Turchia, dagli imam ai capimafia tutti i nemici dei religiosi
di Paolo Rumiz
Se vuoi un consiglio, non scrivere nemmeno che ci sono cristiani a Trebisonda”.Non potevo credere che parlassero della mia Turchia, del popolo più ospitale del mondo, la terra di Abramo, la culla dei Padri della Chiesa e del grande monachesimo rupestre fiorito tra Mesopotamia e Cappadocia. Il mondo arcano di Crisostomo e Basilio, le contrade ripetutamente traversate dall’apostolo Paolo di Tarso nella sua strada per evangelizzare l’Occidente infedele.
Invece, era proprio della Turchia che il greco parlava. Si spiegò meglio: “Guarda cosa succede a Trebisonda con i nuovi preti mandati da Occidente. Svegliano il can che dorme. Fanno magari proseliti, che qui è proibito in nome della patria. O cercano di togliere dalla strada le prostitute russe che sconfinano dalla georgia, un affare miliardario. La mafia gliela farà pagare, e gli ulema fanatici pure. Se succede qualcosa, i pochi greci rimasti a Trebisonda potrebbero andarci di mezzo”.
Cominciò così, con questo avvertimento, circostanziato al limite della profezia, il viaggio in un arcipelago di comunità cristiane spaventate, sperdute, silenziose, immobili. Armeni, siriaci, greci, qualche cattolico. Cristiani di Turchia, il paese più laico della costellazione musulmana, dove però se non sei musulmano non puoi essere un vero turco. Allora ti battezzano “gavur”, infido, e diventi quinta colonna del nemico. Scatta un’equazione che proprio qui, morto Ataturk, rilancia gli imam come custodi della patria.
L’angoscia comincia già nel Vaticano dei greci, il Palazzo del Fanar, il cuore di Istanbul, col patriarca Bartolomeo che tenta inutilmente di superare, pregando, la potente onda sonora dei muezzin da un lato all’altro del Bosforo. Con i libri dei funerali gonfi di nomi, e quelli dei battesimi, perfettamente vuoti; contabilità spietata di un popolo che fino a quarant’anni fa vantava trecentomila fedeli e oggi ne conta meno di cinquemila, in quella che fu la capitale della cristianità, Costantinopoli.
Ma per trovare il vuoto vero devi andare oltre, nella provincia profonda, dove il potere di Ankara, il laicismo di stato e l’Europa diventano cosa lontana. Appena una comunità si estingue, sbucano i geometri del comune e la chiesa vuota diventa automaticamente moschea. Ovviamente sono cose che i turisti non vedono. Quelli non si chiedono nemmeno perchè – e da quanto tempo – in Turchia tace la campana. Qualcosa cambia in meglio, da Ankara arrivano segni di apertura. Al patriarca greco è consentito di celebrare messe nelle antiche cattedrali in rovina.
A Est si organizzano visite guidate sui siti della memoria armena, finora ostinatamente negata. Lo scrittore Oran Pamuk, che delle stragi patite dagli armeni aveva parlato scatenando l’ira dei nazionalisti, è stato assolto dalle accuse di antipatriottismo. Nella zona di Tur Abdin, il monte degli adoratori, fascinoso altopiano, sopravvivono gli ultimi cristiani autoctoni dell’Anatolia, si restaurano monasteri vecchi di 1500 anni. Ma altrove la situazione è più pesante. I greci non hanno più seminari, l’ultimo è stato chiuso da anni.
Per imparare il mestiere, gli aspiranti preti espatriano ma, una volta all’estero, difficilmente tornano. E poichè qui nessuno straniero può diventare prete, i ranghi vanno rapidamente verso l’estinzione. In provincia chi si converte al Vangelo è difficile che riesce a lavorare o vendere la sua merce. Per convenienza, è meglio che frequenti la moschea anche dopo il battesimo. Tutto, altrimenti, diventa problema: il rilascio di certificati, l’acquisto di un terreno. Se una chiesa ha bisogno di riparazioni, i tempi dell’autorizzazione sono infiniti.
Il Fanar, dopo un incendio doloso, ha atteso l’OK per 46 anni. La Turchia sarà anche laica, ma – a differenza della Siria, paese-canaglia nelle graduatorie di Bush – i cristiani non riescono ad accedere alle alte cariche dello stato e a diventare ufficiali dell’esercito. A scuola l’ora di religione resta abolita, ma i libri di storia scrivono che non è vero che Cristo è morto sulla croce. Immagini a caso. Konya, la città più islamica della Turchia, con l’unica chiesa di San Paolo, isolata, riempita a intermittenza solo da turisti di passaggio, oppure desolatamente vuota.
Con Isabella e Serena, due pie donne trentine della comunità di Gesù Risorto, isolate dal mondo in pieno centro città, lì a far da guardia al loro avamposto, in mezzo a turchi che non chiedono loro nemmeno “come va”, per paura di essere definiti infedeli. “Avrei vita più facile se mi dichiarassi ateo” disse – scongiurandomi di non fare il suo nome – un giovane armeno di Diyarbakir diseredato dal padre per non aver accettato di passare all’Islam.
Aggiunse: “Qui a un cristiano basta respirare, per essere accusato di proselitismo e quindi di attività anti-turca”. E ancora: “Se in un archivio cerchi documenti, di cui magari i custodi ignorano l’esistenza, appena te ne vai le vecchie carte saranno buttate via per timore che possano dimostrare presenze greche, armene o siriane precedenti a quella dei turchi”. Ad Adana la chiesa d’è dovuta chiudere causa un disco-club messo lì accanto apposta per spaccare i timpani ai fedeli.
A Mersin un’altra chiesa è stata convertita in museo e oggi i preti della zona, per dir messa, devono montare e smontare ogni volta l’altare. A Iskerendum peggio ancora: il cimitero armeno è diventato biblioteca comunale, la chiesa melchita cinema porno. I cristiani rimasti sono così pochi che per sentirsi meno soli hanno abbattuto le barriere confessionali, con maroniti, armeni, melchiti e latini che ormai si sposano fra loro. Un ecumenismo di fatto che nasce dalla solitudine.
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