«Juden raus!» La Santa Sede e la questione ebraica (2)

Studium  n.4 luglio-agosto 2006

di Danilo Veneruso

Di fronte all’inesorabilità assunta dal secondo conflitto mondiale anche l’iniziativa dei salvataggi deve subire evidenti limiti, i quali non mancano di provocare perplessità e critiche, le quali rinviano sempre alla mancanza di «una parola del Santo Padre forte e solenne a difesa dell’umanità», sottolineata dallo stesso prefetto delle cerimonie pontificie mons. Respighi (pp. 319-320).

Quantunque provengano non solo da ogni parte del mondo cattolico, ma anche dall’interno stesso della Santa Sede, le insistenze per una pubblica denuncia del trattamento di sterminio per gli ebrei e di pesanti decimazioni che i nazisti e i loro collaboratori perpetrano a carico dei popoli dell’Europa occupata, l’atteggiamento della Santa Sede non cambia per tutta la durata della guerra, anche quando, dopo il 1942, la causa bellica del fascismo internazionale volge irrimediabilmente al peggio e pertanto sarebbe facile, e senza rischi, acquisire titoli di benemerenza presso i futuri vincitori.

È molto significativo, per lumeggiare la ratto dell’azione di Pio XII nei confronti degli ebrei, al vertice della lunga lista dei nemici del Reich, quanto sottolinea Alessandro Duce nel menzionare gli interventi della Santa Sede tra il 1943 e il 1944. Quando cominciano a circolare i dati degli interventi anche in denaro a favore dei rifugiati negli istituti religiosi romani, venuti a conoscenza dei cattolici americani che hanno versato queste somme, Pio XII osserva che se tale rivelazione non può che produrre «ottima impressione fra gli ebrei», tuttavia «”sarebbe bene non gridare ai quattro venti” che è stato inviato denaro alla Santa Sede per gli ebrei italiani; ciò potrebbe aggravare la loro situazione e rendere più difficile l’opera vaticana: meglio sarebbe parlare di aiuti per le vittime della guerra, “anche gli ebrei d’Italia e particolarmente i bambini ebrei sono fra le vittime della guerra”» (p. 377).

Se dunque la Santa Sede agisce in questi termini, ciò avviene non per motivi politici o per residui di quelle «radici cristiane dell’antisemitismo» che sono state recentemente sottolineate in alcuni scritti, bensì per difetto di reali riscontri nella stessa politica di quegli alleati che, pur essendo in possesso di quei concreti strumenti di pressione, organizzativi e politici di cui la Santa Sede non può disporre, nulla di concreto hanno fatto per il salvataggio degli ebrei e delle popolazioni dei territori occupati da tedeschi o da essi controllati attraverso alleati allineati sulla stessa politica.

Debole e addirittura fuori luogo è l’argomento addotto da mons. Dell’Acqua, della Segreteria di Stato, quando, nell’agosto 1944, dopo aver constatato che «ben poco si è riusciti ad ottenere dal governo germanico in favore degli ebrei», aggiunge che una parte di responsabilità di questa situazione deve attribuirsi alla «dure condizioni da farsi alla Germania nazista (anche da parte degli ebrei)» (p. 3 85).

Non bisogna poi dimenticare che il piano della guerra antitedesca concordato dai Tre Grandi nel corso del 1943 non prevede affatto lo sfruttamento delle possibilità di accelerare la fine del conflitto offerte dal primo pericoloso cuneo aperto in Italia nella “fortezza Europa” blindata dai tedeschi. Nel lungo e serrato dibattito tenuto dagli alleati sul progetto strategico di Churchill che, profittando della favorevole situazione creata dalla resa italiana, intende chiudere al più presto il conflitto concentrando tutte le risorse disponibili nel teatro europeo lungo il meridiano Roma-Berlino, è infatti preferito quello di Roosevelt-Stalin, i quali, per premiare i meriti che spettano ai vincitori di Stalingrado, preferiscono prolungare il conflitto ignorando il centro imperniato sul meridiano Roma-Berlino e partendo ciascuno dal proprio punto cardinale di riferimento per incontrarsi nel cuore della Germania.

Se è vero che solo in questi termini può salvarsi fino alla resa della Germania quell’alleanza di guerra necessaria per liquidare il fascismo internazionale con la definitività che era mancata all’Intesa quando, nella prima guerra mondiale, si era trattato di liquidare il nazionalimperialismo e il militarismo della Germania di Guglielmo II, è anche vero che gli alleati non hanno fatto nulla per abbreviare anche di un solo giorno una guerra che stava uccidendo, al fine di salvare la vita di milioni di esseri umani che in tutta Europa languono nei Lager di Hitler.

In generale, poi, gli alleati della seconda guerra mondiale si guardano bene dal dare pubblica notizia di quanto sta accadendo agli ebrei nell’Europa occupata dal fascismo internazionale. Tanto la propaganda delle varie emittenti radiofoniche quanto i manifestini lanciati dagli aerei sono infatti estremamente evasivi sulla sorte degli ebrei caduti in mano ai tedeschi e dei loro alleati. Interpellato in proposito, lo stesso Roosevelt in un’intervista radiofonica afferma piuttosto imbarazzato che gli alleati non intendono dare l’impressione di aver fatto la guerra soprattutto per servire gli ebrei, come da anni andavano dicendo i tedeschi e i collaborazionisti di tutto il mondo.

