Testo – lievemente rivisto – della conferenza tenuta il 27 maggio alla
cena del Circolo “Amici di Cristianità” di Ferrara
di Stefano Chiappalone
“la bellezza salverà il mondo”
(F. Dostoevskij)
A prima vista occuparsi di bellezza – a maggior ragione per chi si dedica all’azione e in specie all’azione contro-rivoluzionaria – potrebbe sembrare un lusso cui dedicarsi quando va tutto bene, o almeno quando siano risolti i problemi “grandi” -ma forse soltanto maggiormente visibili: i problemi istituzionali, politici, bioetici ecc. con cui siamo soliti confrontarci.
In realtà non ne parliamo perché “va tutto bene” e quindi siamo liberi di dedicarci a questioni “decorative”, ma, al contrario, – senza per questo cedere a sterili disfattismi – proprio perché “va tutto male” e la bellezza rimane l’ultimo “coagulo” su cui far leva in un mondo ormai indifferente alla verità e al bene.
Mi spiego: è sempre più difficile parlare al nostro prossimo di questa o quella verità, anche perché preliminarmente egli esclude la stessa nozione di verità; la stessa cosa vale per il bene, e così via: in tutte le singole questioni che ci troviamo ad affrontare, nella migliore delle ipotesi ci troviamo di fronte ad un rifiuto argomentato, più comunemente di fronte alla sagra della libera opinione (“questo è vero per te ma non per me”).
Nella palude del relativismo è sempre più difficile trovare “coaguli” di vero e di bene a partire dai quali “piantare palafitte” (Gonzague de Reynold) o ricostruire un “cosmo semantico” (Benedetto XVI) per provare almeno a parlare la stessa lingua dell’interlocutore. Qualche tempo fa, ad esempio, anche il più progressista, aperto a tutte le idee più rivoluzionarie, difficilmente avrebbe accettato il matrimonio tra omosessuali. Adesso è venuto meno persino quest’ultimo “baluardo dell’Occidente”.
La bellezza sembra resistere un po’ di più alla crescente “coriandolizzazione” di un mondo in cui ciascuno è Chiesa a se stesso: nessuno è più d’accordo su nulla, ma sono tutti concordi almeno nel riconoscere che l’attrice Monica Bellucci è oggettivamente bella. L’esempio è banale, ma serve a rendere chiaro che la bellezza è l’ultimo residuo di verità oggettiva riconosciuta. Forse perché argomentazione scaccia argomentazione così come chiodo scaccia chiodo, mentre la bellezza (concreta: di una donna, di un paesaggio) è un fatto e contra factum non valet argumentum.
Bellezza e stupore: la scintilla dell’eternità
Perché la bellezza disarma? Perché comunica, come qualsiasi altro linguaggio, ma lo fa in maniera im-mediata; non per analogia, ma per esperienza diretta. La bellezza è auto evidente: “il corpo bello o il viso bello ispirano in noi una sorta di reverenza, nonché compiacimento per il mondo che contiene tale realtà meravigliosa” (Roger Scruton). Inoltre essa non è riducibile alla somma degli elementi materiali. Nessuno ammira una cattedrale per le proprietà chimico-fisiche dei suoi marmi, né per il peso delle sue colonne, come nessuno ammira la Bellucci per l’insieme delle sue ossa e dei suoi muscoli e delle sue cellule.
Di fronte a qualcosa di bello restiamo colpiti – stupiti – per qualcosa “di più”, che fuoriesce dalla semplice somma degli elementi che la compongono: gli stessi mattoni possono fare un garage o una cattedrale, poiché la differenza non risiede nei mattoni, o nelle cellule o negli elementi materiali, ma in Qualcosa che li trascende e che rinvia direttamente al loro Creatore.
La bellezza è la “miccia” che “accende” tutti questi elementi, è la scintilla dell’eternità. Essa è un promemoria, un anticipo di quella bellezza celeste che è la meta finale del nostro viaggio terreno.
La via pulchritudinis: la via per tornare a casa
Di conseguenza, fermarsi a contemplare le cose belle, compiere il salto dalle cose visibili a quelle invisibili, significa ritrovare la strada di casa. Per questo motivo Nicolás Gómez Dávila dice che “rifiutare di stupirsi è il contrassegno della bestia”, perché lo stupore è proprio la capacità di vedere quel “di più” nelle cose, la “porta regale” tra il mondo visibile e l’infinito mondo invisibile che ci circonda, tra la monotonia e le fatiche del quotidiano e l’allegria di cherubini e serafini che ci attendono. Chi vi passa davanti e non vi entra ha perso la strada di casa…
Tuttavia proprio nei tempi più difficili la sete di bellezza si fa più ardente, alla ricerca di una via d’uscita da questo “gulag mentale” in cui ci siamo rinchiusi, condannati al dominio dell’utile e dell’assurdo. Roger Scruton dice infatti che “la bellezza è il volto dell’amore che risplende nella desolazione”. Il Pontificio Consiglio per la Cultura propone agli uomini del nostro tempo la via pulchritudinis come percorso privilegiato per tornare a casa – o almeno per affacciarci fuori dal gulag e intravedere che il mondo esterno esiste e che abbiamo ancora una casa in cui ritornare – e ci indica tre sentieri attraverso i quali percorrerla:
1- La bellezza della Creazione: è l’ambiente creato da Dio, uno specchio in cui Egli si riflette direttamente. Infatti, un paesaggio bucolico, la montagna, ecc. in generale la natura riesce ad elevare persino l’anima di chi non ammette l’esistenza dell’anima! Una scampagnata per definizione si fa in campagna, magari in riva al lago, ma assolutamente non in un garage o in una periferia. Perché? È talmente auto evidente che possiamo anche chiudere il discorso qui…
2- La bellezza dell’arte e, in genere, di quanto è prodotto (“sub-creato”, direbbe J.R.R. Tolkien) dall’uomo, che ad imitazione del suo Creatore ricerca la scintilla dell’eterno anche nelle proprie opere. Pensiamo alle cattedrali, alle grandi opere d’arte, ma pensiamo anche alla vita quotidiana. Sempre Scruton descrive lo spettacolo di una madre che apparecchia la tavola per la famiglia, con una bella tovaglia candida, dei fiori freschi, delle attenzioni tipicamente familiari che non troveremo in nessuna mensa universitaria… è il modo, dice Scruton, di dare il benvenuto a coloro che amiamo.
