Pubblicato su Il Corriere della Sera
di Luigi Accattoli e Massimo Franco
Il cardinale Ruini racconta l’elezione di Benedetto XVI e le nuove emergenze «Ecco la sfida del cristianesimo: conservare la fede nella modernità
ROMA – Joseph Ratzinger e Karol Wojtyla, lui li ha conosciuti dà vicino. Racconta di avere incontrato per la prima volta «il professor Ratzinger», teologo tedesco, nel 1970; e scommette che Benedetto XVI sarà un papa «creativo», tutt’altro che in difesa. Poi ricorda la lunga consuetudine con il polacco Giovanni Paolo II, e la preoccupazione di Wojtyla per il futuro dell’Italia.
Tocca proprio al cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei dal 1991, uno dei grandi elettori dell’ultimo Conclave, dire che «per la gente il problema del papa italiano o non italiano non esiste più». Ruini spiega il significato dell’elezione di Ratzinger. Conferma la «vicinanza» sul piano etico con il «movimento di rinascita cristiana» negli Stati Uniti.
Si dice «felice» per il «riconoscimento» che il nuovo papa rappresenta per la Germania, a 60 anni dalla seconda guerra mondiale. Ma soprattutto, incornicia fra i due pontificati stranieri la centralità intatta del cattolicesimo del nostro Paese. «La voce pubblica» della Cei, avverte, si farà sentire sempre di più. «Bisogna abituarsi», afferma Ruini in questa intervista al Corriere, la prima dopo il Conclave, «a una Chiesa, italiana e non, che parla a voce alta perché la situazione lo impone; perché è suo dovere, prima ancora che suo diritto».
Eminenza, l’elezione di Papa Benedetto XVI ha suscitato entusiasmo, ma anche polemiche legate alla sua fama di «severo» difensore della fede…
«E’ stato certamente un difensore della fede, ma con grande capacità di discernimento e di proposta. Un difensore e insieme un testimone e dunque abbiamo un Papa preparato ad affrontare nel modo migliore la sfida più profonda per il cristianesimo di oggi, che è quella di conservare la fede incarnandola nella modernità».
La Germania sembra vivere la sorpresa dell’elezione come il segno di un suo ritorno definitivo nella comunità internazionale.
«È certo un grande riconoscimento per la Germania, e ne sono felice per questa nazione che tanto ha contribuito alla cultura e alla civiltà europee. Benedetto XVI è il segno che i postumi della seconda guerra mondiale sono davvero alle nostre spalle. Nutro poi una speranza: la Germania oggi è uno dei luoghi decisivi per la sfida che la fede cristiana deve affrontare, e può essere provvidenziale che il Papa venga da lì e sia dunque particolarmente idoneo a testimoniare la fede in quel contesto umano e culturale».
Senza violare il giuramento, che cosa ci può dire sull’andamento del preconclave e del conclave?
«L’andamento del conclave, la sua rapidità e il suo risultato si possono meglio comprendere se si tiene conto del periodo precedente: dalla malattia del Papa alla sua morte, alla commozione che le ha accompagnate. Un tempo di grazia, da cui è venuta una grande carica spirituale che ha guidato il nostro lavoro».
Ricorda la prima volta che incontrò Joseph Ratzinger?
«Credo fosse il 1970. Insegnavo teologia, avevo letto “Introduzione al cristianesimo” e “Il nuovo popolo di Dio”. Invitai il professor Ratzinger a Reggio Emilia a tenere una lezione in seminario e un incontro cittadino. Ricordo pure che lo accompagnai a Canossa, che visitò con interesse».
Che impressione le fece?
«Un uomo di grande profondità, forza intellettuale, sollecitudine per la fede e per la Chiesa. Gli rivolsero molte domande a cui rispose con puntualità e franchezza. Lo rividi parecchi anni dopo a Roma, quando diventai segretario della Cei».
Lei nel 1980 scrisse un articolo per «il Mulino» sulla nuova teologia politica tedesca di Moltmann e Metz: l’incontro fra tradizione cristiana e mondo moderno. E’ stato un punto di incontro con Ratzinger?
«Ciò che scrivevo allora non si discostava da quello che pensava il teologo Ratzinger. Alcune idee mi venivano dal suo libretto “L’unità delle nazioni”. Più in generale mi sono sempre trovato in spontanea sintonia con la linea da lui affermata, che è quella di partire dal Concilio Vaticano II, prendendolo però nella continuità della tradizione della Chiesa e non come rottura, per muovere da li verso il mare aperto della cultura contemporanea».
