suo rovescio. Costituirebbe un’operazione ideologica –questa sì ingenuamente nazionalista – un’esaltazione dell’ethos nazionale italiano riformulato di fronte ai processi della modernità, come se questo ethos comportasse soltanto aspetti positivi e dovesse garantire automaticamente lo sviluppo di un Paese pacifico e felice. Ogni ethos nazionale ha i suoi pregi e i suoi difetti. Così in Italia il realismo e la resistenza ai grandi sogni e alle utopie possono trasformarsi facilmente in uno scetticismo corrosivo, che non è disponibile a pensare in grande e ad affrontare progetti a lunga scadenza.
La libertà dall’esito può degenerare in apatia e perfino in fatalismo. L’apertura universalistica e cattolica può implicare una rinuncia a far valere le proprie ragioni, uno spirito di compromesso a tutti i costi che ha caratterizzato, per esempio, le stagioni peggiori della nostra politica estera. Ma – pure nella consapevolezza dei suoi aspetti meno positivi, nei cui confronti è giusto vigilare – l’ordinato sviluppo di una nazione può soltanto avvenire nella fedeltà al suo ethos. Un ethos nazionale, radicato in una tradizione secolare, non può essere cambiato – come vorrebbero gli utopisti di tutti i tempi e di tutti i Paesi – come si cambia d’abito o di camicia.
3. Ethos, unità, egemonia
L’ethos italiano è stato dunque riformulato in un modo creativo di fronte alle sfide della modernità, mantenendo il radicamento nella tradizione cattolica e sviluppando così un’identità nazionale diversa da quella, descritta da Weber, di alcuni Paesi a maggioranza protestante. Questo ethos è riuscito a governare il processo di modernizzazione dell’Italia? La risposta non può che essere sfumata, e implica una distinzione fra il popolo e le élite.
A livello popolare l’ethos cattolico ha certo governato, fra luci e ombre, la trasformazione che ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più importanti, almeno dal punto di vista economico, dell’Occidente contemporaneo. La transizione è stata governata in modo non traumatico, mantenendo il realismo tipico dell’ethos cattolico e il rifiuto delle utopie, e senza perdere il collegamento con le tante tradizioni e peculiarità locali delle diverse Italie.
D’altro canto – per una serie di ragioni del resto ampiamente note – le élite e i «poteri forti» hanno cercato di guidare il processo di modernizzazione dell’Italia – nelle sue dimensioni politiche, economiche e culturali – contro l’ethos nazionale cattolico, pur prevalente nella popolazione, e sotto la forte influenza del partito anti-italiano. Il processo di formazione dell’ethos nazionale che mi sono sforzato di descrivere mostra come l’Italia fosse unita, proprio intorno a questo ethos e al rifiuto di popolo – non solo di vertice e di prìncipi – che gli italiani opposero alla Riforma protestante nel secolo XVI, ben prima del 1861.
Il partito anti-italiano ha sognato per secoli una rivincita rispetto alla sconfitta che gli italiani avevano inflitto alla Riforma nel Cinquecento, impedendole di varcare le Alpi. Non fu il partito anti-italiano a inventare l’idea di un’unità politica dell’Italia: anche altre correnti di pensiero ne vedevano vantaggi, nel contesto politico ed economico internazionale del secolo XIX. Ma fu questo partito a egemonizzare la forma che l’unità prese con il Risorgimento, abito unico e centralista – mentre altri pensavano a un cauto federalismo, rispettoso delle ricchezze dell’Italia preunitaria – imposto a un Paese unito dal suo ethos cattolico ma diverso nelle sue cento peculiarità locali.
Per imporre all’Italia questo abito non si poteva che negarne l’ethos, cioè negare la storia e le tradizioni concrete cercando di sostituirle – anche attraverso l’opera della scuola di Stato – con il modello astratto e utopistico di una nazione nuova, studiata a tavolino secondo ideali d’ingegneria sociale tipicamente massonici [50].