Osserva infatti Alessandro Duce a questo proposito che durante la seconda guerra mondiale «le potenze alleate hanno un unico e prevalente obiettivo: vincere la guerra. Non mancano dichiarazioni, minacce di future condanne per le atrocità compiute, comunicati di solidarietà, ma non vengono prese iniziative specifiche o di rilievo per aiutare le comunità ebraiche. La tesi prevalente considera la vittoria militare la premessa indispensabile per la soluzione di tutti i problemi, all’interno dei quali c’è anche quello razziale: questa scelta, assai motivata e logica, mette in secondo piano le esigenze immediate dei perseguitati» (pp. 417-418).

Questo giudizio comprende due parti che anche la Santa Sede prende in considerazione, ma in modo diverso. Anch’essa, infatti, parte dalla convinzione che la vittoria militare delle potenze alleate è certa, da quando il rappresentante personale di Roosevelt, Myron Taylor, nel settembre 1942 è tornato in Vaticano per illustrare il programma di guerra che gli Stati Uniti seguiranno, di concerto con i britannici e i sovietici, per annientare il fascismo internazionale, con affermazioni che trovano puntuale conferma con l’inizio dei massicci bombardamenti delle città italiane che finora non li hanno mai conosciuti (eccetto Napoli, Palermo, La Spezia e Tarante, però con obiettivi fino a quel momento militari), con la vittoriosa offensiva delle truppe britanniche nel fronte egiziano, con lo sbarco degli statunitensi nelle coste atlantiche e mediterranee dell’Africa occidentale, e con la di-sastrosa sconfitta delle truppe dell’Asse sul fronte russo.

Pertanto, a partire dalla fine del 1942, anche la Santa Sede è del tutto interessata alla vittoria degli alleati contro il fascismo internazionale, che però a suo giudizio è ostacolata dalla formula della “resa incondizionata” che, ponendo condizioni impossibili per la dissoluzione per implosione del fascismo internazionale, finirà per ritardare quella vittoria dell’antifascismo e quindi per rinviare a tempi ancora imprevedibili la fine del sacrificio totale di quella parte del popolo ebraico e crudelmente selettivo per i popoli “inferiori” destinati a diventare colonizzati.

Per quanto riguarda la seconda parte del giudizio, mentre le potenze alleate non possono far nulla a favore delle vittime sacrificali perché ancora fuori di un sistema che attaccano troppo da lontano, la Chiesa cattolica, con i suoi vescovi, con il suo clero, con i consacrati, con le consacrate e con i fedeli che, nella loro maggior parte, condividono S’invito a salvare i perseguitati piuttosto che lasciarlo cadere o rifiutarlo, fa per quanto possibile e in misura certo molto minore rispetto ai bisogni dei perseguitati e alla determinazione degli sterminatori, invece, quello che le potenze alleate non possono: «la crociata della carità», senza subordinarla al futuro (pp. 375-418).

Ricapitolando la situazione secondo le fonti documentarie e i dati utilizzati da Alessandro Duce, nella fase decisiva della seconda guerra mondiale dopo l’aggressione dell’Unione Sovietica, quando i tedeschi attuano sistematicamente lo sterminio degli ebrei e la falcidia degli altri popoli soggetti alla loro occupazione, si fronteggiarono due soluzioni che solo parzialmente potevano definirsi opposte: da una parte gli atti di sterminio degli ebrei e dì falcidia dei popoli occupati effettuati dai tedeschi e dai collaborazionisti, dall’altra gli atti di salvataggio o di assistenza delle vittime effettuati in forme disparate da una selva di istituzioni caritative internazionali (come la Croce Rossa) o confessionali, tra le quali la Chiesa occupa una posizione molto autorevole non solo per la capillarità della sua diffusione e della sua organizzazione, ma anche per quella sorta di mobilitazione di fedeli che è capace di suscitare.

Dall’esterno di quell’autentico inferno in cui si è trasformato il continente europeo più che prospettive di un avvenire diverso e parole che di solito giovano soltanto alla propaganda non entrano. Accanto al silenzio della morte quotidiana di vittime del fascismo internazionale, tra le quali gli ebrei costituiscono la maggioranza, c’è anche il silenzio di chi opera per il salvataggio di altre vittime, per il quale la via della risonanza propagandistica è controindicato. Certo il silenzio è indizio di isolamento. La morte anonima è la regola e l’evaporazione dei corpi attraverso i camini delle camere a gas delle decine di Lager in funzione nell’Europa occupata riguarda non soltanto i corpi ma anche la memoria.

Si tratta di un gigantesco incubo a cerchi concentrici. Se ben pochi degli internati nei campi di concentramento più spietati sono in grado di provare interesse al di là di quanto avviene dentro il recinto dello sfruttamento e della morte, chi è al di fuori dei campi ma dentro l’Europa occupata sospetta qualche cosa ma non più di tanto e chi è al di fuori anche del perimetro dell’Europa occupata sa soltanto quanto fanno sapere gli stessi avversari del fascismo internazionale, ed è poco, molto poco.

