Lodovico Festa ricostruisce la tela dei «sistemi d’influenza» tra gli Stati Uniti e il nostro Paese: è un’analisi appassionata e serrata che muovendo dall’età mazziniana e arrivando sino allo sfacelo dell’attuale crisi economica offre nuove illuminanti linee d’interpretazione. Lodovico Festa con Giulio Sapelli ha appena pubblicato nella collana «Dialoghi sull’Apocalisse» delle Edizioni Goware l’e-book Obama, America e il partito moderno. Per Ares, Festa è autore di Ascesa & declino della Seconda Repubblica (Milano 2012, pp. 240, euro 14).
Lodovico Festa
E tralasciamo di parlare dei colloqui tra Giorgio Napolitano e Barack Obama. In una situazione in cui la nostra sovranità nazionale si è indebolita, paradossalmente le analisi (e le chiacchiere) sui sistemi di influenza americani non sono più solo degli ambienti estremistici che vedevano complotti da «doppio Stato» di Washington dietro ogni caso.
In questo contesto per non aiutare ragionamenti dietrologici è utile richiamare elementi dei rapporti storicamente definiti tra noi e gli Stati Uniti. Sin dal processo di formazione del nostro Stato unitario, Washington si legò, anche per la sua natura di potenza marinara, al porto di Genova e anche per questo motivo – oltre che per il militante repubblicanesimo del suo ceto politico — a Giuseppe Mazzini e ai suoi. Né va scordato il prestigio acquisito Oltreatlantico da Giuseppe Garibaldi per l’impegno nella lotta di liberazione dei popoli sudamericani. Né dimenticare le radici antipapiste della nuova nazione, la cui formazione fu guidata da puritani britannici segnati dall’odio per la Chiesa cattolica.
E sarà, in questo senso, proprio la Repubblica mazziniana di Roma nel 1848 ad accendere le passioni della politica statunitense, determinando una fase di freddezza con il Regno del Piemonte con cui pure – via Genova – vi erano cordiali rapporti. Il clima migliorerà nella seconda metà dell’Ottocento, quando le possenti migrazioni di irlandesi, polacchi e italiani, modificheranno la composizione religiosa della società statunitense.
Presto i cattolici diventeranno soggetto non trascurabile della vita americana, anche se il nucleo wasp (bianco, anglosassone e protestante) manterrà quasi fino a oggi un’egemonia decisiva. E così si aprirà anche qualche rapporto con il Vaticano: un nunzio apostolico, monsignor Gaetano Bedini, verrà inviato a tastare una via di comunicazione con la giovane nazione. Ma, accanto a qualche buon risultato, dovrà costatare come il clima antipapista fosse ben solido in parti centrali delle élite e del la popolazione americane: contro di lui si scatenerà una campagna di odio animata dalla leggenda, precocemente danbrowniana, secondo la quale il cardinale, in attività precedenti in una legazione pontificia, avrebbe «scorticato» 50 eretici.
Il 1918, Wilson & la grande svolta
Una più seria svolta nelle relazioni tra i due Stati sarà determinata dalla fine della Prima guerra mondiale, quando il 28° presidente, Woodrow Wilson, assumerà centralità nel Vecchio continente grazie al contributo decisivo che le armate americane, pur in campo solo dal 1917, avevano dato al successo delle Potenze alleate.
Wilson avrà un ruolo negativo nell’esaltare lo spirito nazionalistico in giro per l’Europa (anche la vicenda di Fiume che alla fine contribuirà a dare radici al fascismo nascerà in parte dall’astratto idealismo dell’uomo della Casa Bianca di quegli anni) ma positivo nel sostenere il piano Dawes di ricostruzione anche della Germania contro la vendicativa impostazione anglofrancese che, come profeticamente scrisse nel suo The economie consequences of peace John Maynard Keynes (allora giovane membro della delegazione britannica alle trattative di Versailles), preparava la catastrofica Seconda guerra mondiale.
