Radici Cristiane n.47 settembre 2009
Un noto teologo odierno ci chiarisce gli errori fondamentali di uno dei maggiori esponenti di quella teologia eversiva che nel XX secolo ha afflitto la Chiesa al suo interno, e le cui nefaste influenze sono dinanzi agli occhi di tutti noi cattolici.
Fr Giovanni Cavalcoli, op
Sappiamo come di recente il Papa, parlando dell’interpretazione degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, ha rilevato l’esistenza di un’ “ermeneutica della rottura”, da lui giudicata fuorviante, e l’ha contrapposta all’ermeneutica giusta che ha chiamato “della continuità”.
Il teologo gesuita Karl Rahner (1904-1984), secondo quanto sta apparendo con sempre maggiore chiarezza da uno studio critico di molte delle sue opere condotto ormai da decenni, è forse l’esponente maggiore di tale ermeneutica della rottura, che da quarantenni ha attirato e continua ad attrarre schiere di teologi e pastori in tutto il mondo.
L’ermeneutica della rottura è una caratteristica di gran parte della teologia di Rahner, una teologia che enfatizza il nuovo, il moderno assolutizzato, fine a se stesso e senza discernimento, in modo tale da portarlo a una rottura con quel passato nel quale si trovano quelle radici cristiane, dalle quali soltanto può sorgere una sana modernità, che non può essere sana se non in continuità con quelle radici, che contengono valori divini, perenni e immortali.
La modernità secondo Rahner
Rahner ha avuto la buona idea di cercare di ammodernare il cristianesimo, di creare un dialogo del cristianesimo con la modernità. Ma ha sbagliato nel concepire il moderno. È rimasto vittima del mito idealista tedesco della “filosofia moderna”. Non è sbagliato di per se aspirare a una filosofia moderna, apprezzare una filosofia moderna, perché si suppone che sia meglio informata, più sapiente, più solida e più intelligente dell’antica. Esiste un tomismo moderno certo migliore di quello del Sei o Settecento.
L’errore di Rahner è stato quello di optare per una filosofia “moderna”, la quale è stata sì moderna nel senso temporale, ma non nel senso qualitativo. Che cosa conta che una filosofia sia temporalmente moderna se poi di fatto ricade in antichi errori pagani, che già erano stati corretti dalla filosofia cristiana medievale, autrice delle radici cristiane dell’Europa? Che “moderno” è quel moderno che distrugge un passato, quale quello delle radici cristiane dell’Europa, legato all’immutabilità della parola di Dio, quella parola della quale Cristo ha detto: «Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno?».
Rahner ha concepito il progresso come rottura, come contraddizione col passalo di una tradizione cristiana sacra e perenne, quella che appunto si chiama sacra Tradizione, sorgente della divina rivelazione insieme con la Sacra Scrittura, come da sempre insegna la Chiesa Cattolica. Questa rottura è nata dal fatto che Rahner non si è accorto della perenne validità di tale Tradizione, come condizione di vero progresso.
Da che cosa sorge, da quali radici sorge la modernità rahneriana? Da un idealismo come quello che – per sua espressa dichiarazione – trae origine da Cartesio, passa per Kant. Fichte. Schelling ed Hegel e giunge ad Heidegger. Ma la tanto declamata novità cartesiana, come dimostrano gli storici del pensiero, in realtà riprende le fila dell’antico pensiero greco presocratico dei parmenidei, degli eraclitei, dei sofisti e degli scettici. Anche la continuità non è un valore, se è la continuità di un vizio perenne della ragione, come quello che si trascina da Protagora ad Heidegger.
Continuità ed evoluzione
Rahner non ha capito qual è la legge dell’evoluzione dogmatica. La vera evoluzione non è rottura, ma esplicitazione nella continuità. Non suppone l’equivocità, ma la continuità analogica. Il dogma di Calcedonia contiene la stessa verità della cristologia del Vaticano II, solo che nel corso di quattordici secoli la Chiesa ha conosciuto meglio (e come diversamente avrebbe dovuto accadere?) quel medesimo mistero di Cristo che già è immutabilmente e definitivamente enunciato dal dogma calcedonese.
