Pubblicato su Avvenire del 22 novembre 1988
A venticinque anni dall’assassinio del presidente americano
Cuba e Vietnam, mafia e sesso: un’occasione perduta
di Luciano Garibaldi
Questa premessa è indispensabile a chiunque si accinga a ricordare l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti d’America avvenuto a Dallas il 22 novembre 1963: 25 anni fa. «L’America si agita ogni volta che un Kennedy fa un ruttino» , ha scritto di recente con una punta di rancore l’ex presidente Nixon, che di Jfk fu l’acerrimo rivale durante le presidenziali del 1960 (vinte da Kennedy con uno scarto di soli 100 mila voti) e che in seguito ebbe la carriera ostacolata e distrutta dalla irriducibile, acerrima ostilità dell’intero “clan” Kennedy.
Le parole di Nixon riflettono uno stato d’animo effettivamente presente negli Stati Uniti, dove, a 25 anni dalla morte, il mito del «presidente della nuova frontiera» rimane praticamente intatto, nonostante gli errori, le mosse sbagliate, le tante ipocrisie che, come vedremo, caratterizzarono i tre anni della presidenza di Jfk.
Giovane, bello, anzi bellissimo, aitante nelle sue giacche di alta sartoria, sempre attillate, che sfoggiava disinvoltamente anche a 20 gradi sotto zero, avendo scoperto che una maglia di cachemire ripara dal freddo meglio di un cappotto. Kennedy si rivolgeva all’immaginario primitivo ed elementare di una nazione semplice, superficiale, attratta, nella sua maggioranza, più dalla forma che dalla sostanza.
I suoi miti (il giovanilismo, la “nuova frontiera”, cioè la legge sui diritti civili dei negri negli Stati del Sud) attecchirono nell’America della “beat generation”, condizionata e influenzata dai “liberals”, «quella parola», come ha detto Reagan a proposito di Dukakis «che incomincia per “elle” e che non desidero pronunciare».
Intendiamo riferirci ai “liberals” infiltrai ai vertici dei grandi mass media, del “New York Times”, del “Washington Post”, delle reti televisive, delle organizzazioni culturali come le Università. In Europa, nella vecchia, ammaestrata Europa, il fenomeno Kennedy non sarebbe stato possibile.
Eppure fu proprio un “liberal”, il senatore Church, capo della Commissione d’inchiesta parlamentare nominato dal Congresso per far luce sull’assassinio di Kennedy a ribaltare le ridicole conclusioni cui era giunta, tanti anni prima, la Commissione Warren, a far luce sugli intrighi mafiosi che erano probabilmente all’origine dell’agguato a Dallas.
Una storia che parte da lontano, da un gruppo di guerriglieri rifugiatisi, sotto la guida di un giovane studente di nome Fidel Castro, nella Sierra Maestra di Cuba. Era stata proprio la mafia a finanziare e a rifornire di armi i castristi, con ripetuti lanci nella boscaglia, sperando che essi riuscissero a far fuori il dittatore cubano Batista, che si stava dimostrando un duro e tenace nemico dei suoi traffici.
Protagonista della manovra era stato Calogero Minatori, detto Carlos Marcello, siciliano di “Cosa Nostra”, controllore del 70 per cento delle case da gioco di Cuba , nelle quali i ricchi americani andavano a dissipare le loro fortune, e registra dello smistamento della droga dal Sud America verso gli Stati Uniti. Dalla vittoria di Castro, la mafia si aspettava di poter riprendere le sue attività a Cuba. Grosso sbaglio.
Una volta al potere, il dittatore comunista si dimostrò più inflessibile del suo predecessore. Da qui il desiderio di vendetta di “Cosa Nostra”, che s’inseriva perfettamente in quello di rivalsa politica degli Stati Uniti verso Cuba, dopo il fallimento dello sbarco alla “Baia dei Porci” e il duro confronto dell’agosto 1982 per la questione dei missili.
Con Castro, sempre più aggressivo nei confronti degli Stati Uniti, finanziatore dei movimenti di guerriglia in tutto il Centro e Sud America, l’intero establishment americano voleva saldare i conti. In particolare lo voleva il potente capo dell’Fbi, Edgard J. Hoover, implacabile nemico, in egual misura, dei comunisti e dei terroristi negri che, in modo più o meno aperto, si richiamavano a Martin Luther King.
La Commissione Church provò che, ai primi del 1963, Kennedy aveva accettato il progetto del senatore della Florida Gorge Smalther per uccidere Castro. Un piano che imponeva ai servizi segreti di lasciar lavorare indisturbati gli esecutori del complotto: proprio Calogero Minatori, con l’assistenza di Sam Giancama, Santo Trafficante, e Johnny Roselli, gangster incaricati della missione da “Cosa Nostra”.
E’ storicamente provato che furono fatti ben 24 tentativi di assassinare Castro, tutti andati a vuoto. In più di una occasione i killer designati furono catturati dagli agenti del Kgb sovietico che proteggevano Castro, e uccisi sul posto. E ben presto Kennedy fece marcia indietro. Giudicava troppo pericoloso essersi lasciato invischiare fino a quel punto. Ma era ormai tardi, tanto più che si era preso per amante Judith Campbell Exner, la ex donna di Sam Gincana, presentatagli da Frank Sinatra , autorevole esponente del suo “clan” e al tempo stesso strettamente legato alla mafia.
