Se ne sente parlare ormai da tempo, spesso impropriamente. Proviamo a spiegare “la guerra santa” dell’islam, senza animosità e senza paura.
di Silvia Scarnari Introvigne
La parola, che compare più volte nel Corano, indica quindi lo sforzo che il fedele deve compiere per porsi alla sequela della volontà divina. Contro se stessi accorre lottare per impedire a Satana di sopraffare le buone intenzioni e di condurre al peccato; jihãd diviene pertanto sinonimo di sforzo individuale e interiore per approfondire le proprie conoscenze religiose, mettere in pratica le prescrizioni coraniche ed evitare di cedere alle proprie passioni. Le scuole d’impostazione più spirituale, e soprattutto il mondo del sufismo, hanno sempre preferita porre l’accento su questa accezione del termine, corrispondente al jihãd cosiddetto “maggiore”, cioè Ia guerra che ogni fedele deve combattere per convertirsi ed avvicinarsi al volere di Dio.
Tuttavia, è necessario ricordarlo, nei Corano è chiaramente indicato il dovere di uniformare tutta l’umanità al volere di Dio e quindi ogni buon fedele deve impegnarsi in una ‘missione” (da’wa) verso gli altri uomini. Il jihãd è un dovere che può essere realizzato secondo vane modalità e nella letteratura classica si era soliti distinguere tra jihâd dell’animo, della parola, della mano e, solo in ultimo, della spada.
Il primo modo indica la lotta contro le proprie inclinazioni e i propri vizi, il secondo la lotta contro la propria tendenza alla maldicenza ma anche il dovere di diffondere la verità coranica, il terzo il dovere di aiutare concretamente gli altri incoraggiando il bene e proibendo il male, e l’ultimo l’azione attiva di guerra contro l‘infedele. Come molti hanno fatto notare nel Corano, la radice JHD compare quasi sempre in contesti non necessariamente bellicosi. Quando si parla chiaramente di guerra cruenta si usano più facilmente termini che sono riconducibili alle radici HRB e QTLI come nelle ormai note sure IX, 29 («Combattete coloro che non credono in Allah e nell’Ultimo Giorno, che non vietano ciò che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato…») e VIII, 55-60 («Di fronte ad Allah non ci sono bestie peggiori di coloro che sano miscredenti e che non crederanno mai… Se quindi li incontri in guerra, sbaragliali facendone un esempio per quelli che li seguono, affinché riflettano»).
Potremmo inoltrarci in complesse discussioni di carattere linguistico e tentare ardue ricostruzioni della stesura originale del testo coranico, ma il lavoro sarebbe poco utile. Non sempre il significato etimologico coincide perfettamente con l’accezione che il termine ha acquisito nel corso della storia e della rielaborazione giuridica. In questo caso è indubbio che giuridicamente, nel diritto classico e nella tradizione storica, il termine jihãd indica l’azione armata finalizzata all’espansione dell’islãm e, se necessario, alla sua difesa. Fin dalle origini fu molta netta la distinzione fra il territorio musulmano (dãr al-islam) e quello degli infedeli a “territorio di guerra” (dãr al-harb), da conquistare alla vera fede. Una terza tipologia è il “territorio del patto” (dãr al‘ahd o dãras-sulh), cioè quei paesi dove l’islãm è minoritario ma può vivere liberamente e in cui il muslim può svolgere le sue pratiche religiose.
È una situazione transitoria, dove possono essere giocate le carte dell’astuzia diplomatica e della convivenza sociale, ma che non è destinata a restare immutabile poiché l’islãm è, per sua natura, missionario. Il jihãd non e un bene in se stesso bensì un male che diventa però lecito, anzi obbligatorio e quindi un bene, in rapporto allo scopo cui tende, ovvero abolire un male maggiore, la mancata sottomissione al vero Dio. Infatti il jihãd tende all’espansione della vera religione e in quanto tale è un bene, anzi un obbligo per i maschi sani, adulti, liberi.
Deve essere combattuto quando vi sono un numero sufficiente di uomini e risorse adeguate a far sperare in una conclusione vittoriosa. In casi simili è lecito usare tutti i mezzi e gli strumenti possibili, e anche i non-musulmani, in caso di necessità, possono essere chiamati a contribuire a diverso titolo al successo della guerra. Per il fedele i doveri religiosi, secondo il diritto musulmano, sono fard ‘ayn, ovvero obblighi del singolo, invece il jihãd è fard kifãya, cioè un dovere obbligatorio solo collettivamente.
È sufficiente che un gruppo, anche se esiguo, lo ottemperi perché tutti gli altri siano esonerati. In tempo di pace, secondo alcune interpretazioni, è sufficiente che uno Stato organizzi bene il proprio esercito come difesa del territorio islamico perché sia assolto il dovere collettivo del jihãd. Nel caso di guerra dichiarata devono collaborare tutti coloro che il principe ritiene idonei e secondo le modalità loro attribuite, non esiste la possibilità di “obiezione di coscienza” in questo campo.