Lei ha conosciuto bene Giovanni Paolo II e conosce Benedetto XVI da anni. In che cosa si somigliano e in cosa sono diversi?
«Li accomuna l’adesione a Cristo e la visione di fondo del mondo contemporaneo. Poi ci sono i carismi e le storie personali che sono diversi. Ma deve fare riflettere il fatto che storie così diverse possano pienamente incontrarsi».
Papa Wojtyla veniva da esperienze di vita piuttosto rare…
«E’ vero. Era diventato sacerdote da adulto, aveva visto la guerra, lavorato in fabbrica, fatto la resistenza culturale clandestina, vissuto sotto un regime comunista. Veniva da lontano, mentre Papa Ratzinger ha una biografia più classica».
Lei come la sintetizzerebbe?
«Benedetto XVI ha vissuto tre grandi esperienze. Fino ai cinquant’anni ha studiato e insegnato. Poi, per quattro anni, ha guidato la grande diocesi di Monaco di Baviera. Infine è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II, per 23 anni, che gli hanno dato una conoscenza completa delle tematiche mondiali della Chiesa».
Tranne che per due cardinali, è stato per tutti il primo Conclave: anche per lei. In qualche momento non ha avuto l’impressione che fosse un consesso inesperto, spinto a far presto perché aveva addosso gli occhi del mondo?
«Noi abbiamo il dovere del totale segreto sul Conclave. Dunque preferirei non rispondere a questa domanda. Aggiungo solo che non c’è stata nessuna esigenza di fare presto per motivi estrinseci. È stato importante, piuttosto, il legame fra la malattia di Giovanni Paolo II, il preconclave e il Conclave, come già dicevo».
Una tesi sostiene che Benedetto XVI sarà un Papa di transizione. La condivide?
«Mi sentirei di escluderlo, se con questo si intende che non lascerà grandi tracce. Credo invece che lascerà un segno profondo. Da quanto ha detto, si capisce quanto senta la missione della Chiesa e quanto sia determinato a promuoverla fino in fondo».
L’ha sorpresa la presenza di George Bush e di due ex presidenti statunitensi ai funerali di Papa Wojtyla?
«No, nessuna sorpresa, mi sembrava naturale. Piuttosto, mi ha colpito la coralità della presenza ai funerali: soprattutto la compresenza di gente umile e potenti, nella stessa piazza, partecipando della stessa emozione».
E’ stato scritto che Benedetto XVI è l’alleato dei neoconservatori Usa e di Bush. Al di là della forzatura polemica, ritiene che ci sia un fondo di verità?
«L’elemento significativo mi sembra soprattutto questo: esiste nel mondo, e in particolare egli Stati Uniti, un movimento di rinascita cristiana che va al di là delle frontiere delle Chiese, e che sottolinea un afflato cristiano del quale non si può non tenere conto. E’ un affiato che punta a testimoniare e proporre la fede in Cristo e la visione cristiana dell’uomo. Solo in questo senso, pur con tutte le differenze che esistono, si può parlare di una vicinanza».
Nel suo libro «Nuovi segni dei tempi», lei ha scritto che sta finendo il predominio dei popoli europei e dell’America del Nord; e che questo può significare il ridimensionamento del cristianesimo. Papa Ratzinger può fermarlo, o solo assecondarlo e arginarlo?
«Non credo che un Papa possa o voglia giocare un ruolo geopolitico fra Stati. Ma può certo indirizzare il potenziale religioso e culturale della Chiesa per mantenere e rilanciare il ruolo storico del cristianesimo, anche in un contesto mutato. Gli strumenti sono quelli della missione, dell’ecumenismo, del dialogo fra le religioni per la promozione della pace. La Chiesa non conosce frontiere: per questo chiede la libertà religiosa sempre, in ogni contesto. Storicamente, negli ultimi secoli il ruolo della missione si è svolto presso i popoli di Paesi in via di sviluppo; oggi deve rivolgersi anche a grandi nazioni che stanno entrando in una fase di accelerato sviluppo».
A chi si riferisce?
«Ad esempio alla Cina e all’India. Non si può pensare che, avendo questi Paesi una matrice culturale prevalentemente diversa, con loro il cristianesimo possa avere solo rapporti per così dire “dall’esterno”. Senza farsi illusioni, credo che occorra avere nei loro confronti quell’inquietudine missionaria di cui ha parlato il nuovo Papa».
Benedetto XVI teme la «dittatura del relativismo». Quali sono i Paesi europei dove lei la vede più incombente?