E lo sforzo, spesso brutale, di vestire tutti gli italiani con lo stesso abito di legno distrusse tradizioni, culture e anche economie che – come quella del Regno delle Due Sicilie, e a ulteriore smentita della vulgata pseudo-weberiana secondo cui il progresso economico avrebbe potuto affermarsi solo nei Paesi protestanti – non erano affatto in rovina prima del 1860 [51], ma furono mandate in rovina dopo per ragioni ampiamente ideologiche.
Sono temi che dovrebbero indurre a un riesame del rapporto fra l’ethos italiano e le case regnanti dell’Italia preunitaria, a partire – per tradizione e dimensioni del regno – proprio da quella monarchia delle Due Sicilie la cui storia è stata oggetto di una clamorosa opera di diffamazione e di mistificazione che ha voluto abbattersi con particolare violenza su un mondo che aveva dato un contributo di speciale rilievo alla cultura cattolica italiana ed europea.
Lo stesso studio delle vicende pre e post-unitarie di Casa Savoia è interessante, in quanto fin dal XVI secolo la dinastia sabauda presenta un impasto singolare di cattolicesimo e di esoterismo. I Savoia rinascimentali, in cui sono presenti figure che hanno aspirazioni di santità e favoriscono la Chiesa, al tempo stesso costruiscono un mito per accreditarsi fra le case reali europee: quella della loro discendenza dai faraoni egiziani, che s’inserisce nel clima rinascimentale di riscoperta di spiritualità pagane e precristiane e inaugura uno speciale rapporto fra Torino e la passione per l’antico Egitto [52].
Ancora, nella corrispondenza a cavallo fra secolo XVII e XVIII tra il beato Sebastiano Valfré C.O. (1629-1710) e Vittorio Amedeo II (1666-1732), personaggio cruciale che trasforma il ducato di Savoia in regno e di cui Valfré è confessore, si nota tutta l’ambivalenza del sovrano sabaudo, che da una parte manifesta sincere aspirazioni cattoliche, dall’altra si circonda di maghi e di astrologi le cui attività sono state a suo tempo ricostruite dalla storica Virginia Carini Dainotti (1911-2003)[53]. Quest’ambivalenza di Casa Savoia, fra cattolicesimo e forme di esoterismo almeno pre-massoniche, ha quindi radici molto antiche e si manifesta poi in modo evidente nel secolo XIX.
Dal Risorgimento in poi – certo a causa anche di errori gravi dello stesso movimento cattolico [54] – l’egemonia economica, culturale e politica è stata esercitata da élite che condividevano largamente, anche se non sempre e non ovunque, il pregiudizio che collegava l’ethos cattolico all’arretratezza dell’Italia, e cercavano quindi di sostituire questo ethos con altre forme che avrebbero dovuto unire gli italiani ma risultavano di scarsa presa popolare, perché studiate a tavolino e ispirate a esperienze di altri Paesi, difficilmente esportabili nel nostro. Persuase a ragione che l’ethos italiano vivesse nei localismi e nelle peculiarità regionali, queste élite sono state costantemente centraliste, né il movimento cattolico ha avuto la forza d’imporre un discorso federalista, che pure si trovava nei testi di riferimento della sua dottrina sociale.
Gli sforzi per proporre un ethos alternativo a quello tradizionale italiano e cattolico, che potesse avere un qualche consenso popolare, sono però costantemente falliti, spesso in modo patetico. Così è stato per l’ethos laico-risorgimentale [55]: il tentativo di costruire una religione laica del piccolo patriottismo e dei buoni sentimenti, esemplificato da Cuore di Edmondo De Amicis (1846-1908), dove certo vi è ancora un’eco, ma davvero troppo modesta, del tradizionale buon senso italiano.