Soltanto nella seconda metà del 1944 è possibile sapere da parte degli Stati e della Santa Sede l’entità degli stermini e delle falcidie, e soprattutto capire il significato di certi termini, come risulta soprattutto dalla «mancanza di illusione» con cui negli ultimi mesi di guerra sono redatti i rapporti del nunzio in Ungheria, mons. Rotta, citati da Alessandro Duce (pp. 342-356).

Il capitolo finale è dedicato al biennio 1944-45, gli anni conclusivi di un conflitto già potenzialmente segnato nel 1941, quando Hitler non riesce a evitare di essere compreso nell’elemento minoritario di un conflitto a tre fra rivoluzione nazionale, rivoluzione sociale e rivoluzione liberaldemocratica («il due a uno»). Alessandro Duce esamina singolarmente, Stato per Stato, i soggetti coinvolti nella progressiva erosione del potere tedesco nel bastione continentale europeo (pp. 329-418).

Sono passati in rassegna gli scenari della Romania, della Slovacchia, dell’Ungheria, della Francia, della Repubblica Sociale Italiana, della Germania, dove alla fine del 1944 la “soluzione finale” è quasi raggiunta in territorio tedesco e nel protettorato (p. 367). Lo scenario è quasi sempre di un’uniformità desolante, in cui le sole varianti, alla fine decisive, sono date dall’avanzata da est e da sud-est delle truppe sovietiche: «Aumentano, in questo periodo, le difficoltà per le popolazioni per la mancanza di derrate alimentari e per la recrudescenza dei bombardamenti sulle città. […] Inoltre, la ritirata tedesca non arresta la persecuzione antisemita, anzi, per certi aspetti la rende ancora più radicale e sistematica. Continua senza sosta la deportazione dai tenitori che vengono abbandonati […]. In questo contesto risulta più difficile l’opera di assistenza del Vaticano: poche le notizie dei deportati, quasi nulle le comunicazioni con i nunzi, sempre più sorda la diplomazia di Berlino» (p. 329). Neppure per i cattolici di “razza non ariana” c’è più possibilità d’intervento.

In questa desolante uniformità c’è però addirittura un caso imbarazzante: quello della Slovacchia, dove il capo dello Stato, Josip Tiso, è un «sacerdote politico» del tutto allineato a Hitler, al quale deve tutto, fin dal marzo 1939. Come sottolinea Alessandro Duce, «in Vaticano c’è viva preoccupazione per la sua posizione ad un tempo religiosa e politica» (p. 334). Per di più condivide al massimo grado tutti i motivi di ostilità verso gli ebrei. Quando mons. Giuseppe Burzio, che fa le veci di incaricato d’Affari della Santa Sede in Slovacchia, si reca da mons.

Tiso «per tentare di ottenere un suo intervento almeno in favore degli ebrei battezzati, non trova nessuna comprensione e neppure una parola di compassione per i perseguitati: egli vede negli ebrei la causa di molti mali e difende le misure dei tedeschi contro gli ebrei come imposte dalle supreme esigenze della guerra». Davanti a questo comportamento, Burzio riferisce che «i buoni cattolici sono disgustati dall’atteggiamento di Tiso».

Pio XII allora interviene e da istruzione al suo diplomatico «di recarsi subito da presidente Tiso per renderlo edotto profondo dolore Sua Santità per sofferenze cui numerosissime persone – contro principi umanità e giustizia – sono sottoposte cotesta nazione motivo loro nazionalità o stirpe e, nome Augusto Pontefice, lo richiami a sentimenti e propositi conformi sua dignità e coscienza sacerdotale e gli faccia altresì rilevare come ingiustizie commesse sotto suo governo nuocciono prestigio sua patria e di esse profittano avversari per screditare clero e Chiesa in tutto il mondo».

Ma Tiso è irremovibile: risponde infatti al Papa con una lettera nella quale afferma che «non può eessere considerato un crimine l’invio di ebrei in Germania a lavorare (dove tra l’altro si recano anche molti slovacchi); è la sicurezza dello Stato che ha indotto il governo ad adottare misure nei confronti dei cechi e degli ebrei: non sono dovute a ragioni razziali o nazionali, ma alla necessità di ridurre la negativa influenza di questi elementi». Di fronte a questa chiusura la Santa Sede torna alla carica nel novembre 1944, ricordando che i tedeschi hanno disatteso le ampie assicurazioni rilasciate due mesi prima, che non ci sarebbero state più deportazioni di ebrei (pp. 337-338).

A partire dal radiomessaggio che il 1° settembre 1944 diffonde globalmente per ricordare il quinto anniversario dell’inizio della guerra, Pio XII accenna a mutare il palinsesto della sua comunicazione sulla guerra. Da quel momento accentua la modestia dei risultati ottenuti rispetto all’enormità dei bisogni richiesti dal totalitarismo della guerra contemporanea nei settori del nascondimento dei fuggiaschi e del soccorso alle vittime della guerra in cui è concentrata l’azione dal centro posta in essere dalla Santa Sede e nelle periferie dai vescovi, dal clero, dai consacrati, dalle consacrate e dai fedeli, ma nello stesso tempo, con una serie di prese di posizione, puntualmente registrate da Alessandro Duce, denuncia sistematicamente la radicalità della guerra contemporanea che, se non viene arrestata nella genesi delle sue scelte culturali, può condurre alla catastrofe il genere umano.