È nell’ambito di quelle vicende politico-finanziarie che la grande banca di affari JP Morgan assumerà un ruolo di raccordo tra Roma e Washington, poi conservato e integrato negli anni dei dopoguerra dall’attività di altre grandi banche d’affari. E sarà la Fiat l’impresa italiana che più sfrutterà questo rapporto. Il fascismo non costituisce fino alla Seconda guerra mondiale elemento decisivo di rottura con Washington anche se Oltreoceano saranno ospitati tanti avversari del regime, tra i quali Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini, che con la Mazzini society costituirà punto di riferimento importante sia per gli ambienti laicisti borghesi sia per quelli riformisti socialisti. Dopo le leggi sulla razza arriverà anche uno dei più grandi fisici del mondo, Enrico Fermi.
Lo stesso Franklin D. Roosevelt però guarderà per una fase con attenzione all’esperienza mussoliniana: in particolare l’Iri apparirà scelta attraente di economia mista per affrontare la crisi del ’29 senza cedere terreno alle sirene del comunismo, la dottrina corporativa solleverà interesse in classi dirigenti intente a evitare l’inasprirsi di conflitti di classe, lo stesso prefetto Cesare Mori verrà considerato esempio da studiare sul come combattere una mafia che con criminali di origine italiana tipo Al Capone poneva gravi problemi alla società americana. In questo quadro Alberto Beneduce, «fratello» messo sotto accusa dalla massoneria francese per i rapporti con un nemico dei liberi muratori come Benito Mussolini, troverà nelle logge statunitensi interlocutori attenti (e assolventi).
E poi, proprio suo genero Enrico Cuccia, peraltro passato da tempo all’antifascismo militante, nel 1942 diventerà ambasciatore di selezionati ambienti antimussoliniani, incontrando messi del governo americano nel 1942 a Lisbona. Né probabilmente è un caso che il cervello della missione del governo Badoglio a New York nel 1944 per trattare i futuri rapporti economici tra italiani liberati dal fascismo e americani sia Raffaele Mattioli, anche lui da tempo militante antifascista e insieme con la sua Comit punta di lancia del sistema Iri.
Dalla diffidenza all’alleanza
Ma accennando alle iniziative di Cuccia e Mattioli si arriva alla Seconda guerra mondiale, avvenimento che cambierà radicalmente i rapporti tra Roma e Washington: da relazioni a tratti non cattive si passerà a una stretta alleanza che vedrà a lungo gli italiani (governativi) tra gli interlocutori più fedeli degli Stati Uniti. Si tratterà anche di un passaggio di consegne tra inglesi e americani.
I primi per i loro rapporti con i Savoia hanno l’iniziativa nella fase iniziale: Winston Churchill (d’intesa con Giuseppe Stalin e i suoi cominternisti italiani) punta sul re e su Pietro Badoglio litigando con l’uomo degli americani Carlo Sforza. Ma man mano la forza militare ed economica americana metterà in secondo piano Londra. Washington diverrà il vero punto di riferimento dello schieramento occidentale preoccupato dai vicini carri armati di Stalin.
L’incapacità degli inglesi di contrastare la guerriglia comunista nella guerra civile greca sarà il segnale del loro tramonto nel Mediterraneo, che si concluderà con il disastroso intervento anglofrancese nella crisi sul canale di Suez del 1956. In campo internazionale, Londra avrà ancora un ruolo negli accordi di Bretton Woods (pur non riuscendo a far prevalere le tesi più radicali) grazie al genio di Keynes ma poi, con Patto Atlantico e Piano Marshall, l’iniziativa sarà saldamente americana.
In una vera alleanza l’Italia (naturalmente quella governativa: l’opposizione di sinistra sarà saldamente legata a Mosca) svolgerà una preziosa funziona geopolitica per Washington: attenta a impedire tentazioni neutraliste in Germania, a tenere a freno il nazionalismo francese, a contenere le nostalgie imperialiste di Londra, a svolgere un ruolo di mediazione nel Mediterraneo e in Medio Oriente. In qualche modo Roma avrà verso russi (e cinesi) e nell’Onu funzione di ambasciatrice delle ragioni americane.
Guerra Fredda & Massoneria
La fase tra il 1948 e il 1989 è segnata, come ricorda nelle sue memorie Paolo Emilio Taviani, da ricorrenti pericoli di guerra: dal blocco di Berlino alla rivolta ungherese, all’intervento sovietico a Praga, sino al golpe dei militari filocomunisti in Portogallo e alla disputa sui missili balistici intercontinentali di fine anni Settanta.