Così è stato, ancora, per il tentativo di una parte del fascismo di costruire una religione e perfino una mistica nazionale sganciante dall’eredità cattolica, con una liturgia che aveva – come ricorda il sociologo americano Robert N. Bellah – «i suoi abiti, il suo stile epistolare, le sue formule, i suoi gesti di saluto, i suoi riti che accompagnavano fino alla tomba» [56] e che si riassumeva nell’immagine plastica dei gerarchi che saltavano nel cerchio di fuoco: una ritualità in cui Benedetto Croce (1866-1952) vedeva, preoccupato, «una messa nera» [57], ma che a noi oggi rischia di sembrare piuttosto un’opera buffa.
Il fascismo, per la verità – ponendosi, come ha notato lo stesso Bellah, sulla scia di Gabriele D’Annunzio (1863-1938) –, volendo abbandonare consapevolmente l’ethos tradizionale, doveva sostituirlo con un ethnos. Ma l’operazione non poteva che conoscere una rapida crisi di credibilità, dal momento che da noi non esisteva una vera e propria tradizione di apologia del carattere etnico nazionale come invece si era manifestata, almeno a partire dal Romanticismo, in Germania, così come per fortuna in Italia non aveva mai attecchito il razzismo.
Semmai, un consenso sociale diffuso si costruì più tardi intorno a figure trasfigurate da una stampa e di una letteratura popolare di vastissima diffusione come il tenente della polizia di New York Giuseppe «Joe» Petrosino (1860-1909), nato a Padula (Salerno) e assassinato dalla mafia a Palermo nel 1909, e più tardi il pugile Primo Carnera (1906-1967), la nazionale di calcio vincitrice dei titoli mondiali del 1934 e del 1938 e il «Grande Torino» – la squadra di calcio del Torino i cui componenti, dopo avere vinto cinque campionati italiani, persero quasi tutti la vita in un incidente aereo a Superga (Torino) nel 1949 –, il pilota automobilistico Tazio Giorgio Nuvolari (1892-1953) e i ciclisti Fausto Coppi (1919-1960) e Gino Bartali (1914-2000).
I fascicoli popolari su Petrosino, in particolare, furono tirati a milioni di copie [58]; e il tricolore – che per molti, specie al Sud, aveva a lungo evocato ricordi sgradevoli – cominciò a sventolare per le strade e le piazze di tutta Italia in occasione dei grandi successi sportivi degli anni 1930 e 1940.
Insieme alla Prima guerra mondiale – che fu effettivamente vissuta in chiave patriottica anche da molti che non ne comprendevano o non ne condividevano le ragioni politiche – la forza della letteratura popolare, della stampa e della radio «fece gli italiani» intorno a eroi con la cui causa tutti potevano identificarsi, come Petrosino o i campioni dello sport. Questi momenti di aggregazione, che sarebbe errato sottovalutare sul piano della psicologia sociale, non erano però di per sé sufficienti a proporre contenuti e a riproporre un ethos unitario degli italiani.
Il crollo del fascismo e del suo tentativo di sostituire l’ethos con l’ethnos apre la strada a una rinnovata presenza di cattolici nel cuore della vita politica nazionale. Ma, nonostante la lunga permanenza al governo della Democrazia Cristiana, l’egemonia culturale rimane saldamente nelle mani di élite che continuano a ricercare un ethos alternativo, e che mantengono fermo il vecchio pregiudizio anti-italiano, al quale finisce per subordinarsi anche una parte consistente dei cattolici impegnati in politica, dominati da esponenti della scuola cattolico-democratica convinti in cuor loro che in effetti l’ethos della Riforma protestante sia superiore a quello barocco del Concilio di Trento e della Controriforma. In questa situazione è ancora una volta rimandata la questione del federalismo – la quale continua a rimanere più presente nelle pagine dei manuali di dottrina sociale della Chiesa che nelle concrete proposte politiche dei cattolici italiani – anche se, rispetto all’anteguerra, qualche risultato è almeno conseguito nel campo delle autonomie locali.