Rahner ha inteso gli insegnamenti del Concilio come rottura con la Tradizione. Egli distrugge la Tradizione e quindi non opera in nome di una sana modernità, ma di un rinnovato modernismo peggiore di quello dei tempi di san Pio X. Per Rahner la verità cristiana comincia col Vaticano II da lui interpretato peraltro in modo modernistico. Prima c’è la barbarie, il vuoto, il nulla. Nessuna radice. Nessuna sorgente, nessuna base o nessun principio. Ma tutto comincia con Cartesio per finire con Heidegger. L’idealismo tedesco poi si sposa in Rahner con l’influsso luterano.
Tuttavia uno potrebbe obbiettare: ma in fin dei conti, anche Rahner ha rispetto per il passato e per la Tradizione, giacché anch’egli, almeno a quanto pare, basa la tua teologia sulla Sacra Scrittura e sulla storia del Cristianesimo e della teologia cattolica.
Sì, ma con quale impostazione? Non con l’impostazione del vero cattolico, il quale accoglie docilmente e fiduciosamente tutti i pronunciamenti dottrinali o dogmatici del Magistero della Chiesa e dei concili ecumenici, quali pepite d’oro che appaiono via via nel fiume della storia, ma con l’atteggiamento tipicamente luterano del “libero esame” (con la scusa dell’ “esegesi storico-critica”), che di volta in volta, con diversi pretesti, si permette di stabilire in questo preziosissimo e ricchissimo patrimonio della Tradizione, quello che gli garba o non gli garba alla luce di quella che egli chiama “filosofia moderna”.
Qual è il risultato? Un puro e semplice gnosticismo (come rivelano chiaramente gli studi di don Ennio Innocenti), come è stato quello dell’idealismo tedesco fino ad Heidegger. Dove va finire la fede? Non e più virtù teologale soprannaturale con la quale si accoglie per vero quanto Dio ha rivelato e la Chiesa ci propone a credere, ma la famosa «esperienza trascendentale aprioristica ed atematica», ispirata all’ermetismo, alla teosofia, a Schleiermacher e ad Heidegger. Insomma. un rinnovato gnosticismo, col quale Rahner crede di conoscere Dio e Cristo meglio di quanto gli insegna la Chiesa Cattolica.
Rahner non è capace di unire l’immutabile col mutevole sul piano dei concetti. Immutabile e universale è soltanto l’ “esperienza trascendentale”, ma essa è ineffabile (“Mistero assoluto”) e non concettualizzabile; viceversa il concetto (il “categoriale”), anche quello dogmatico, è privo di universalità e immutabilità. Ne viene la conseguenza incresciosa che la verità teologica esiste, ma è inesprimibile; mentre ciò che può essere espresso appartiene solo al campo del particolare, del mutevole e dell’incerto.
Divinizzazione dell’uomo
L’etica rahneriana. come sempre avviene, è conseguenza logica dei suoi princìpi metafisici, gnoseologici e antropologici. La base fondamentale di tutto, come fu acutamente denunciato a suo tempo da Cornelio Fabro. è l’identificazione dell’essere col pensiero, identificazione che perla verità, è propria solo dell’essenza divina, ma che invece Rahner pone come principio di tutto il reale. Da qui il panteismo in metafisica e l’idealismo in gnoseologia.
Da qui viene anche l’identificazione dell’essere con l’agire e col divenire e la tendenza monistica che non distingue più adeguatamente il vero dal falso, il bene dal male, l’eterno dal temporale, il finito dall’infinito. Dio dal mondo. Ciò non gli impedisce peraltro di cadere in dualismi irresolubili, che qui non è il caso di esaminare. Per distinguere egli separa, e per unire, confonde.
Da questi principi fondamentali discende la sua concezione del rapporto dell’uomo con Dio: la ragione umana non dimostra l’esistenza di Dio partendo dagli effetti creati, come insegna san Paolo (Rm. 1,20) e il libro biblico della Sapienza (Sap. 13,5), ma possiede originariamente ed atematicamente un’«esperienza preconcettuale dell’essere» (“Vorgriff”). nella quale legge immediatamente la propria autocoscienza e l’esistenza di Dio. Come nella conoscenza divina, non si passa dalle cose a Dio, ma da Dio alle cose. Rahner confonde il sapere umano col sapere divino.
L’uomo dunque è già di per sé originariamente, benché “atematicamente”. potenzialmente Dio; Dio non è che la piena attuazione dell’uomo (Dio è l’ «orizzonte trascendentale dell’autotrascendenza umana»). Dunque nessuna reale distinzione tra natura umana e grazia. L’uomo è per essenza in grazia, la natura umana è definita dalla grazia, senza la grazia è nulla, è pura “astrazione”, pura “possibilità” (polemica contro la “natura pura”).