Nel radiomessaggio natalizio del 1944 afferma che, in generale, bisogna fare «guerra alla guerra» (p. 384); nel marzo del 1945 Pio XII «si sofferma a denunciare alcuni grandi pericoli che in passato hanno avvelenato la vita dei popoli […]: è necessario “ripudiare” “l’idolatria dei nazionalismi assoluti, gli orgogli di stirpe e di sangue, la brama di egemonia nel possesso dei beni terreni”» (p. 385). Nel radiomessaggio del 9 gennaio, rivolto «a tutte le genti per la fine della guerra in Europa», il Papa sottolinea alcuni valori che devono costituire le fondamenta della nuova convivenza internazionale: «rispetto della dignità umana, principio sacro dell’uguaglianza dei diritti di tutti i popoli e per tutti gli Stati, grandi e piccoli, deboli e forti» (p. 387).

Quando, nel concistoro tenuto ai cardinali il 2 giugno 1945 nella ricorrenza del suo onomastico, il Papa ricapitola i termini tenuti dalla Santa Sede nei confronti del nazionalsocialismo, «spettro satanico» che ha investito la Germania, possono scorgersi i motivi che, attenuata la cogenza momentaneamente provocata dalla guerra fredda, saranno materia non contingente di fondo nel confronto tra la posizione di Pio XII e quella degli ebrei anche al di fuori del sionismo ripetutamente evocato.

Il Papa ricorda come la persecuzione perpetrata contro la Chiesa abbia confermato la volontà dei dirigenti tedeschi di concludere dopo la guerra la partita con la Chiesa, non essendo quello bellico il momento migliore per affrontare alla radice la questione religiosa. Dopo aver affermato che la Chiesa ha offerto aiuto e assistenza a tutti, aggiunge che la folla dei perseguitati è formata anche dal clero e da molti laici, solo colpevoli di essere rimasti fedeli a Cristo e alla Chiesa, precisando che fra tutti merita di essere ricordato il martirio del clero polacco per la durezza del trattamento cui è stato sottoposto: ben 2.800 sacerdoti e un vescovo sono stati internati a Dachau, da dove sono usciti vivi soltanto in 816. Non basta: ricorda ancora che anche molti altri in Germania e in altri paesi hanno patito ogni genere di tribolazioni (pp. 389-393).

Il bilancio che Pio XII traccia il 2 giugno 1945 non è soltanto un giudizio storico e tanto meno una forma di non richiesta giustificazione a posteriori. E anche un paradigma teologico, che a sua volta ricorda quello espresso da Proudhon, che, nella prima metà dell’Ottocento, aveva affermato che, nella sua essenza, la storia contemporanea non è altro che un problema teologico. E per la ragione teologica che Pio XII nega, in sede di primo bilancio sul quale non tornerà in seguito, che l’enormità dell’Olocausto, il tentativo di sterminio sistematico e completo di tutto un popolo, quello ebraico, non autorizza nessuno, neppure gli stessi ebrei, a considerarlo come un unicum, staccato da tutte le altre stragi che si sono perpetrate storicamente nel mondo.

Osserva infatti Alessandro Duce che, nel patrimonio teologico che deriva dall’Antico Testamento e fino a Gesù Cristo è comune tanto agli ebrei quanto ai cristiani, il peccato di superbia e di orgoglio commesso dal primo uomo e poi trasmesso per eredità a tutta la storia del genere umano avrebbe alterato l’armonia e la solidarietà esistenti tra Dio creatore e l’ordine intero del creato, e soprattutto la posizione particolare dell’uomo, coscienza storica, custode e trasformatore del mondo, che non esisterebbe per nessuno senza l’intervento dell’uomo, che è certamente un essere creato, con tutti i limiti che impone la creazione ex altero, ma al tempo stesso un essere particolare che non ha l’eguale in tutto l’essere vivente per il suo riferimento del tutto speciale con Dio che l’ha voluto «a sua immagine e somiglianza».

Da questa disobbedienza deriva quello che la teologia cristiana definisce come il peccato originale, che dunque accomuna tutti gli uomini, senza distinzione di nessun genere, nel peccato, nello stesso modo in cui la creazione per così dire speciale l’aveva accomunato nell’armonia e nella solidarietà nei confronti del creato, degli uomini nella loro reciproca alterità, di Dio creatore. Da questa decadenza nasce la necessità di una redenzione che deve riguardare tutti gli uomini, allo stesso modo che la particolarità gloriosa della creazione prima e la caduta umiliante del peccato originale poi avevano riguardato tutti gli uomini.

Il soggetto di questo riscatto è il Dio incarnato, che ha predicato, ha sofferto, è morto ed è risorto per tutti gli uomini e non soltanto per una parte di essi, per quanto importante sia. Per questo tutti gli uomini hanno egualmente bisogno di Gesù Cristo, anche gli ebrei, cui dunque i cristiani rimproverano non il “deicidio”, la morte di Gesù che rientra invece nel progetto generale di salvezza del genere umano dalle conseguenze del peccato originale, bensì il rifiuto di riconoscere Gesù come Messia.