La domanda di federalismo cresce però in tutta Europa, e in Italia esplode in modo tumultuoso con la fondazione della Lega Nord nel 1982. Da allora inizia una nuova transizione, in cui è a tutti chiaro che delle domande di federalismo si dovrà obbligatoriamente tenere conto. Sono stato fra i primi a organizzare un convegno in un’università italiana, a Torino, in cui sulla Lega Nord e sui suoi simboli si confrontavano sociologi della religione di diversi Paesi, e a pubblicarne gli atti nel 1993 [59].
In quell’occasione, oltre a sottolineare il ruolo positivo della Lega nel rimettere la questione del federalismo al centro del dibattito politico italiano, esprimevo una certa preoccupazione per le affermazioni di alcuni esponenti leghisti che affermavano apertamente di voler fondare il loro nuovo progetto politico non su un ethos ma su un ethnos.
Certamente la Lega è cambiata rispetto al 1993, ma qui è importante riflettere su un elemento importante. Anche un certo fascismo aveva cercato di sostituire l’ethos con l’ethnos, ma il progetto della Lega delle origini non può essere paragonato a quello fascista. Anzi, la Lega si diceva antifascista, perché identificava il fascismo con il centralismo e l’anti-federalismo.
Il fascismo cercava d’inventare un ethnos «italiano», mentre la Lega di quegli anni andava a cercare i tanti ethnos locali «padani» nelle caratteristiche locali di Varese, di Bergamo, delle valli del Cuneese e così via. La ricerca procedeva talora in modo incerto, ma dove non vi erano – o si superavano – pregiudizi ideologici cercando gli ethnos locali non si poteva che ritrovare l’ethos.
Perché le caratteristiche che avevano dato vita al popolo varesino, cuneese o bergamasco – per poco che si scavasse nelle tradizioni locali – non potevano che fare riferimento all’eredità cattolica, ai santi, ai santuari mariani: presenze ben più forti rispetto a più antiche eredità precristiane o «celtiche» che del resto, ove esistevano, erano state incorporate e reinterpretate dal cristianesimo. L’incontro fra ricerca leghista dell’ethnos e riscoperta dell’ethos cattolico era dunque in un certo senso inevitabile, ed è di fatto in molti luoghi avvenuto.
Si poneva e si pone così ancora una volta – in un nuovo processo, che fa eco sul piano politico alla più ampia transizione culturale dal moderno al postmoderno – il problema se l’ethos nazionale, ancora forte e radicato a livello popolare, sia capace di governare il cambiamento. A questo proposito il bipolarismo che la legislazione elettorale della cosiddetta Seconda Repubblica va sempre più chiaramente instaurando nel nostro Paese pone gli italiani di fronte a due progetti alternativi.
Vi è, da una parte, un blocco di sinistra che continua a essere egemonizzato dal partito anti-italiano, il quale collega l’ethos nazionale all’arretratezza e sogna un’Italia omologata a un ethos cosmopolita senza tradizione né radici, o al mitico ethos «protestante» dell’Europa del Nord. Che questo partito anti-italiano sia forte, e svolga sul corpo sociale una pedagogia quotidiana, dovrebbe essere chiaro a chiunque legga il quotidiano la Repubblica, dove il tentativo di separare l’Italia dal suo ethos tradizionale cattolico domina tutte le pagine, dalla politica fino alla cronaca, alla cultura e qualche volta perfino allo sport.
Il blocco di sinistra – dove sono presenti anche cattolici «adulti» che soffrono di evidenti complessi d’inferiorità rispetto alla lettura anti-italiana della storia nazionale – oggi si dichiara talora federalista, consapevole della necessità d’intercettare la domanda di federalismo che sale dal Paese reale affinché non prenda diverse strade elettorali.