La quale grazia poi non è un dono di Dio, o un accidente (qualità) dell’anima, ma è Dio stesso, che così diventa il costitutivo sostanziale dell’uomo (“causa formale” dell’uomo), confodendo così Dio con l’anima umana. La grazia dunque è inammissibile, così come l’uomo non può perdere la sua essenza. Da qui l’estrema difficoltà con la quale Rahner cerca di spiegare l’esistenza del peccato.
La distruzione del cristianesimo
Da qui la tesi secondo la quale tutti per essenza tendono a Dio, tutti sono sempre in grazia, tutti si salvano (“buonismo”), il peccato diventa impossibile oppure è un costituivo irrilevante della natura perché sempre perdonato da Dio (Lutero), da qui la negazione della redenzione di Cristo come sacrificio espiativo e riparatore del peccato (e quindi la crisi del sacerdozio, della Messa e della Liturgia).
Da qui la negazione dì una natura umana oggettiva. universale e immutabile (difetto dell’esistenzialismo), dell’immortalità dell’anima (col rischio del materialismo), della legge naturale (con conseguente relativismo morale), dell’oggettività della conoscenza concettuale-razionale (con la conseguenza del relativismo dogmatico) e del libero arbitrio (con la conseguenza di un’etica spontaneistica, antiascetica e schiava delle passioni: Freud), la negazione della Parusia futura di Cristo (Parusia adesso), dei privilegi mariani (niente verginità), dell’esistenza degli angeli (sono solo “possibili”), di dannati nell’inferno (non c’è nessuno) e la tesi secondo la quale anche l’ateo è credente (“cristianesimo anonimo”).
La cristologia è concepita hegelianamente in modo evolutivo-dialettico come passaggio dall’umano al divino e viceversa (riappare l’eresia di Eutiche), sicché Rahner giunge alla conclusione che antropologia, teologia e cristologia sono la stessa cosa (effetto del panteismo). Le tre Persone divine non sono tre relazioni sussistenti ovvero tre sussistenze, ma tre “modi di sussistenza” di un’unica persona-natura-sussistente (modalismo), mentre l’essenza della Trinità si risolve nel suo manifestarsi al mondo («la Trinità immanente è la Trinità economica»). Allora Dio è obbligato a creare? È obbligato a incarnarsi? A manifestarsi all’uomo? Qui si vede l’influsso della fenomenologia di Husserl e viene anche in mente Hegel: «Senza il mondo. Dio non è Dio».
In particolare, in morale, la persona appare come soggetto meramente spirituale (cf. la res cogitans di Cartesio), che liberamente (come in Fichte, Gentile e Sartre) pone o progetta la propria essenza e quindi la legge morale, la quale quindi non è posta da Dio nella natura umana, ma il soggetto liberamente la pone da sé onde porre la propria essenza e la propria natura. Salvo poi a porre la persona come emergente dalla materia, per il fatto che viene negata la distinzione fra anima e corpo.
La persona non appare come «individua substantia rationalis naturae», ma alla maniera idealistica, come autocoscienza e libertà, come una specie di relazione sussistente in atto, sicché c’è poi da chiedersi come potranno essere persone quei soggetti i quali per vari motivi non possono o non vogliano relazionarsi a Dio ed agli altri.
Figlio dell’orgoglio moderno
I princìpi di fondo possono riassumersi in una divinizzazione gnostica dell’uomo e in una secolarizzazione del soprannaturale, si fanno sentire in vari modi: nel suo stesso metodo di pensare e di argomentare, dettato spesso da presunzione nei confronti delle massime autorità nel campo della filosofia come della religione, nell’aver sempre ignorato le osservazioni e le critiche che gli sono state fatte per decenni da eccellenti studiosi e teologi, nel sollecitare o suggerire una condotta morale improntata a un esagerato amore per la libertà personale, nel disprezzo dei valori oggettivi, eterni e universali, insomma un’esaltazione dell’io che ben poco ha a che vedere con un sano amore di sé riconosciuto dal cristianesimo, ma assomiglia molto di più al soggettivismo e alla presunzione tipici della religiosità luterana e al limite alla spropositata esaltazione dell’io propria dell’etica fichtiana.
Appare l’ombra sinistra di Nietzsche. Siamo ancora nel Cristianesimo? È questa l’interpretazione del Concilio?
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