È quell’istinto della bellezza che ha fatto realizzare nel Medioevo non solo splendide chiese e maestosi palazzi di Comuni e di re, ma un’intera società anche esteriormente caratterizzata da ordine e decoro. Lo storico belga Léo Moulin osserva che oggi noi consideriamo capolavori anche gli edifici più umili e funzionali delle abbazie e dei monasteri: il chiostro, il lavabo, la cucina, le cantine! (incomparabilmente più belli di una cattedrale postconciliare). Mettendo al primo posto l’opus Dei, il culto divino, e donando bellezza a Dio, hanno di riflesso cercato la bellezza anche per l’uomo, permettendogli di essere più uomo.
3- La bellezza della vita dei santi – a cominciare da Maria – e della liturgia in cui Cristo, “il più bello tra i figli degli uomini”, si manifesta nei misteri della Sua vita e della Sua gloria. La bellezza estetica delle cose e della creazione è un “sacramento” della bellezza eterna; tanto più lo è la bellezza di una vita buona, che è contemporaneamente una vita bella (cfr. gli inviti in tal senso di Pavel Florenskij e Giovanni Paolo II).
Anche sotto apparenze umili, dimesse, persino povere come quelle di Madre Teresa di Calcutta, nessuno mai parlerebbe di bruttezza. Al contrario, la bellezza della santità è tale in quanto manifestazione della verità e dell’amore, ed è anticipo dell’aureola celeste. Del resto essa imita – e incarna – la Bellezza eterna che si è lasciata sfigurare sulla croce prima di risorgere nella gloria.
A maggior ragione, in grado supremo, è sacramento la bellezza della liturgia: qui non siamo noi che ci affacciamo sull’infinito, ma è il paradiso stesso che scende sostanzialmente e realmente (nell’Eucaristia). Nel Tabernacolo c’è il Corpo e Sangue di Cristo, e di sicuro i suoi angeli non lo lasceranno lì da solo. Infatti, l’allora cardinale Joseph Ratzinger scriveva che nelle chiese cattoliche la liturgia è perennemente celebrata, anche al di fuori della messa. Se avessimo ancora capacità di stupirci, se i nostri sensi non fossero annebbiati post peccatum forse anche quando la chiesa è deserta, intorno al tabernacolo riusciremmo a sentire miriadi di voci angeliche che cantano incessantemente Sanctus Sanctus Sanctus…
La bellezza, la bruttezza e la Contro-Rivoluzione
“L’inferno – dice Gómez Dávila – si può vedere solo dal Paradiso”: e così, dopo aver percorso i vari sentieri della via pulchritudinis siamo ora in grado di discernere con maggiore consapevolezza anche ciò che non va. Alla bellezza non solo individuale di questo o quel santo, ma alla “bellezza sociale” di un’intera civiltà cristiana, si oppone una plurisecolare via turpitudinis che è allo stesso tempo sintomo e simbolo di quell’altrettanto plurisecolare processo di aversio a Deo, di apostasia delle società, che la scuola contro-rivoluzionaria e in specie Plinio Corrêa De Oliveira definisce Rivoluzione.
Essa ci interessa non solo nel merito, ma anche nel metodo. Quelle cattive istituzioni, generate da idee sbagliate, che siamo soliti combattere, hanno la loro prima origine nelle tendenze disordinate del cuore dell’uomo (orgoglio e sensualità, niente al di sopra, tutto al di sotto), ovvero in interiore homine. Per verificare quanto accade in ambito spirituale, per avere una radiografia dell’invisibile e cogliere la Rivoluzione sul nascere, il rapporto di una società con il bello – o con il brutto – è un’efficace cartina di tornasole.
E forse non è casuale che il nostro mondo attualmente sia divenuto un coacervo di asfalto,periferie, graffitari, grigiore e che la metropolitana di Roma sia frequentata anche da aspiranti suicidi, stanchi di vivere in un mondo complessivamente non bello e quindi percepito come non amabile – poiché nessuno ama ciò che percepisce come brutto.
Per questo non bisogna dimenticare che contemplazioni buone portano inevitabilmente alla lode e contemplazioni cattive alla bestemmia (cfr. Corrêa De Oliveira ). Tertium non datur
Seguire la via pulchritudinis ed educare noi stessi e il prossimo alla buona contemplazione – un paesaggio, un capolavoro, una bella liturgia (come gli emissari del principe di Kiev, che nel 988 dopo aver assistito alla divina liturgia a Costantinopoli non erano in grado di dire se erano stati in cielo o in terra) è dunque una via privilegiata per costruire una nuova civiltà cristiana. Le splendide città medievali che tuttora ammiriamo spesso si sottomettevano ad una sorta di patronato “politico” della Vergine Maria, ponendosi sotto la sua protezione (ad esempio, Siena era la civitas Virginis).
E Lei stessa ha promesso, a Fatima, che “alla fine il Mio Cuore immacolato trionferà”: se dunque non sappiamo concretamente come sarà la civiltà cristiana del terzo millennio, possiamo essere sicuri che sarà bellissima, proprio come Maria.