Ma – se si guarda alla tradizione di cui il blocco progressista e il partito anti-italiano sono eredi – si tratta di un federalismo posticcio, dell’apertura di nuovi sportelli in periferia di uno Stato burocratico, statalista e centralista. Il vero federalismo – un federalismo capace di risanare la ferita centralista aperta nel corpo sociale italiano all’epoca del Risorgimento – non consiste nel moltiplicare gli sportelli regionali dello Stato, all’insegna di una crescita della sua presenza sul territorio, ma nel far decrescere l’invadenza delle strutture centrali perché – mentre lo Stato arretra – possano avanzare le libertà concrete, la società, i corpi intermedi, secondo il noto slogan della dottrina sociale della Chiesa formulato da mons. Johannes Messner (1891-1984): «tanta libertà quanta è possibile, tanto Stato quanto è necessario» [60].
Vi è poi in Italia un blocco alternativo alla sinistra, che – almeno nelle dichiarazioni di principio, e senza escludere fughe in altre direzioni di qualche suo libertario esponente, più interessato a «fare futuro» che a mantenere il contatto vivo con le radici – si richiama all’ethos nazionale e non condivide il sogno del partito anti-italiano di sostituirlo con un nuovo ethos studiato a tavolino. Questo blocco accoglie chi si considera erede da una parte di un liberalismo non «perfettista» e disposto a rinunciare ai suoi momenti utopistici, dall’altra di una destra non chiusa a una critica dell’ipoteca centralista che aveva caratterizzato il fascismo.
E proprio la rinuncia al centralismo permette l’integrazione in questo blocco di forze che nascono dalla scelta federalista e la messa all’ordine del giorno di un federalismo reale, sempre presente nella teoria politica di chi si è opposto al partito anti-italiano ma mai seriamente avviato a realizzazione nella pratica. In questo blocco può liberamente muoversi, certo coabitando con altre identità, una presenza dei cattolici in politica liberata dai complessi d’inferiorità cattolico-democratici rispetto alla lettura anti-italiana della nostra storia nazionale.
Il punto di forza di questo schieramento è proprio la sua omogeneità rispetto all’ethos nazionale, che esiste, non è da inventare, nasce da una tradizione fatta di luci e di ombre, ma è ancora prevalente nel Paese ed è la base da cui partire per governare nella serenità e nella pace sociale qualunque complessa transizione.
Non ci si deve tuttavia nascondere che l’ethos nazionale italiano si radica in una storia precisa. Nasce dall’esperienza dei cattolici di fronte alla modernità, dal rifiuto corale e di popolo della Riforma, dalla fatica quotidiana di preservare le caratteristiche di una mentalità che si oppone alle utopie e alle ideologie «perfettiste». Altre famiglie spirituali – il liberalismo moderato e la destra italiana, dopo un complesso inventario dell’eredità del fascismo e del neofascismo [61] – hanno accettato questo ethos e lo hanno, in diversa misura, fatto proprio.
Ma ogni discorso di riaffermazione dell’ethos italiano che non sia garantito da un riconoscimento esplicito delle radici cristiane della nazione sarà inevitabilmente poco credibile, e si esporrà alle stesse obiezioni che il Magistero del venerabile Giovanni Paolo II (1978-2005) e di Benedetto XVI ha ripetutamente rivolto all’Unione Europea e ai suoi progetti costituzionali che hanno voluto escludere ogni riferimento al cristianesimo.
Contro il partito anti-italiano, la fedeltà all’ethos nazionale – che, come ogni tradizione, ha bisogno di essere continuamente rimeditata e aggiornata alle esigenze dell’ora presente – è una bussola che può sempre indicare la via, e tenere unita l’Italia in momenti storici particolarmente difficili. Purché non ci si vergogni delle proprie radici, e non si abbia timore di riaffermare la verità secondo cui non si può neppure cominciare a percepire e formulare l’ethos nazionale italiano prescindendo dalla fede cattolica. «Infatti il popolo, che smette di sapere quale sia la propria verità, finisce perduto nei labirinti del tempo e della storia» [62]
Note
[1] Cfr. Alberto Cabella – Oscar Mazzoleni (a cura di), Gobetti tra riforma e rivoluzione, Franco Angeli, Milano 1999.
