Dal sito Libertà e persona 16 Giugno 2017
di Giuliano Guzzo
Al di là di annunci e proclami politici dal sapore filantropico quando non apertamente pre elettorale, è bene chiedersi: ma l’introduzione dello ius soli sarebbe giusta? E’ corretto cioè che la cittadinanza, come da più parti chiesto, venga riconosciuta a chiunque nasca nel territorio di uno Stato – nel nostro caso l’Italia – diversamente da come avviene ora e quindi indipendentemente dalla cittadinanza posseduta dai genitori?
La proposta di questo principio «tipico delle Americhe, ossia di territori storicamente di immigrazione» [1], viene avanzata principalmente sulla base di due argomenti: quello dell’uguaglianza – che sarebbe violata con l’applicazione dello ius sanguinis (acquisizione della cittadinanza dei genitori) – e quello secondo cui nel nostro Paese sono vi già tanti, troppi immigrati in attesa del riconoscimento della cittadinanza italiana.
Ebbene, entrambi gli argomenti sono fallaci. Il primo lo è per il semplice fatto che si discrimina allorquando si trattano in modo diverso situazioni uguali, non già se si trattano in modo diverso situazioni diverse; e si dà il caso che in Italia, per un bambino, nascere da due genitori italiani o non italiani non è in alcun modo la stessa cosa. Infatti nel primo caso, salvo eccezioni, egli crescerà per forza di cose orientato verso l’acquisizione della cultura italiana – di qui il senso dello ius sanguinis -, mentre nel secondo non è così; infatti molteplici e differenti possono essere le eventualità, dalla situazione di irregolarità dei genitori – che potrebbero aver fatto clandestinamente il loro ingresso in Italia trovandosi pertanto prossimi ad un rimpatrio – a quella della presenza degli stessi in Italia per turismo o per lavoro.
L’assegnazione della cittadinanza per il solo fatto di nascere in Italia pare dunque, ad essere buoni, un azzardo. A maggior ragione se si rammenta che la cittadinanza non è un mero dato giuridico e che prevede la «condivisione di valori comuni che sono alla base del sentimento di appartenenza e dell’integrazione del soggetto all’interno di un comunità» [2], condivisione che fa sì che una data comunità possa, grazie ai propri componenti di diritto, continuare ad esistere preservando i propri tratti identitari.
Facile, qui, l’obiezione: ma neppure tanti italiani onorano la loro cultura e la loro patria osservandone principi e regole. Certo, ma questo nulla toglie al valore della cittadinanza; in altre parole il problema, se molti cittadini non onorano i valori del loro Paese, non è dei valori, bensì di questa parte di cittadini, e sarebbe sbagliato utilizzare il pretesto della scarsa disciplina di taluni per svuotare di rilevanza un diritto – quello della cittadinanza – che riguarda tutti nonché, insistiamo, la sopravvivenza della comunità.
Ma torniamo allo ius soli; abbiamo visto che, se lo si introducesse, non si riscatterebbe alcun principio di uguaglianza oggi violato, anche perché già oggi tutti i minori presenti sul nostro territorio, quale che sia la loro cittadinanza, godono comunque dei medesimi diritti (vanno a scuola, vengono curati, vengono iscritti a società sportive o ad altre associazioni). C’è però dell’altro: è lo ius soli – oggi impedito ex l. n. 91/’92 art. 4, comma 2 – che, una volta approvato, determinerebbe vera e propria discriminazione.
Quale?
Semplice: quella fra i cittadini stranieri che, prima di divenire italiani, hanno seguito il complesso iter di integrazione previsto dalle norme vigenti – e che dunque prima di mettere al mondo un figlio hanno attraversato un significativo periodo di formazione e di adattamento – e quelli che, avendo un figlio in Italia, verosimilmente sfrutterebbero lo ius soli dapprima per favorire il nascituro e, in secondo luogo, per facilitare una regolarizzazione della propria posizione. Si verrebbe cioè a verificare il rischio, ben evidenziato dal Presidente del Senato Pietro Grasso, di una «gran quantità di donne» pronte «a venire in Italia a partorire solo per dare la cittadinanza ai propri figli».
Anche la seconda tesi, quella che vorrebbe giusto lo ius soli sulla base del fatto che tanti ne beneficerebbero (necessitas facit ius) convince poco giacché, lo sappiamo bene, giammai può essere il numero di aspiranti beneficiari di un provvedimento a decretarne la sua opportunità. Un esempio può aiutare a capire. Se domattina stabilissimo che l’evasione fiscale non è più un reato faremmo di certo un favore a molti cittadini – molti, infatti, sono purtroppo coloro che non pagano regolarmente le imposte – ma non per questo faremmo una cosa buona, anzi.