Dall’avvento di Cristo infatti nessuno che conosca, ami, preghi, adori il medesimo Dio, lo El della radice comune della religione monoteistica e trascendente rispetto alla pretesa antropologica, può pretendere di trovare una salvezza, può fare a meno della sua Incarnazione, vale a dire della sua opera di salvezza a vantaggio di tutti gli uomini (pp. 395-397).

I motivi che inducono i cristiani a cercare e ad approfondire le radici della fratellanza giudaico-cristiana, perché in esse è possibile trovare l’universalità che è l’essenza della situazione di chi riconosce l’unico Dio, li inducono anche a combattere e a rifiutare il razzismo del fascismo internazionale soprattutto nella forma cui è pervenuto il nazionalsocialismo tedesco. Alessandro Duce nota che «anche nel mondo razzista c’è il ricordo di un passato felice, di un periodo nel quale regnava un originario equilibrio di natura, un ordine ispirato dalla divinità che rispondeva alla logica della creazione: in questo tempo fra gli uomini e le altre creature regnava un sistema gerarchico che garantiva un’armonia del tutto: alcuni gruppi umani, più capaci e intraprendenti, detenevano posizioni di supremazia, frutto di queste loro doti naturali originarie.

Nel confronto e nello scontro con altri gruppi essi prevalevano, acquistando doti naturali di carattere egemonico, ispiravano imprese significative per il progresso umano, rappresentavano naturali avanguardie: questi gruppi avevano caratteristiche proprie di carattere morale, culturale, sociale e anche antropologico. Esse hanno finito per dare origine a razze vere e proprie distinte dalle altre per elementi sostanziali e immodificabili di natura sociale ma anche fisica che distinguevano gli uni dagli altri.

Questo stato delle cose di naturale “selvaggia” felicità, perché rispondente ad un ordine spontaneo “di natura divina”, è stato rotto, superato, traviato nel corso dei millenni e dei secoli successivi. E stata compiuta una violenza a quell’originario “paradiso terrestre razziale” ad opera di due prevalenti “peccati”. Le razze e i gruppi non dominanti, più deboli intellettualmente e fisicamente, hanno cercato con ogni mezzo di rompere quella situazione d’inferiorità».

Secondo i razzisti, «essi non hanno compreso che l’ordine naturale era preferibile anche per loro. Il tentativo di penetrare nelle “razze superiori” avrebbe dato loro il vantaggio di arrestare la precedente esclusione dai vertici delle comunità umane, ma li avrebbe privati dei vantaggi del contributo delle “razze superiori” che, perdendo la loro originaria purezza e individualità, non avrebbero potuto più manifestare pienamente le loro potenzialità. L’obiettivo delle razze inferiori è stato l’inserimento, la mescolanza sociale e sanguinea con quelle più sviluppate: il risultato è il decadimento morale e sociale dell’intera collettività umana.

A questo peccato esterno, compiuto dai deboli, si affianca quello di alcune componenti delle razze superiori, che avrebbero facilitato l’accostamento, la consanguineità, la fusione fra elementi provenienti da razze diverse. I due “peccati originali” hanno dato vita all’attuale condizione di confusione e di tensione dentro gli Stati e fra gli Stati: al contrario nel tempo antico l’ordine era garantito dalla naturale supremazia delle razze superiori e tutti potevano approfittare dei frutti della loro creatività. L’impegno per il futuro è dunque un ritorno al passato, un riequilibrio fra una situazione di creatività e di gerarchia naturale e una condizione presente di degrado e di disordine.

La politica razziale di Hitler e dei suoi collaboratori affonda le radici in questo convincimento e si esprime con la proclamazione della superiorità della razza ariana, all’interno della quale il popolo tedesco ha avuto e può avere un ruolo trainante per le sue doti eccezionali: occorre riaffermare questi convincimenti, liberare la Germania dal peso e dai freni (morali, sociali ed economici) delle razze e dei gruppi inferiori che si sono infiltrati al suo interno. C’è bisogno di una pulizia razziale» (pp. 393-400).

L’accanimento di Hitler e dei nazionalsocialisti contro gli ebrei dipende principalmente da due motivi. Il primo, di carattere generale, è costituito dal risentimento nutrito per la loro attività volta a favorire la decadenza delle razze superiori attraverso la diffusione di dottrine egualitarie. Il secondo è costituito dal ruolo fondamentale che gli ebrei hanno avuto nella sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale attraverso la suggestione esercitata dalle élites ebraiche americane. L’uno e l’altro costituiscono i due pilastri dell’Olocausto (p. 401).

Alessandro Duce si sofferma ad indicare la diversità che sussiste con la posizione cristiana, che, nonostante passate, gravi e talvolta sanguinose incomprensioni con gli ebrei, non ha proprio nulla in comune con quella nazionalsocialista, fondata sulla superiorità della razza, che non ha alcun posto nella visione del mondo cristiana. C’è da dire invece che, come ha sottolineato Pio XII nel bilancio dei suoi rapporti con la Germania e con il nazionalsocialismo nella seconda guerra mondiale, era proprio l’inscindibilità del binomio tra origine giudaica e continuità cristiana, alla base della vera e propria persecuzione contro il cristianesimo attuata in diverse fasi, a prospettare l’in evitabilità dell’annientamento dei cristiani come ultima fase di un olocausto cominciato con gli ebrei (pp. 401-403).