[2] Robert Paris, Piero Gobetti et l’absence de Réforme protestante en Italie, in A. Cabella – O. Mazzoleni (a cura di), op. cit., pp. 25-42 (p. 25).
[3] Ibidem.
[4] Cfr. Augusto Vera, Il Cavour e la libera Chiesa in libero Stato, Stamperia della Regia Università, Napoli 1871.
[5] Cfr. Angelo Camillo de Meis, Dopo la laurea, 2 voll., G. Monti, Bologna 1868-1869.
[6] Cfr. Raffaele Mariano, Il Risorgimento italiano secondo i principii della filosofia della storia, G. Civelli, Firenze 1866.
[7] Jean-Charles Léonard Simonde de Sismondi, Histoire des républiques italiennes du Moyen age, 20 voll., H. Nicolle – Treuttel et Würtz, Parigi 1809-1818 (trad. it. Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo, 16 voll., Francesco Pagnoni, Milano 1817-1819).
[8] L’edizione di riferimento è quella in Alessando Manzoni, Opere varie di Alessandro Manzoni, edizione riveduta dall’Autore, Milano, Stabilimento dei Fratelli Rechiedei, Milano 1870.
[9] Cfr. Alessandro Santoni, Sismondi e il pensiero sociale cattolico, in Piero Barucci (a cura di), I cattolici, l’economia, il mercato, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro) 2008, pp. 19-33.
[10] Cfr. Mario Missiroli, La monarchia socialista. Estrema destra, Laterza, Bari 1914.
[11] R. Paris, op. cit., p. 28, dove si ricorda che è presente nella biblioteca di Gobetti una copia de La monarchia socialista che fu «acquistata il 1° febbraio 1919 e […] presenta delle sottolineature» (ibid.).
[12] Cfr. Ernest Renan, La Réforme intellectuelle et morale, Michel Lévy Frères, Parigi 1871 (trad. it. La riforma intellettuale e morale della Francia, a cura di Regina Pozzi, Istituto storico italiano per l’eta moderna e contemporanea, Roma 1991).
[13] Tomáš Garrigue Masaryk, La Russia e l’Europa. Studi sulle correnti spirituali in Russia, trad. it. Ricciardi, Napoli 1922.
[14] Lev Trotsky, Professor Masaryk über Russland, in Der Kampf (Vienna), n. 11-12, dicembre 1914, pp. 519-527 (trad. it. La Russia pre-rivoluzionaria, ne Il Grido del Popolo [Torino], 19-10-1918, ripubblicata come Lo Spirito della civiltà russa in L’Ordine Nuovo [Torino], anno II, n. 6, 19 giugno 1920, pp. 43-45).
[15] Max Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, in Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik, vol. XX, 1904, pp. 1-54, e vol. XXI, 1905, pp. 1-110 (trad. it. in Idem, Sociologia della religione, 2 voll., Edizioni di Comunità, Milano 1982, vol. I, pp. 17-194).
[16] Secondo R. Paris, op. cit., l’influenza di Weber su Gobetti è pressoché inesistente. La posizione contraria è sostenuta da Giorgio Spini, L’eco in Italia della Riforma mancata, in A. Cabella – O. Mazzoleni (a cura di), op. cit., pp. 43-58. Per Spini, peraltro, al di là delle letture, le tesi sul protestantesimo di Gobetti prendono una nuova vivacità quando il pensatore torinese «incontra sulla sua strada il protestantesimo in carne ed ossa» (ibid., p. 49) conoscendo il filosofo calabrese protestante Giuseppe Gangale (1898-1978).
