Articolo pubblicato su La Stampa del 27 maggio 2003
Ancora oggi le faglie di attrito e le soglie di crisi del nuovo secolo appartengono, e non è un caso, al territorio su cui irradiò il suo dominio l’impero multinazionale bizantino, prolungato in quello zarista e poi sovietico. Dai Balcani al Mar Nero, dal Kurdistan al Caucaso all’Asia Centrale, le ferite create dalla caduta di Costantinopoli restano aperte.
di Silvia Ronchey
I cittadini che a centinaia si erano rifugiati sotto l’immensa cupola di Santa Sofia venivano sottoposti a inaudite violenze. Le dame dell’aristocrazia erano trascinate a piedi nudi, legate tra loro con una fune al collo, riferisce Isidoro di Kiev, in harem di militari di infimo rango. I ragazzi delle migliori famiglie venivano brutalizzati e sodomizzati, alcuni uccisi.
Mehmet II aveva appena vent’anni, era un grande lettore di classici persiani, greci, latini. Vedendo il massacro, racconta lo storico turco quattrocentesco Tursun Beg, rifletté sulla caducità di ogni gloria terrena e pregò Allah. Ma quando scorse uno dei suoi soldati smantellare con l’ascia l’antico pavimento di marmo della basilica, gli fermò il braccio: «Accontentati del denaro e dei prigionieri, gli edifici della Città lasciali a me».
Poi il sultano salì silenzioso, in mistica contemplazione, sulla cupola di Santa Sofia: «Accanto alle rovine dell’Aya Sofya, alle costruzioni ridotte a giardini di pietra, neppure un vestibolo era rimasto in piedi». Dalla cima della cupola, scorgendo la città ridotta a macerie e deserto, il Conquistatore, narra Tursun Beg, meditò che il destino di ogni impero è cadere in rovina. Poi recitò i versi di un poeta persiano: «Il ragno fa da portinaio nel palazzo di Cosroe. / Il gufo suona la musica di guardia nella fortezza di Afrâsijâb».
Le macerie degli altissimi edifici di Costantinopoli contemplate da Mehmet il Conquistatore possono assumersi a simbolo visibile del primo grande scontro di civiltà fra Islam e Occidente, alla vigilia dell’evo moderno. Da quel momento la guerra dei nuovi popoli nel nome di Allah acquistò una forza d’urto senza precedenti. Se proviamo a figurarci che cosa abbia rappresentato, per il mondo di allora, la caduta di Costantinopoli del 1453, dobbiamo pensare all’effetto prodotto dalla caduta delle Twin Towers e moltiplicarlo molte volte. Bisanzio era stata la superpotenza del Medioevo.
Per secoli, la sua egemonia militare, la sua forza economica, il suo prestigio erano stati paragonabili solo a quelli degli Stati Uniti di oggi. «Il dollaro del Medioevo» viene chiamato dagli storici il solido aureo bizantino. Nel 1453, il mondo assistette incredulo al crollo non solo di una città ma di una civiltà, di un primato e di un modo di vita. Quella che Enea Silvio Piccolomini chiamò «la seconda morte di Omero e di Platone» avrebbe, profetizzò il Papa umanista, cambiato la geografia politica del globo. Aveva ragione.
Non solo il bacino del Mediterraneo, ma quello che Fernand Braudel ha chiamato il Mediterraneo Maggiore, l’area d’irradiazione dell’impero romano e della sua più che millenaria ipòstasi bizantina, dall’Asia Minore all’Egitto, dai Balcani alla Bosnia, furono islamizzati. Non solo. Lo furono da un Islam molto diverso da quello conosciuto nei lunghi secoli di convivenza bizantina con gli arabi.
Con la penetrazione dei turchi Osmanli erano entrate nel vecchio mondo una considerazione più scarsa della vita umana e un’intolleranza prima sconosciuta al grande impero multietnico. Le frontiere dell’Occidente furono percorse da un nuovo tipo di guerra, più feroce, la guerra etnica. Le popolazioni furono esposte a violenze di un genere più atroce.
Ancora oggi, nella presenza islamica al centro del Mediterraneo così come in pieno Adriatico, nelle perenni collisioni delle faglie etniche da questa generate dopo l’affermazione degli Stati nazionali, l’Occidente continua a scontare la nemesi della storia per avere perso la culla della sua stessa civiltà. «Noi l’impero bizantino l’abbiamo smembrato da vivo, proprio come prescrivono i libri di cucina quando dicono: “Il coniglio deve essere spellato vivo”! Noi abbiamo pelato viva Bisanzio», ha sintetizzato Braudel.
Furono in effetti gli intricati conflitti commerciali e finanziari del protocapitalismo occidentale, nonché i tragici errori di valutazione del papato di Roma, della repubblica di Venezia e delle altre potenze occidentali, a permettere che Mehmet II conquistasse Costantinopoli. La straordinaria cultura bizantina si trasmise agli umanisti europei e diede vita a quello che chiamiamo il Rinascimento: in realtà l’ultima della serie di rinascenze che avevano scandito il millennio di Bisanzio.
Ma l’ideologia politica e la tradizione ecclesiastica dell’impero che aveva riunito potere temporale e spirituale nella sola persona dell’imperatore si eclissarono dall’Europa dei Papi e passarono alla nascente Russia. Già dalla fine del Quattrocento si creò una sorta di cortina di ferro oltre la quale insieme all’ortodossia si perse, per cinque secoli, la memoria dello Stato in cui dai tempi di Costantino si era perpetuata l’eredità dell’impero romano.
È stato così che il modello della Seconda Roma sconfitta dai turchi ha continuato a persistere nella Terza Roma di Mosca, impoverendosi e degradandosi nell’isolamento e nel distacco dalla cultura occidentale. Chissà, magari Bisanzio non è veramente caduta nel XV secolo ma nel XX, quando, insieme al muro di Berlino, è crollato il sistema che ne aveva raccolto l’eredità, quando la «fuga da Bisanzio» auspicata da Josif Brodskij si è infine realizzata.
Quel che è certo è che il fantasma vendicativo di una Bisanzio scheletrita e dissanguata dall’esilio totalitario si aggira ancora sull’Europa e sui suoi conflitti. Ancora oggi le zone in ebollizione e incandescenza, le faglie di attrito e le soglie di crisi del nuovo secolo appartengono, e non è un caso, al territorio su cui irradiò il suo dominio l’impero multinazionale bizantino, prolungato in quello zarista e poi sovietico. Ancora oggi, dai Balcani al Mar Nero, dal Kurdistan al Caucaso all’Asia Centrale, le ferite create dalla caduta di Costantinopoli restano aperte.