Accanto agli aspetti geopolitici, vi è dunque l’aspetto «militare» dell’Alleanza, che — seppure la tesi del «doppio Stato» sia una sciocchezza — non mancherà di qualche iniziativa, come tipico delle cose militari, sbrigativa. Si considerino alcune annotazioni di Francesco Cossiga sulla P2: a metà degli anni Settanta, avvicinandosi la presenza dei comunisti all’area di governo e temendo per problemi nella sicurezza atlantica, l’ammiragliato della flotta degli Stati Uniti nel Mediterraneo prende un’iniziativa nel solo modo in cui gli americani sanno agire in certe circostanze: fondando una loggia massonica. Così racconta l’ex Presidente della Repubblica. E scegliendo -aggiungo io —, come talvolta avviene con Washington, un intrigante come Licio Gelli molto al di sotto della parte.
Naturalmente passare dal riconoscimento della sbrigatività delle esigenze militari americane alla ricostruzione di complotti misteriosi e organici fa parte di un complesso di media nazionali, non di rado nel passato ben orientato dal sistema disinformativo sovietico, per cui la P2 diventa lo scandalo del secolo mentre si fa finta di non vedere la manina bulgara nell’attentato a Giovanni Paolo II.
Accanto a geopolitica ed esigenze militari, i rapporti economici sono determinanti tra Italia e Stati Uniti: i soggetti sono quelli emersi già negli anni Venti, con un ruolo fondamentale nel secondo dopoguerra dell’asse Cuccia-Agnelli nel definire rapporti economici inter-atlantici che permettono, anche grazie a particolari condizioni concesse alla nostra economia, rapidi tassi di sviluppo. La benefica relazione comprende naturalmente anche costi: forse da qui un affossamento dell’industria informatica che aveva avuto un grande pioniere in Adriano Olivetti.
Cosi certe rinunce nell’industria elettronica: alcune polemiche sulla televisione a colori da parte di personalità con forti legami oltreatlantici (in sintonia con certo pauperismo berlingueriano) appaiono indicative.
Così il crollo dell’industria nucleare con l’indecente arresto di Felice Ippolito o quello della chimica di base affossata proprio dagli uomini più legati ad ambienti oltreatlantici nell’Eni. Mentre è proprio sul petrolio che si registrano costanti tensioni tra americani e italiani accusati prima con Enrico Mattei e poi con i successori di avere relazioni con russi, algerini, iraniani fuori da un sentiero ben concordato con l’industria americana del settore. Tensione che poi si riprodurrà anche negli anni Duemila.
Il sindacato Usa e il ruolo della Cisl
Se dall’economico si passa al sociale, fondamentale è il ruolo del sindacato americano nel dare risorse e idee (filtrate da un grande intellettuale come Mario Romani della Cattolica) alla Cisl, che costruisce un modello in grado di resistere alla possente Cgil solo grazie all’appoggio dell’Afl-Cio, organizzazione che peraltro avrà ruolo decisivo nel sostenere Giuseppe Saragat e il suo partito socialdemocratico.
A proposito del nostro sindacalismo cattolico, va ricordato come il ruolo della Chiesa nel contrastare il primo partito comunista dell’Occidente (nonché di resistere alla propaganda ateistica negli Stati nell’orbita sovietica dell’Est europeo) crea rapporti nuovi tra Stato americano e Vaticano: il cardinale Francis Joseph Spelmann, vescovo di New York, è stato tra i principali attori di questo legame tra fronte anticomunista, americani e Vaticano.
Nonostante che il cardinale poi fosse uno dei grandi sostenitori del primo presidente americano cattolico, John F. Kennedy, non gli riuscirà di arrivare a quel riconoscimento dello Stato Vaticano da parte dell’amministrazione americana a cui pure lavorò intensamente.
Un incontro storico: Wojtyla e Reagan
I rapporti diplomatici si instaureranno invece nella stagione di papa Giovanni Paolo II e Ronald Reagan: fu la battaglia in positivo non solo per contenere l’Urss, ma per favorire la libertà di grandi nazioni come la Polonia, che costruì legami speciali tradotti poi anche in scambi di ambasciatori.