È anche ovvio che il jihãd è un dovere individuale per chi governa un territorio entrato in stato belligerante. Il jihãd dev’essere proclamato dal califfo (figura scomparsa nel monda sunnita con la soppressione del Califfato da parte di Kemãl Atatürk nel 1923 e nel mondo sciita con l’entrata in occultamento dell’ultimo Imam riconosciuto alla metà del X secolo) e l’attacco agli infedeli dev’essere preceduto da un chiaro invito alla conversione: solo dopo un esplicito rifiuto si deve procedere alla guerra, che altrimenti è considerata un vero e proprio omicidio, punibile addirittura con la pena del taglione.
Oggi tutti concordano sul fatto che l’appello non è più necessario poiché l’islãm è sufficientemente diffuso in tutto il mondo e si presume che tutti gli uomini conoscano il suo invito a convertirsi. La necessità del jihãd è continua, fino alla fine del mondo, cioè fino a quando tutti i popoli siano stabilmente convertiti all’islãm. Ne consegue che lo stato di pace con i paesi non musulmani è una condizione provvisoria, una tregua, che non può durare indefinitamente e che può essere denunciata anche unilateralmente se le condizioni lasciano intravedere una possibilità di vittoria da parte dell’islãm.
Esistono situazioni diverse cui si applicano forme diverse di jihãd. All’esterno del territorio islamico, contro i miscredenti e contro chi aggredisce un popolo musulmano, Maometto ha ordinato di usare ogni mezzo: Ia lingua, i propri beni e la propria forza. All’interno del mondo islamico, occorre soffocare il male e promuovere il bene. Contro i malvagi devono quindi intervenire tutti i fedeli, senza distinzione di sorta, con la parola e, se occorre, con la forza.
Anche le donne e i bambini combattono la loro guerra svolgendo operazioni di supporto alle forze armate a azioni di disturbo nei confronti del nemico: ognuno deve dare secondo le proprie capacità. È interessante notare, a questo proposito, che il jihãd può essere combattuto anche mettendo a disposizione i propri beni economici, secondo l’invito del Corano a «spendere per la causa di Allah», e quindi viene spontaneo chiedersi quanto abbia influito sulla attuale situazione di lotta dell’islãm radicale contro l’Occidente l’uso di ingenti somme fatte circolare su reti finanziarie e bancarie internazionali da possidenti medio-orientali e non solo.
Troppo spesso immaginiamo che il combattente sia solo il militare munito di armi o il terrorista pronto a farsi esplodere in qualche attentato e non valutiamo l’importanza che oggi assume il mondo della finanza, da tempo globalizzato e quanto mai sfuggente a tutte le indagini. Accanto a questo metterei l’altra arma, oggi micidiale, della carta stampata o della comunicazione televisiva che riesce a orientare l’opinione pubblica e diventa quindi fortissimo strumento di conquista del nemico. Secondo numerosi hadith, «il jihãd è il monachesimo dell’islãm» e quindi il muslim si consacra al jihãd come nella cristianità un monaco consacra se stesso a Dio. È un atto di “devozione pura”, “una delle porte del Paradiso”.
Per questo chi muore in battaglia è considerato “martire” (shah d) e gli è garantito l’accesso al paradiso, dove gli sarà riservato un posto privilegiato. La tesi secondo cui il jihãd ha caratteri solo difensivi e che l’islãm per espandersi si basa soltanto sulla conversione individuale dell’uomo (anche se gia sostenuta da Sufyan al-Thawri, nato nel 95/7 5, ma subito contrastata da Ata, morto nel 114/732-3, secondo cui era sempre doverosa tranne nei quattro mesi sacri), è di recente diffusione e apparentemente mistificatrice del testo cranico, della tradizione della Sunna e si basa su testi antichi e molto discussi.
Le scienze orientaliste moderne, sviluppate soprattutto in Occidente, tendono a minimizzare il problema e sostengono che Maometto ha usato l‘attacco solo nei confronti del popoli della penisola arabica e non contro altri. L’estensione della guerra oltre i confini geografici della penisola e contro popolazioni cristiane ed ebree sarebbe frutto delle decisioni della comunità (ijma’) negli anni successivi. Il dibattito oggi infatti ruota sulla visione di un islãm solo per gli arabi, come alcuni detti di Maometto riferiti al prima periodo medinese sembrano far intendere, oppure a espansione universale, come l’atteggiamento seguito nella seconda fase del suo governo potrebbe far intuire.
Contemporaneamente gli ideologi della scontro armato ricordano che il jihãd è un “imperativo della fede”, citano i diciannove scontri armati che Maometto ha sostenuto durante i dieci anni di governo a Medina e accusano i dotti (gli ‘ulamã) di mistificare la vera dottrina per opportunismo politico verso l’Occidente. Oggi solo il gruppo un po’ eterodosso degli Ahmadiyya nega il diritto del jihãd, anche a scopo difensivo, mentre gli sciiti, sostenendo che la guida della comunità (l’Imam) è al momento occultato, ritengano che nessuno possa autorevolmente proclamare la guerra a meno che qualche “giurista islamico” si presenti come vicario dell’Imam, come talora e successo in Iran. Tra questi ultimi il gruppo degli zayditi invece segue la dottrina sunnita.