In generale si può dire che la storiografia non ha prestato attenzione al rovesciamento della funzione esercitata dall’evoluzione del principio di nazionalità nella storia contemporanea degli ebrei, che hanno salutato l’avvento della rivoluzione nazionale come il sorgere del sole dell’emancipazione israelitica lungo i binari di un liberalismo che autorizzava ogni speranza. Gli ebrei di ogni paese hanno creduto che fosse una conquista permanente l’integrazione di ogni credo religioso e di ogni etnia nel corpus dei singoli Stati nazionali appartenenti alla grande civiltà, ma una parte di essi ha nello stesso tempo ritenuto che questa integrazione fosse conciliabile con il sionismo, che, per il solo fatto della sua esistenza, sottolineava l’autonomia del mondo ebraico rispetto a tutto il resto e faceva di Sion la cittadella, il punto di riferimento ideale, cui gli ebrei di tutto il mondo erano tenuti a guardare.

Di qui a pensare che il mondo ebraico sia inconciliabile con il principio nazionale il passo è breve, ed è compiuto dal “pangermanesimo” di cui Hitler è l’araldo estremo, per cui si può affermare che l’Olocausto è l’immolazione del terribile sacrificio destinato a mostrare la mancanza di universalità del principio nazionale. Quando già il pangermanesimo comincia a far circolare con insistenza l’invincibile inadempienza degli ebrei al dovere della loro assimilazione nel corpo del Reich tedesco, gli ebrei continuano a tener fede con la massima imperturbabilità al principio nazionale come fonte del miglior reggimento dei popoli.

Così il noto filosofo della politica e politologo Emil Reich, in un volume che circola con successo in tutta Europa ed è tradotto anche in italiano nel 1905 con il titolo II successo delle nazioni, indica lo Stato nazionale europeo come modello capace di assicurare stabilità, unità e capacità di agire nello stesso tempo e per gli stessi motivi per cui critica il modello federale degli Stati Uniti come apportatore di inguaribile debolezza verso l’esterno e di fermento di dissoluzione interna.

Perché anche nel mondo ebraico europeo s’inneschi l’inizio di un’inversione di tendenza bisogna oltrepassare la prima guerra mondiale, assistere senza prendere posizione al trionfo di Mussolini, che pure non perde occasione di gridare ai quattro venti di essere nazionalimperialista: solo con il delitto Matteotti si passa alla presa in considerazione, e non senza incertezze ed esitazioni, del modello federale quale l’optimum per il reggimento dei popoli. Prima c’è la prima guerra mondiale, cui gli ebrei partecipano versando il sangue secondo la propria nazione.

Questo non basta per stornare i sospetti dei vari nazionalismi europei, che intendono profittare della guerra generale per agire secondo il principio del nazionalismo assoluto, che esige un’assimilazione assoluta che deve essere certificata da un’omologazione altrettanto assoluta. Anche gli ebrei pagano a loro spese, e con un prezzo molto più alto, la comprensione del fatto che anche la migliore dottrina, verbalmente ineccepibile, riesce a salvare la propria validità solo mantenendo fede alla funzione, e non alla formula verbale che l’ha generata.

Questo giudizio, unito al tipo di analisi che lo genera, rinvia al rapporto che viene storicamente a stabilirsi tra definizione, formula politica e funzione. Afferma Alessandro Duce a questo pro-posito che «nell’analisi in questione […] si coglie un aspetto essenziale della questione: la difficoltà per le Chiese, e per quella cattolica in particolare, di affrontare una battaglia in campo aperto con i poteri dello Stato.

C’è in questa delicata realtà il dramma concreto di molte coscienze di credenti, di molti religiosi e, in disperse occasioni, degli esponenti più autorevoli dei vertici cattolici. L’ accettazione e il rispetto delle leggi, la sottomissione come cittadini al potere statale, il rispetto per l’ordine costituito, il forte senso di appartenenza nazionale o statale hanno rappresentato un elemento di continuità e di generale approvazione da molti decenni: i governi hanno preteso lealtà e ubbidienza dai cittadini nel nome del consenso che li ha prodotti, hanno esercitato il potere in nome degli interessi delle comunità che li hanno eletti e li hanno accettati, hanno identificato il proprio operato con il bene delle comunità da essi guidate.

Lo stesso movimento nazionalsocialista persegue con determinazione l’obiettivo di assumere la guida del governo e non rifugge da alleanze tattiche e da dichiarazioni rassicuranti. Solo in un secondo momento vuole la distruzione di tutte le altre forze politiche, pretende l’allineamento delle componenti sociali, impone una cultura e una educazione di Stato: con queste scelte trasforma la natura stessa dello Stato precedente, lo rende totalitario e assoluto. […] I cittadini, abituati da decenni all’osservanza delle disposizioni statali, al rispetto dei governi costituiti, educati alla lealtà e alla collaborazione, faticano a cogliere gli elementi costitutivi del passaggio dallo Stato parlamentare democratico a quello totalitario, assoluto».