A quel punto la “querelle” tra il presidente e “Cosa Nostra” si trasforma in un pericoloso braccio di ferro. Hoover sempre più imbestialito contro Kennedy per la sua politica favorevole ai negri minaccia di rendere pubblica la storia del complotto contro Castro, Kennedy accetta la sfida. Si sente più forte di “Cosa Nostra”. Non solo continua a tenere per amante l’ex donna di Gincana, ma svillaneggia e perseguita i profughi cubani anticastristi, e, attraverso l’ambasciatore americano in Guinea, William Atwood, cerca di stabilire un accordo di pace con Cuba.
Infine, proprio pochi giorni prima di Dallas, fa arrestare Sam Gincana, lanciando un implicito monito sia a Hoover, sia alla mafia: «Se continuerete a ostacolarmi nella mia politica contro l’apartheid, se non smetterete di attentare ala vita di Castro, scatenerò la guerra contro il crimine organizzato». E’ troppo. A questo punto “Cosa Nostra” deve far vedere che la più forte è lei. La Cia e l’Fbi non la ostacolano. Parte il complotto con Lee J. Oswald, ex agente della Cia designato fin dall’inizio come capro espiatorio, e Jack Ruby, non a caso “creatura” di Santo Trafficante, incaricato di uccidere Oswald davanti alle telecamere, soli due giorni dalla cattura.
Il resto della storia, con Ruby “misteriosamente” morto di cancro in carcere, San Giancana abbattuto a revolverate nel ’65, Johnny Roselli trovato cadavere in un bidone di benzina al largo di Miami e, con l’incapacità della giustizia americana di arrivare, dopo 25 anni, a una parola definitiva sul complotto di Dallas, è la consueta, sanguinosa “coda” delle grandi vicende di mafia (Salvatore Giuliano e Michele Sindona insegnano).
Questa è ancora oggi la ricostruzione più attendibile della morte di Jfk, anche perché il crisma di una Commissione parlamentare d’inchiesta, e sebbene i commissari, prevalentemente “liberals”, attribuissero alla mafia non un desiderio di vendetta, ma quello di prevenire una fantomatica offensiva contro il crimine organizzato, che il presidente e suo fratello Robert, ministro della Giustizia, sarebbero stati in procinto d’intraprendere.
Chissà, poi, come avrebbe fatto, viste le loro saldissime amicizie con Frank Sinora e gli ambienti di “Cosa Nostra”, amicizie che, peraltro, riandavano molto addietro negli anni, quando il loro padre, Joseph, aveva fatto i miliardi trafficando con i gangster di Chicago all’epoca del proibizionismo, fedele al suo celebre motto: «Con il denaro si può ottenere tutto».
Del resto, servizi segreti americani e “Cosa Nostra” erano legati allora, come lo sono (forse un po’ meno) oggi, come lo furono, strettamente, nel passato, quando mobilitarono la mafia siculoamericana per la preparazione dello sbarco in Sicilia del luglio 1943: un’antica alleanza che i repubblicani da otto anni al potere a Washington, troveranno difficile, anche se ci provarono, a troncare.
Per il resto che cosa rimane di Jfk, al di la della mitologia populista e delle infinite “storie rosa” sulla sua vita sentimentale, servite da sfondo ad almeno un centinaio di libri più o meno romanzati e a decine di “serials” televisivi? Rimane che fu il primo, e finora unico, presidente della storia degli Stati Uniti non “Wasp” (White Anglo Saxone Protestant). Biancosi, anglosassone solo a metà, perché era di origine irlandese, e soprattutto cattolico, in un albo presidenziale monotamente popolato d protestanti. Che grande occasione perduta!
Amava la pace, ma con lui il mondo rischiò la terza guerra mondiale, perché egli si getò nel pericoloso braccio di ferro con l’Urss per i missili a Cuba, senza allertare le Forze Armate, senza informare il Parlamento (vecchia abitudine dei democratici americani, fin dai tempi di Pearl Harbour, nascondere al popolo le decisioni fatali), e lo vinse solo perché dall’altra parte c’era in fondo un buon diavolo di nome Kruscev.
Coinvolse l’America nella sventurata guerra del Vietnam incitando il dittatore anticomunista Ngo Dinh Diem a tener duro contro i terroristi vietcong, salvo poi mandarlo a gambe all’aria quando quello, convinto di aver finalmente trovato l’appoggio della grande potenza, si mise a fare sul serio. E si sa che gli americani i dittatori li vogliono buoni e pii (vedi la fine dei colonnelli greci e dello scia di Persia)
Così gli era sembrato poco “democratico” inviare l’aviazione a Cuba , il 17 aprile 1961 in appoggio a quei mille disgraziati che erano sbarcati nella “Baia dei porci”, perciò stesso mandati al massacro con la sua sorridente benedizione. Certo, durante gli anni di Kennedy, come ha scritto uno dei suoi agiografi, e suo ex collaboratore, Richard Goodwin, «La vita era intellettualmente eccitante». E difatti il virus della contestazione poté liberamente dilagare dalle università californiane a tutti gli Stati Uniti e, da qui, diffondersi all’Europa.
Quanto all’Italia, le “teste d’uovo” di Jfk, le famose “tre S” (Sorensen, Salinger, Schlesinger), decisero che sarebbe stato «intellettualmente eccitante» aprire la “stanza dei bottoni” ai socialisti o regalarci il centro-sinistra. Le cui conseguenze scontiamo ancora adesso.