Abstract: la fallimentare politica estera di Joe Biden in Medio Oriente ha destabilizzato l’area e polarizzato l’odio anti ebraico aiutando i fondamentalisti, che con l’aggressione del 7 ottobre tentano di far naufragare la politica di stabilizzazione e normalizzazione di Trump degli “Accordi di Abramo” che isolavano Iran, Hezbollah e Hamas. E lo scontro con Putin ha messo in imbarazzo Israele, che con Mosca ha rapporti economici e politici. Un effetto domino di disastri, che polarizza l’odio anti-ebraico.
La Nuova Bussola quotidiana n21 Ottobre 2013
L’incendio in Medio Oriente certifica il fallimento
della politica estera Biden
La politica estera di Biden ha minato la tessitura degli “Accordi di Abramo” che isolavano Iran, Hezbollah e Hamas. E lo scontro con Putin ha messo in imbarazzo Israele, che con Mosca ha rapporti economici e politici. Un effetto domino di disastri, che polarizza l’odio anti-ebraico per la gioia dei fondamentalisti.
di Eugenio Capozzi
La visita del presidente statunitense Joe Biden in Israele è stata giudicata dalla maggior parte degli osservatori come un gesto forte e inequivocabile di solidarietà con lo Stato ebraico – unitamente al dispiegamento di unità della flotta davanti alle coste del Mediterraneo orientale – nel momento delicatissimo che quest’ultimo sta attraversando dopo il terribile eccidio perpetrato da Hamas il 7 ottobre entro i suoi confini, e nei giorni della difficile rappresaglia contro i fondamentalisti nella striscia di Gaza. Ed è stata parimenti interpretata da molti come un tentativo di evitare una escalation di violenza nella regione, cercando di moderare la reazione israeliana e di lasciare aperti margini di dialogo e negoziato con il mondo arabo.
Ma essa dovrebbe essere in realtà letta a buon diritto innanzitutto come un tentativo di porre almeno parzialmente rimedio a una catena di eventi negativi per gli interessi statunitensi e occidentali innescati proprio dalla fallimentare strategia di politica estera portata avanti dalla stessa amministrazione Biden.
Quest’ultima, infatti, a partire dal 2021 ha demolito sistematicamente, con esiti disastrosi, alcune linee fondamentali della politica internazionale promossa dal predecessore di Biden, Donald Trump. In primo luogo, ha minato la paziente tessitura che Trump aveva compiuto con gli “Accordi di Abramo” (siglati nel 2020 tra Israele, Emirati Arabi e Bahrein) per riavvicinare lo Stato ebraico ai paesi più influenti dell’islam sunnita, e soprattutto all’Arabia Saudita, e favorire così una stabilizzazione complessiva dell’area, isolando gli agenti disgreganti ed estremisti come l’Iran, Hezbollah e lo stesso Hamas.
Fin dalla campagna elettorale, e poi una volta in carica, Biden ha tenuto invece un atteggiamento apertamente ostile al regime del principe Mohammed Bin Salman, giustificandolo con l’uccisione del giornalista dissidente saudita Jamal Kashoggi, di cui Salman era sospettato di essere responsabile. E, all’inverso, egli ha avviato una politica di dialogo con il regime degli ayatollah iraniani, cercando di riavviare il processo negoziale sul nucleare di Teheran, che Trump aveva fermato nel 2018 revocando il trattato che era stato negoziato nel 2015 ad opera dell’amministrazione Obama.
Un rovesciamento che ha rafforzato gli iraniani, dando ad essi maggiori margini di manovra sullo scacchiere mediorientale (usati da questi ultimi per rafforzare i propri legami con Cina e Russia), e indebolendo decisamente Israele. E che è culminato nello sblocco di 6 miliardi di dollari di fondi iraniani congelati negli Stati Uniti, proprio pochi giorni prima del massacro perpetrato da Hamas nei kibbutz israeliani, verosimilmente incoraggiato, se non finanziato proprio da Teheran: con un effetto boomerang clamoroso sulla credibilità americana.