Questo spiega come i cattolici tedeschi, compresi i vescovi, e  la stessa Santa Sede trovino difficoltà «ad affrontare l’azione dello Stato, condannarne le pretese, limitarne i confini, denunciarne gli abusi: c’è il pericolo di essere accusati di essere nemici non del governo in carica ma dello Stato che esso rappresenta, cioè del popolo tedesco […]. A tal punto il potere statale non solo presso i cittadini, ma anche in Vaticano trova rispetto e considerazione in una prassi consolidata da decenni nei rapporti Stato-Chiesa. Così, nei momenti di maggior tensione e divaricazione tra la politica razziale degli Stati e la proclamata “sostanziale uguaglianza” di tutti gli esseri umani, si incontra la difficoltà di contrastare sul piano pratico l’azione statale […].

Questa situazione, nei casi più estremi di persecuzione, porta le autorità religiose locali, quelle diplomatiche e lo stesso Vaticano ad intervenire per mitigare quelle azioni nel nome dei diritti dell’uomo. […] Si osserva giustamente da parte di alcuni che questo è assai poco e non ha prodotto risultati apprezzabili. Se ciò è innegabile, come lo è la mancata emissione di documenti autorevoli ed espliciti sull’antisemitismo di Stato, è pure da rilevare che la Santa Sede non riesce a fermare la violenza nei confronti dei credenti dove sono state raggiunte intese concordatarie.

La constatazione della carenza pastorale mette in evidenza un problema, ma rischia di rimanere in superfìcie se non se ne discutono le ragioni e non si cerca di capirne le motivazioni: timori, paura di reazioni, senso d’inferiorità, coscienza d’impotenza, preoccupazioni per eventuali ritorsioni, fiducia nelle risorse diplomatiche» (pp. 405-407).

Per meglio conoscere il pensiero di Pio XII sui rapporti tra Stato e Chiesa, su laicisrno e confessionalità, Alessandro Duce mette allora in confronto l’allocuzione ai cardinali del 2 giugno 1945 con il messaggio natalizio dello stesso anno. Mentre nell’allocuzione si presenta con una certa fierezza la preveggenza della Chiesa, nel messaggio natalizio l’analisi «si allarga ad un periodo più ampio di circa un secolo e si affronta la nascita dello Stato moderno, costituzionale e laico, la sua evoluzione e la sua drammatica decadenza verso l’autoritarismo e il totalitarismo, fino a diventare a sua volta una forma di idolatria».

Nel secondo messaggio non si deplorano le critiche all’azione della Chiesa, non si prova la soddisfazione per le sue previsioni, neppure sì denuncia la sua emarginazione dalle stanze dei bottoni. Queste cose ci sono state, ma dipendono dalla logica stessa delle guerre contemporanee. Pio XII ammette che l’azione umanitaria della Chiesa è stata del tutto inadeguata rispetto alle necessità, ma afferma nello stesso tempo che «la sua vocazione di carattere universale è stata negata e combattuta proprio dalle correnti ideologiche che hanno ispirato l’individualismo nazionale e statale ed hanno operato con tutti i mezzi per rompere l’unità della Chiesa» (pp. 407-409).

Il motivo per cui si è cercato di escludere gli elementi religiosi dal contesto pubblico è dipeso dal tentativo di cercare «di mantenere l’unità dello Stato attraverso la cultura laica e l’umanesimo secolarizzato». Quali sono state le conseguenze? Non solo lo Stato laico non è stato in grado di raggiungere il risultato che sperava, ma ha aperto il vaso di Pandora che ha portato alla «tomba della sana libertà umana, alle organizzazioni forzate, un mondo che, per brutalità e barbarie, per distruzioni e rovine, soprattutto però per funesta disunione e per mancanza di sicurezza non aveva conosciuto l’eguale».

Il Papa osserva che, dopo tre decenni di guerre devastanti, «ora l’umanità ha bisogno “di ordine, pace e prosperità”», ma che «queste condizioni possono verificarsi se sarà sconfitto in modo definitivo lo “Stato totalitario” e saranno ripudiati, senza incertezze, l’uso dispotico della forza e ogni forma di tirannia» (p. 409). A questo punto il discorso si profila con chiarezza: «E errato processare la Chiesa per una sua presunta debolezza nei confronti di questo potere dispotico e violento. È più giusto riflettere sulle cause che hanno determinato questo fenomeno […] è quantomeno curioso che coloro che hanno “reciso le forze della Chiesa” ne pretendano poi il vigore per fermare la degenerazione di questi apparati originali». Su questo tono Pio XII procede affermando che non solo «la Chiesa non ha alcuna responsabilità nella formazione degli Stati moderni, ma che è un errore attribuirle un potere di contrasto che non ha se non sul piano morale» (pp. 410-411).

Nel messaggio natalizio del 1945, Pio XII insiste anche sulla debolezza delle élites e dei partiti che non hanno saputo impedire l’occupazione dei poteri dello Stato moderno (pp. 410 e 412).

Riguardo alle atrocità belliche, Pio XII non manca di condannare il coinvolgimento delle popolazioni civili attraverso i bombardamenti degli alleati, tuttavia ha ben chiaro il fatto che quando gli anglo-americani bombardano le popolazioni civili tedesche lo fanno per costringere la Germania alla resa, non per estinguere il popolo tedesco, mentre quando i tedeschi affrontano il problema ebraico lo fanno per estinguere tutti gli ebrei in quanto tali (p. 413).