[17] Jaime Balmés, El protestantismo comparado con el cattolicismo, 3 voll., Antonio Brusi, Barcellona 1842-1844 (trad. it. Il protestantismo paragonato col cattolicismo nelle sue relazioni con la civilta europea, 3 voll., Tipografia Ducale, Parma 1846-1857).
[18] M. Weber, op. cit., p. 78.
[19] Ibidem.
[20] Ibid., p. 79.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] Ibidem.
[24] Ibidem.
[25] Amintore Fanfani, Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, Vita e Pensiero, Milano 1934. Il testo ebbe una seconda edizione nel 1944 ed è stato riedito a cura di Piero Roggi (Marsilio, Venezia 2005). Cfr. pure, in collegamento con questa edizione, AA. VV., Cattolicesimo, protestantesimo, capitalismo. Atti del convegno per la presentazione della nuova edizione del libro di Amintore Fanfani “Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo”, Fondazione Amintore Fanfani, Arezzo 2006. L’opera di Fanfani ha suscitato tra l’altro un notevole interesse negli Stati Uniti, dove è stata più volte tradotta, pur avendo ricevuto dure critiche dal pensatore cattolico Michael Novak, il quale – anche se condivide alcune critiche a Weber – vi scorge un pregiudizio anti-capitalista e anti-anglosassone (cfr. Michael Novak, The Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism, Simon & Schuster, New York 1993). Sul lavoro di Fanfani e la sua fortuna cfr. pure Omar Ottonelli, Amintore Fanfani storico del pensiero economico: il metodo e l’opera, tesi di laurea in Economia, Università di Firenze, anno accademico 2004-2005, pp. 95-117.
[26] Werner Sombart, Der Bourgeois. Zur Geistesgeschichte des modernen Wissenschaftmenschen, Duncker & Humblot. Monaco – Lipsia 1913 (trad. it. Il Borghese. Lo sviluppo e le fonti dello spirito capitalistico, con una Presentazione di Franco Ferrarotti, Guanda, Parma 1994); Idem, Luxus und Kapitalismus, Duncker & Humblot, Monaco – Lipsia 1913 (trad. it. Lusso e capitalismo, con una Introduzione di Mauro Protti, Unicopli, Milano 1988).
[27] M. Weber, op. cit., p. 81.
[28] Ibidem.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] In genere gli storici del protestantesimo hanno considerato – con poche eccezioni – le tesi di Weber con notevole scetticismo, a differenza dei sociologi: cfr. i saggi raccolti in Hartmut Lehmann – Guenther Roth (a cura di), Weber’s Protestant Ethic. Origins, Evidence, Contexts, Cambridge University Press, Cambridge – New York 1993. Le posizioni di Weber andrebbero anche inserite nell’ambito della politica ecclesiastica e culturale tedesca del suo tempo, dove le tesi weberiane sembrano aver giocato un ruolo piuttosto ambiguo, perché il sociologo era insieme un nazionalista tedesco e un anglofilo. Uno studio parallelo della recezione di Weber nella politica religiosa e culturale in Germania e in Italia potrebbe dare frutti di non poco interesse.
[37] Cfr. sul punto, in sintesi, il breve saggio dello storico e filosofo americano Russell Kirk (1918-1994), Stati Uniti e Francia: due rivoluzioni a confronto, trad. it., a cura di Marco Respinti, Centro Grafico Stampa, Bergamo 1995. In diretta relazione al caso italiano, ugualmente in sintesi, cfr. Giovanni Cantoni, L’Italia tra Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, saggio introduttivo a Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995), Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, III ed. it. accresciuta. Cristianità, Piacenza 1977, pp. 7-50.
[38] Cfr. in particolare Colin Campbell, The Romantic Ethic and the Spirit of Modern Consumerism, Basil Blackwell, Oxford 1990. L’opera richiama volutamente nel titolo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Weber.
[39] Cfr. il mio L’ultimo viaggio di Tocqueville. L’“enciclica itinerante” di Papa Benedetto XVI sugli Stati Uniti d‘America, in Cristianità, anno XXXVI, n. 347-348, maggio-agosto 2008, pp. 3-16.
