di Stefano Magni
Più si avvicina l’11 settembre, più si parla di Augusto Pinochet. L’ex dittatore cileno, morto nel 2006, prese il potere con un colpo di Stato militare l’11 settembre 1973. La cifra tonda dell’anniversario, il quarantesimo, e l’emozione che il golpe cileno suscita tuttora, fanno sì che questo 11 settembre sia ricordato più come la ricorrenza della dittatura cilena che non come il 12mo anniversario del grande attentato del 2001 alle Torri Gemelle e al Pentagono.
Già la Cia, anni fa, aveva rivelato il suo sostegno, finanziario e materiale, ai sindacati che si erano opposti al governo socialista di Salvador Allende. I grandi scioperi dei camionisti furono la premessa del golpe. L’ultima ammissione, invece, arriva da Henry Kissinger, allora segretario di Stato, che ha rivelato di aver avuto un ruolo attivo nel rovesciamento del governo di Allende.
È normale che si parli molto (soprattutto nei media anglosassoni) di un golpe, soprattutto all’avvicinarsi del suo anniversario. Ma l’attenzione sulla dittatura del Cile, rispetto alle altre, numerose, tirannie sudamericane, appare tuttora come una grande anomalia storica. Quello di Pinochet fu un regime sanguinario, costò la vita a circa 3000 oppositori e alla detenzione di altri 40mila in meno di 20 anni di potere.
Queste cifre, benché impressionanti, impallidiscono di fronte ai circa 15mila (17mila, secondo altre fonti) morti e 200mila prigionieri della dittatura di Cuba. La tirannia di Pinochet è storia. Quella di Fidel Castro è attualità: il suo regime è in sella dal 1959 e non molla la presa. Eppure nessuno riconosce, nella ricorrenza della presa del potere di Castro (8 gennaio 1959), una grande tragedia dell’umanità. Papa Giovanni Paolo II venne contestato duramente per aver incontrato Pinochet nel 1987. Al contrario, venne applaudito da destra e sinistra, quando strinse la mano a Fidel Castro nel 1996 e nel 1998.
In Nicaragua, fra il 1979 e il 1990, un’altra democrazia fu soppressa. Il dittatore in questione non è di destra, come Pinochet, ma di estrema sinistra: si chiama Daniel Ortega, alla testa del Fronte Sandinista. Nel corso di quegli 11 anni il suo governo uccise da 4mila ai 7mila cittadini (a seconda delle stime). Il regime di Ortega si macchiò anche di un tentativo di genocidio, ai danni delle popolazioni indios della costa atlantica. Una drammatica testimonianza dei Miskitos perseguitati fu portata al Meeting di Rimini del 1984 e resta un esempio più unico che raro di sensibilità nei confronti di quell’eccidio.
A soli 23 anni dalla fine della dittatura in Nicaragua, non solo questa non viene ricordata come una grande tragedia dell’umanità, ma Ortega stesso è tuttora presidente, eletto nel 2007. Oggi è un capo di Stato riconosciuto e stimato in tutto il mondo. Di maledetto, nella storia, c’è solo chi, negli anni’80, osò opporsi alla sua dittatura: i “contras” il cui nome storpiato dal regime (contras è la contrazione di controrivoluzionario) è diventato un’etichetta del male, tanto quanto quello di “narcos” (narcotrafficante).
Altro Paese altro autoritarismo: benché sia stato eletto per ben quattro volte, Hugo Chavez ha messo in piedi un regime che ha tutti i connotati della dittatura, dalla censura sui media alla persecuzione degli oppositori politici. I suoi risultati, umani e materiali, sono un disastro. Eppure, alla sua morte, c’era anche chi, in Italia, apriva il suo quotidiano col titolo “Italia? Ci vorrebbe un Chavez”. Provate ad immaginare cosa sarebbe successo al direttore che avesse titolato “Italia? Ci vorrebbe un Pinochet”. Come minimo sarebbe stato denunciato per apologia di strage.
Solito doppiopesismo della sinistra, si potrebbe pensare. Ma c’è qualcos’altro che non torna. Pinochet è ricordato peggio rispetto ad altre dittature di destra del suo continente. Fino agli anni’80, infatti, la democrazia era l’eccezione e non la regola in Sud America. Gran parte delle tirannie erano militari, di destra e molto più sanguinare di quella di Pinochet. In un grande Paese come il Brasile, le giunte militari provocarono dai 3mila ai 5mila morti, a seconda delle stime, dal 1964 al 1985. La dittatura dei militari argentini, caduta dopo la sconfitta nella Guerra delle Falkland, aveva già ucciso circa 20mila oppositori nel breve lasso di tempo che va dal 1976 al 1982.
Quella di Pinochet, insomma, se confrontata con le altre tirannie sudamericane, appare come quella relativamente più “moderata”. E, se non altro, è una delle poche ad essersene andata spontaneamente.
Che cosa fa sì che sia dannato Pinochet e non altri tiranni, anche più sanguinari di lui? Prima di tutto viviamo ancora in un’era dominata dalla generazione del ‘68. E il golpe cileno, nel 1973, fu vissuto dai contestatori in Italia come la prova generale di un golpe contro le sinistre europee. Il terrore che si ripetesse un colpo di Stato anche a Roma fu tale che sia i democristiani che i comunisti iniziarono, da allora, a parlare di “compromesso storico”. Il fatto che politici, direttori di giornale, ricercatori e professori di oggi siano cresciuti in quel clima, spiega come l’attenzione sul Cile sia molto più alta rispetto quella riservata a tante altre dittature. Lo spiega, ma non lo giustifica. I morti di Cuba, del Nicaragua, del Brasile e dell’Argentina (giusto per citare i Paesi più famosi) hanno meno dignità di quelli del Cile?
Un’altra possibile spiegazione è ancor più ideologica. Pinochet, che non si intendeva di economia, chiamò consiglieri americani per risanare le finanze del Paese. Gli Usa gli inviarono una squadra di economisti della scuola di Chicago, ferventi sostenitori del libero mercato. Il Cile adottò una serie di riforme, fra cui la privatizzazione delle pensioni, dei servizi e dell’industria, che furono poi alla base delle politiche economiche di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Gli storici e gli economisti di orientamento socialista odiano Pinochet soprattutto per le sue riforme liberali: paradossalmente, proprio per l’unico e limitato spiraglio di libertà del suo regime che fece del Cile una nazione prospera, in mezzo a un continente di Paesi sottosviluppati.