In qualche modo alcuni elementi dell’antico antipapismo si verranno così attenuando: anche grazie a comuni riflessioni tra cristiani di diversa confessione sui temi della morale naturale, proposti innanzi tutto da Joseph Ratzinger prima come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede e poi come Papa. E dentro questo orizzonte, inquadrato dalla globalizzazione e dalla tendenziale fine dell’egemonia occidentale sul mondo, che si afferma la riflessione di intellettuali americani come Michael Novak sui rapporti tra personalismo cristiano e capitalismo, che trovano serie sponde anche in Italia. In campo culturale poi c’è anche una reciprocità d’influenza europea (e italiana) oltre a quella più evidente americana.
L’immaginario occidentale è segnato da film, musica, arte, architettura made in Usa (per non parlare dei prodotti che ne definiscono la cultura materiale: dalla Coca Cola ai McDonald all’iPod, a format e serie tv e così via) tanto che anche i figli di Mussolini, Vittorio per il cinema e Romano per il jazz, sono sedotti dalla cultura oltreatlantica. Ma la capacità egemonica dell’intellighenzia europea è trascinante anche per molti intellettuali americani.
Il vecchio modello di «influenza» messo in piedi a Parigi dal capo della propaganda del Comintern Willi Munzenberg (che arrivò tramite il brillante allievo Otto Katz a soggiogare anche Hollywood negli anni Trenta: Katz stesso verrà rappresentato in Casablanca nel personaggio di Victor Lazio) diventa particolarmente efficace, grazie alla lezione gramsciana, con i comunisti italiani.
Sedurre intellettualmente tanti intellettuali americani è un gioco da ragazzi per i nipotini di Palmiro Togliatti. Chi lavora per contrastare questa egemonia, dalla Cia ai gesuiti, è spesso sulla difensiva. La seduzione a fini di propaganda oggi più interna che internazionale (il movimento comunista è finito) resta eredità viva nell’Italia di oggi, e certe spontanee indignazioni sullo stato dell’Italia che si scatenano Oltreatlantico (o con periodici tipo l:‘Economist oltre la Manica) sono preparate da cucine romane.
Per di più la concorrenza tra Mediaset e il gruppo Murdoch ha fatto sì che il magnate australiano ben influente sulla stampa conservatrice Usa (dal minore New York Post all’eccelso Wall Street Journal) spesso contribuisca al mainstream contro il centrodestra italiano (al di là degli appigli che pur questi offre).
Molto del sistema post ’45 di relazioni descritte sinora arriva al capolinea tra il 1989 e il 1992, quando la base di questo «sistema» (il contrastare l’iniziativa sovietica) viene rimossa. L’amministrazione americana assume a questo punto comportamenti un po’ indifferenti alle conseguenze politiche che ne derivano. Come ha scritto il direttore della Cia di quel periodo, James Woolsey, i servizi americani raccolgono in quegli anni prove su illecite commissioni pagate in vari Paesi per ottenere appalti e segmenti di mercato, e le trasferiscono ai magistrati di diversi Paesi. Ciò crea qualche crisi politica in Belgio e in Spagna, poi riassorbite, è contrastato in Francia e vede il sacrificio di Helmut Kohl in Germania.
Tangentopoli: l’Italia allo sbando
In Italia combinandosi con una più diffusa crisi dello Stato, provoca una catastrofe: non «voluta» dagli americani (vedi anche certe testimonianze di diplomatici Usa raccolte da Maurizio Molinari) ma a cui hanno indirettamente contribuito. Simili effetti provoca la forte offensiva organizzata contro la mafia nel 1993 quando l’uscita dai controlli sia pure corrotti del regime sovietico, lancia l’organizzazione criminale russa su scala globale e l’Fbi si allarma e corre sbrigativamente a stopparla.
Rino Formica, allora al governo, racconta come nel 1992 il direttore del Bureau Louis Freeh incontrasse nostri ministri o funzionari senza che l’esecutivo ne fosse informato. Lo sbandamento di una nazione dall’importanza finanziaria e geotrategica come l’Italia avviene per qualche verso nell’indifferenza americana, forse anche per la convinzione che la storia fosse finita come predicava in quegli anni Francis Fukuyama.