[40] Cfr. Dan Brown, Il simbolo perduto, trad. it., Mondadori, Milano 2009.
[41] Su cui cfr. il mio Il simbolo ritrovato. Massoneria e società segrete: la verità oltre i miti. Piemme, Milano 2010.
[42] Augusto Del Noce, I cattolici e il progressismo, Leonardo, Milano 1994, p. 61.
[43] Ibidem.
[44] Ibidem.
[45] Benedetto XVI, lettera enciclica Spe salvi del 30-11-2007, n. 24.
[46] Ibid., n. 21.
[47] Così Clemens Henze, voce Alfonso Maria de’ Liguori, in Bibliotheca Sanctorum, vol. I, Istituo Giovanni XXIII della Pontificia Università Lateranense, Roma 1961, col. 851.
[48] Benedetto XVI, lettera enciclica Caritas in veritate, del 29-6-2009, n. 16.
[49] Cfr., per una discutibile anche se tecnicamente ben costruita interpretazione neo-weberiana di questo genere, Joan Estruch, Saints and Schemers. Opus Dei and its Paradoxes, ed. ingl. ampliata, Oxford University Press, New York – Oxford 1995.
[51] L’opera polemica dell’economista e uomo politico barone Giacomo Savarese (1808-1884), Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Tipografia di Gaetano Cardamone, Napoli 18622 (ristampa: Controcorrente, Napoli 2003), è al riguardo interessante ancora oggi.
[52] Cfr. Paolo Cozzo, La geografia celeste dei duchi di Savoia. Religione, devozioni e sacralità in uno Stato di età moderna (secoli XVI-XVII), il Mulino, Bologna 2006.
[53] Cfr. Virginia Dainotti, Veggenti ed astrologi intorno a Vittorio Amedeo II, in Bollettino storico-bibliografico subalpino, n. 34 (1932), pp. 263-282.
[54] Cfr. Marco Invernizzi, Il movimento cattolico in Italia dalla fondazione dell’Opera dei Congressi all’inizio della seconda guerra mondiale (1874-1939), 2ª ed. riveduta, Mimep-Docete, Pessano (Milano) 1995.
[55] Cfr. sul punto Arnaldo Nesti, Dimensioni e problemi dello studio dell’Italia religiosa contemporanea, in Religioni e Società, anno IV, n. 7, gennaio-giugno 1989, pp. 5-25.
[56] Robert N. Bellah, Le cinque religioni dell’Italia moderna, in Fabio L. Cavazza – Stephen R. Graubard (a cura di), Il caso italiano, Garzanti, Milano 1974, pp. 439-468 (p. 459).
[57] Benedetto Croce, Storia d’Europa nel secolo XIX, Laterza, Bari 1972, p. 300.
[58] Cfr. il DVD da me curato Legalità, criminalità organizzata e patriottismo: la costruzione del mito di Joe Petrosino nella letteratura popolare tra le due guerre mondiali, I.D.I.S., Palermo 2009.
[59] Cfr. M. Introvigne (a cura di), Tra Leghe e nazionalismi. “Religione civile” e nuovi simboli politici, Effedieffe, Milano 1993.
[60] Johannes Messner, Etica social, política y económica, a la luz del derecho natural, Rialp, Madrid 1967, p. 338.
[61] Sulla complessità fin dalle origini del neofascismo italiano, il quale cerca di tenere insieme correnti disparate unite quasi solo dal comune riferimento «nostalgico» e dall’orgoglio di «non avere tradito» cfr. Giuseppe Parlato, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948, il Mulino, Bologna 2006.
[62] Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura nel Centro Cultural de Belém, Lisbona, 12-5-2010. Disponibile sul sito Internet della Santa Sede all’indirizzo abbreviato http://tinyurl.com/37wsv92.