Come conclusione finale, Alessandro Duce afferma che «se il peso del passato antigiudaico nel mondo cattolico europeo e presso i vertici episcopali e vaticani fosse stato di rilievo, ancora più meritoria risulterebbe l’opera di Pio XII e dei suoi più diretti collaboratori. Essi in questo caso avrebbero dovuto affrontare una forte resistenza interna, operare per convincerla e renderla docile a indicazioni e suggerimenti poco graditi.

C’è al contrario una generale testimonianza, con poche eccezioni, di una comune valutazione dell’emergenza in atto, si registra un diffuso senso di solidarietà nei confronti del mondo ebraico, anche di quello non convertito, e prende corpo una significativa rete di solidarietà. Quest’opera innegabile si coniuga con la difesa dei valori della convivenza civile, la condanna della guerra e delle sue atrocità e la tutela della struttura ecclesiale, senza esporla a un rischio “di un bagno di sangue”» (2) (p. 415).

Questo può accadere perché, per la Chiesa, la «guerra quadrangolare di religione» che coinvolge cattolici, protestanti, ebrei e musulmani non è più attuale a partire dalla seconda metà del Seicento per l’effetto congiunto del Trattato di Westfalia, che nel 1648 pone fine alla guerra dei Trent’Anni, e per lo scacco subito dall’esercito turco davanti alle mura di Vienna e di Budapest alla fine del secolo. È da quel periodo che le guerre di religione cessano di apparire nelle agende di lavoro degli Stati cattolici: la sola che appare ancora per qualche tempo, la «crociata per la liberazione dei luoghi santi», vi resta per una sorta di omaggio letterario a una storia lunga, che a poco a poco si dissolve da sé fino alla sua completa immersione nella “questione di Oriente” dai contenuti soltanto politici.

Questa trasformazione coinvolge le lotte, in precedenza dipinte con i colori della religione, considerate nei loro aspetti di espansione politica, economica, sociale, nazionale, culturale, ideologica, linguistica, che come tali vanno trattate. A questa trasformazione contribuisce in prima persona, con piena consapevolezza e come soggetto attivo, la Chiesa cattolica, la quale si libera così da un passato che non ha più ragione di essere. Le eccezioni si hanno soltanto in quelle zone, come la Penisola Balcanica e qualche zona danubiana, dove membri anche numerosi, qualificati ed organizzati della confessione cattolica come possono essere gli ordini religiosi, usano trattare i problemi religiosi in termini che non rispondono alla vocazione evangelica, come risulta dalla difficile trattazione di quelli che la stessa Santa Sede considera gli “scandali” di Tiso in Slovacchia e di Ante Pavelic in Croazia.

Per questo motivo Alessandro Duce osserva che «negli anni della violenta persecuzione non c’è traccia di discussione di natura religiosa fra coloro che hanno accolto Gesù e quanti lo hanno respinto. Se fossero esistite forti opposizioni interne legate alle radici delle identità di ciascuno, esse si sarebbero manifestate: al contrario non si sviluppa alcun dibattito, alcuna opposizione, alla eventualità di un’opera di soccorso e di aiuto».

L’autore accenna «a qualche intervento non molto significativo che solleva la questione delle responsabilità storiche ebraiche», ma afferma anche che «queste voci, e sono rare, non sollevano le precedenti polemiche sulle responsabilità storiche del “popolo deicida”, ma piuttosto prospettano riserve e perplessità sull’operato dei singoli ebrei o di gruppi all’interno della società», e inoltre, come emerge dall’ampio materiale diligentemente raccolto e attentamente studiato, provengono pressoché soltanto dai «casi speciali» della Slovacchia e della Croazia, in cui permane ancora tenace l’eredità di un passato lontano.

In questa ed in altre occasioni, in diversi interventi, Pio XII sente la necessità di precisare i criteri che hanno ispirato la sua condotta e sottolinea la necessità di procedere con prudenza per non arrecare danni ulteriori alle possibili vittime, anche a costo, come sottolinea Alessandro Duce, di appannare lo splendore profetico della Chiesa secondo le previsioni di Edith Stein (p. 394).

L’autore rileva che la vexata quaestio del parlare o non parlare pubblicamente contro lo sterminio degli ebrei e la falcidia dei popoli che si sono opposti al nazionalsocialismo è mal posta: «Non è possibile sostenere che ad espressioni più forti, esplicite e pubbliche sarebbero seguite reazioni più convinte da parte del mondo cattolico e una maggiore prudenza da parte del governo tedesco: poteva verificarsi la reazione opposta. Ambedue le ipotesi potrebbero, in sede politica (non storica), trovare elementi di sostegno e di difesa, ma ambedue sono prive di validità: non è possibile la controprova.

Molti – continua Alessandro Duce – non riescono a comprendere che alla critica di aver parlato poco si potrebbe affiancare, senza paure di smentite, quella di aver parlato troppo: nessuno può valutare l’esito dei due eventuali opposti comportamenti». Per evitare di cadere nel pericolo dell’antistoria fondata sul “se” o sul “ma”, è opportuno, per l’autore, «rimanere nel campo della ricerca senza uscire dalle certezze che offrono le fonti documentarie» (pp. 394-395).

Note

1) Così il contributo da me scritto sull’atteggiamento di Pio XII durante la seconda guerra mondiale in Rivista di Storia della Chiesa in Italia, a. 22 (1968), pp. 506-553.

2) II corsivo è di Danilo Veneruso.