Ecco, la stessa prudenza e la stessa attenzione che ci portano a respingere come iniquo l’esempio ora evocato debbono orientare il nostro giudizio sullo ius soli, che non può essere nè buonista e men che meno aprioristico. Anche perché che lo ius soli non sia, almeno nella sua forma pura, un principio così giusto, è suffragato pure altri da due elementi che vanno a rafforzare quanto sin qui detto.
Il primo riguarda il fatto che oggi, nel mondo, oltre 160 Stati non lo applicano: tutti nemici della civiltà e dell’accoglienza? Tutti Paesi ostaggio di una cultura xenofoba oppure c’è dell’altro, come per esempio l’esigenza di tutela di una comunità cui accennavamo poc’anzi? Il secondo elemento concerne la scelta, da parte di quei Paesi nei quali lo ius soli era previsto, di modificare le proprie leggi: pensiamo, per esempio, al Regno Unito, dove questo principio è stato abolito nel 1983, oppure al caso dell’Irlanda, dov’è accaduto lo stesso nel 2005, dopo che tramite referendum il 79% dei cittadini si è espresso in tal senso, chiedendo cioè una revisione della normativa allora vigente.
Quanti poi ricordano, per valorizzarlo, che lo ius soli è figlio dell’illuminata cultura giacobina, debbono anche aver l’onestà di ricordare che sua introduzione «nel mondo contemporaneo venne sì dalla Costituzione del 1793, che rese automatica la naturalizzazione dopo un solo anno di residenza in Francia, ma, come noto, questa legge rimase senza applicazione» [3].
E difatti, a parte il caso particolare della Francia – dove vige una sorta di doppio ius soli: chi nasce da genitori stranieri ma nati in Francia diventa presto cittadino, oppure si diventa francesi dai 18 anni in su se si hanno genitori stranieri che però risiedono nel Paese da almeno cinque anni – una data cittadinanza non si acquisisce mai dal solo luogo nascita. A Berlino, per esempio, dove pure lo ius soli è forte più che in altri Stati europei, esso è comunque temperato da paletti rigidi. Infatti, possono diventare cittadini tedeschi tutti quei bambini nati da genitori extracomunitari purché però almeno uno dei due genitori abbia in mano un permesso di soggiorno permanente da tre anni e risieda in Germania da almeno otto anni; anche in terra tedesca, dunque, lo ius soli è ben lontano dall’essere propriamente tale.
Ragion per cui i nostri politici farebbero bene a valutare con estrema attenzione la possibilità di introdurre questo principio che a prima vista appare doveroso ma che poi, osservato da vicino, origina perplessità di non poco conto. Soprattutto alla luce del fatto che in Italia la presenza di cittadini immigrati è già molto forte: nelle classifiche internazionali del tasso netto di immigrazione – noto come «net immigration rate» – con 6 immigrati ogni 1000 cittadini l’Italia è difatti già in vetta davanti a Spagna (4 per 1000), Portogallo, Gran Bretagna (3 per 1000) e Danimarca (2,4 per 1000).
In questo senso l’eventuale introduzione dello ius soli, anziché favorire opportuna integrazione dopo l’immigrazione, finirebbe solo per incoraggiare nuova immigrazione senza alcuna integrazione. Il che, nel contesto attuale, non sembra affatto essere quello di cui l’Italia ha bisogno.
Tutt’al più, volendo, si potrebbe eventualmente ragionare – così come proposto dal già citato Presidente Grasso, il quale forse ora se n’è scordato – di ius culturae, ovvero della possibilità di «dare la cittadinanza a coloro che hanno imparato, seguito un corso professionale nel nostro paese, oppure che almeno un genitore soggiorni nel nostro paese da almeno cinque anni, che uno dei genitori sia nato nel nostro paese e vi soggiorni quando è nato il figlio».
In ogni caso, per le ragioni sopra ricordate, lo ius soli è da ritenersi ingiusto; così come è da respingere, tanto più per un tema tanto delicato, il ricorso – purtroppo assai frequente – a slogan che magari suonano bene e che, specie in tempi di politically correct, raccolgono consensi, ma che avrebbero, se applicati, effetti decisamente poco rassicuranti per il nostro Paese. Già Seneca ammoniva: «Fallaces…sunt rerum species» (De beneficiis, 4, 34).
Note:
[1] AA.VV. Diciottesimo rapporto sulle migrazioni 2012, Fondazione Ismu, FrancoAngeli, Milano 2013, p. 28;
[2] Trapanese R. Cittadinanza e politiche sociali, Liguori Editore, Napoli 2005, p. 21; si deve comunque specificare che se da un lato è vero negli Stati Uniti si applica lo ius soli – e quindi il bambino nato sul suolo americano ha la cittadinanza americana – d’altro lato è vero anche che se i genitori sono risultano entrati illegalmente nel Paese vengono rimpatriati – «deported»- mentre il bambino è affidato ai servizi sociali fino ai 18 anni; [3] Magrin G. La repubblica dei moderni. Diritti e democrazia nel liberalismo rivoluzionario, FrancoAngeli, Milano 2007, p. 74