In parte ciò avviene perché gli americani, al contrario degli inglesi (un tratto di repubblicanesimo contro tradizioni più classicamente imperialistiche), non cercano di costruire forze integralmente organiche alla loro influenza, ma tendono ad avere rapporti ufficiali con le forze politiche «alleate» e in più a contare «per capire» (soprattutto la confusa politica italiana) su singole persone amiche.
A lungo Giulio Andreotti è stato «amico fondamentale», per poi arrivare invece a una contrapposizione a partire dagli anni Ottanta. Altra figura di questo tipo è stato Francesco Cossiga. Dopo gli anni Settanta è essenziale il rapporto tra Henry Kissinger e Gianni Agnelli. Fra gli «amici» ci sono scelte di grandissima qualità (da Enrico Cuccia a Mario Draghi) e personalità assai fragili (in qualche modo Mario Segni e Monti).
C’è soprattutto un sistema di deleghe fiduciarie che consente a chi ne è investito di fare talvolta gli interessi propri piuttosto che quelli ragionevoli dello Stato e dell’economia americani (per non parlare di quelli italiani).
Verso la fine degli anni Novanta, con il prevalere di governi di sinistra sulle due sponde dell’Atlantico (Bill Clinton, Tony Blair, Gerhard Schroeder, Romano Prodi-Massimo D’Alema), i rapporti tra Roma e Washington si inquadrano quasi nei sentimenti di una virtuale Intemazionale democratica: più una suggestione che una realtà, ma che ha aspetti più politici come il lancio di una sorta di polizia globale a difesa dei diritti umani (vedi Kosovo) e più materiali come la convinzione che la globalizzazione della finanza, da perseguire anche attenuando regole definite dopo la crisi del ’29, avrebbe aggiustato di per sé molti problemi mondiali.
Questa convinzione concettuale si tradurrà anche in qualche liaison politica vedendo una – in parte inedita – leva di banchieri e finanzieri di sinistra sia a New York sia a Milano.
L’attentato alle Torri del Wto del settembre 2001 trasformerà la presenza di due esecutivi liberalconservatori (quello di George Bush jr e quello di Berlusconi) in un’occasione per ravvivare l’antica alleanza in funzione della guerra al terrorismo islamico. Alla fine però non riuscirà a trasformare riuscite imprese militari in nuovi saldi equilibri geopolitici.
In più la deriva di certa globalizzazione finanziaria avviata dalla sinistra, ma non riformata dalla destra, porterà alla crisi di Wall Street del 2008 e alla vittoria di Barack Obama. La nuova amministrazione democratica è riuscita a mettere sotto controllo la crisi finanziaria (pur senza rilanciare adeguatamente lo sviluppo) anche grazie al brillante Ben Bernanke, e a mantenere un livello alto – innanzi tutto via «droni» — di guerra al terrorismo riuscendo a eliminare Osama bin Laden, ma non ha trovato ancora equilibri internazionali sufficientemente solidi (dalla bomba atomica iraniana alle politiche di vicinato della Cina, dall’assestamento del Nord Africa dopo le primavere arabe al nodo Afghanistan-Pakistan) né assetti economici ben definiti anche nell’area occidentale (dalle regole per la finanza alle politiche valutarie, dalla priorità della lotta alla deflazione a quella del rigore di bilancio).
Spesso si ha la sensazione che si rimandino le scelte, magari destabilizzando le situazioni non controllate. E in questo quadro si ripresentano vecchie teorizzazioni – un po’ più da circolo di chiacchiere che veri complotti degli ambienti che contano – sui limiti della democrazia: al centro c’è la vaga idea che una società complessa abbia bisogno di semplificazioni elitistiche (senza naturalmente scadere a scempiaggini su nuovi golpe) prevalenti su un disteso (e bilanciato) sistema di sovranità popolare.
E in questo senso ambienti americani pensano che un’Italia segnata da una crisi organica dello Stato sia il luogo dove tentare una sorta di sperimentazione. Affidandosi, magari, come talvolta succede agli uomini di Washington, al solito personaggio al di sotto della parte.