Nel frattempo, l’amministrazione Biden aveva operato attivamente contro gli interessi vitali propri e dell’Occidente intero anche sul fronte ucraino, alimentando sempre più la tensione con la Russia, rifiutandosi di cercare una soluzione negoziale condivisa alla frattura apertasi nel 2014 e, dopo l’invasione russa del febbraio 2022, sostenendo Kiev a senso unico, trattando Putin come un nemico e isolandolo totalmente dall’Occidente: con il risultato di rinsaldare i rapporti tra Mosca e Pechino, di fare il gioco della Cina – sua principale antagonista globale – sul piano geopolitico e di coagulare un composito fronte anti-occidentale che ha attratto anche paesi precedentemente alleati o amichevoli.
Per quanto riguarda specificamente gli equilibri mediorientali, lo scontro frontale con Putin ha messo fortemente in imbarazzo Israele, che con Mosca intrattiene consolidati rapporti economici e politici e ha interesse a una gestione congiunta con i russi delle aree di crisi tra Siria e Libano. Ha determinato un riavvicinamento dell’Arabia Saudita alla Russia, con una politica coordinata dei prezzi del petrolio, e persino all’Iran, suo antagonista per eccellenza. Ha rilegittimato il regime siriano di Bashar al-Assad, “feudo” di Mosca in Medio Oriente, riammesso nella Lega Araba proprio con il beneplacito dei sauditi. E, soprattutto, ha interrotto il percorso verso il completamento degli accordi di Abramo, con la sperata normalizzazione dei rapporti diplomatici tra israeliani e sauditi.
Insomma, un effetto domino di disastri autolesionistici quasi senza precedenti (completato dalla crescente destabilizzazione dell’Africa sub-sahariana, innescata da Cina e Russia), che ha creato il terreno ideale per quanti avevano interesse a riaccendere il conflitto arabo-israeliano. E che si è plasticamente materializzato nello scorso agosto quando, in occasione del vertice dei BRICS di Johannesburg, è stato annunciato l’ingresso congiunto nell’organizzazione, a partire dal 2024, di Arabia Saudita e Iran, insieme agli Emirati e all’Egitto.
Resasi conto tardivamente del piano inclinato pericolosissimo che aveva innescato, l’amministrazione Biden ha cominciato a cercare di porvi rimedio almeno in parte con un cambiamento della sua linea nei confronti di Riad, cominciata con la visita di Biden nell’estate del 2022 e culminata nell’agosto scorso con il coinvolgimento dell’Arabia Saudita, al G20 di Nuova Dehli, nel memorandum d’intesa per il corridoio infrastrutturale India-Medio Oriente-Europa chiamato “Via del Cotone”, per contrapporlo simbolicamente al progetto egemonico cinese di “Nuova Via della Seta”.
Ma ormai la frittata era fatta, e il vaso di Pandora era scoperchiato. Il potenziale asse tra Israele e i paesi arabi sunniti voluto da Trump, che, una volta saldato, avrebbe potuto contare forse sulla benevola neutralità russa, era già su un binario morto. Ma l’attacco di Hamas e la inevitabile reazione israeliana, polarizzando di nuovo l’odio anti-ebraico nelle società islamiche, lo condanna oggi al rinvio sine die, se non al definitivo naufragio. Per la gioia di fondamentalisti, integralisti e regimi anti-occidentali di tutto il mondo. E con la conseguenza di spingere l’Europa e l’Occidente di nuovo in prima linea, oltre che sul fronte russo-ucraino, anche su quello dei conflitti mediorientali e di una più che probabile, anzi già iniziata, recrudescenza del terrorismo islamista, favorita dalla bomba a orologeria delle cospicue comunità di immigrati islamici “radicalizzati” ormai stabilitesi entro le loro mura.