«Credo sia incombente in tutti. C’è uno Zeitgeist, uno spirito del tempo che soffia in quella direzione e investe anche l’Italia, dove forse, però, la Chiesa ha più capacità di risposta. Altrove questa capacità sembra minore».
Quali conseguenze può avere sull’Italia un secondo Papa non italiano?
«Per la gente il problema del Papa italiano o non italiano non esiste più. Vedo una continuità affettiva tra il modo in cui gli italiani hanno amato Giovanni Paolo II e il sentimento con cui la gente è accorsa a San Pietro per l’elezione di Benedetto XVI o lunedì sera affollava San Paolo. Va detto poi che Papa Ratzinger è in Italia dal 1981, e ha avuto una grande presenza nella Chiesa e nella realtà culturale italiana».
Dal cambiamento del Pontificato può venire qualche novità nel rapporto fra Santa Sede e Chiesa italiana?
«Non posso fare né previsioni né anticipazioni su ciò che farà il Papa. Ma posso dire che il rapporto dei vescovi italiani con il Papa è sempre stato speciale, caratterizzato da profonda adesione e affettuosa vicinanza. Tale sarà anche il nostro legame con il nuovo Pontefice».
Che cosa stava più a cuore dell’Italia a Giovanni Paolo II?
«II ruolo dell’Italia in Europa, in riferimento all’identità cristiana. Ci diceva sempre: “Sappiate che la Chiesa nel mondo guarda all’Italia, avete una grande responsabilità”.. La Chiesa italiana è un punto di riferimento e una fonte di ispirazione, e di ciò deve avere sempre coscienza: anche perché abbiamo le risorse per non subire passivamente il processo di scristianizzazione».
Quali risorse? Le può elencare?
«Intanto, una Chiesa radicata nel popolo, a partire dalle parrocchie. Poi, una Chiesa unita e serena, senza divisioni di rilievo. E una popolazione nella quale la preghiera e la pratica religiosa sono ancora diffusamente presenti: siamo ai primi posti in Europa, pur soffrendo problemi comuni ad altri Paesi come la crisi delle vocazioni, che in Italia comunque è un po’ meno pesante. La quarta risorsa è la voce pubblica della Chiesa italiana, una voce importante …».
Anche troppo, a detta di qualcuno.
A volte sono sorpreso io stesso dall’eco che le nostre prese di posizione provocano sui giornali. Credo anche, però, che la voce della Chiesa dovrà essere sempre più percepibile, a mano a mano che vengono in questione i fondamentali della nostra cultura, dell’antropologia e dell’etica. Nell’attuale cambiamento epocale la Chiesa, per non rassegnarsi all’irrilevanza, deve farsi sentire e capire».
Vuol dire che non è una tendenza legata alla figura di singole personalità, ma al ruolo della Chiesa?
«Esatto. Bisogna abituarsi a una Chiesa, italiana e non, che parla a voce alta perché la situazione lo impone; perché è suo dovere, prima ancora che suo diritto»
Giovanni Paolo II era preoccupato per le «sorti civili» dell’Italia. Che cosa temeva?
«Era sorpreso dalla rapidità dei cambiamenti avvenuti all’inizio degli Anni Novanta. Temeva che andasse smarrito qualcosa dell’identità dell’Italia, che si disperdessero energie che invece riteneva essenziali. Era preoccupato anche che alcune inchieste giudiziarie avessero come conseguenza una lettura unilaterale della storia italiana, e sbilanciassero l’equilibrio fra i poteri: basta leggere la sua lettera ai vescovi italiani del 6 gennaio 1994».
E Benedetto XVI? Del cardinale Ratzinger sembra di sapere già tutto…
«E’ vero che sappiamo molto, ma credo sia improprio limitarsi a quello che ha detto da cardinale e dedurne che cosa dirà da Papa. Quella che ha appena assunto è una responsabilità nuova e più ampia ed essa comporta anche una grazia nuova».
Molti hanno percepito l’elezione del nuovo Papa come una mossa difensiva della Chiesa cattolica…
«Gli scritti del cardinale Ratzinger non me l’hanno mai fatto vedere come una persona sulla difensiva. Non è un puro difensore della fede: ha una mente creativa, e ha fatto molto per ripensare il cristianesimo nel nostro tempo. A mio avviso, più la fede è profonda, più si può essere creativi».
Insomma, le riforme le fanno i conservatori.
«Mi permetto di usare un linguaggio diverso: fra chi conserva la fede e chi la incarna in nuovi contesti non c’è dicotomia, anzi».