Per Rassegna Stampa gennaio 2015
di Omar Ebrahime
Il Sinodo permanente (“Le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”) che la Chiesa universale sta celebrando in questo periodo (della durata complessiva di due anni in totale, tra la prima sessione, detta “Straordinaria”, dell’ottobre scorso e quella “Ordinaria”, la quattordicesima della storia della Chiesa, prevista per l’autunno di quest’anno) sta dando adito – ormai da mesi – alle riflessioni pubbliche più disparate e conflittuali, spesso provenienti peraltro da esponenti di rilievo delle stesse comunità ecclesiali.
A loro volta i mezzi di comunicazione sociale fanno a gara nel rilanciare nel modo più sensazionalistico possibile i vari dibattiti in corso, veri o verosimili che siano, con il risultato pratico di generare nei lettori – e ancora di più nei lettori credenti – confusione e dubbi a piene mani.
Sondaggi e questionari ad hoc vengono enfatizzati a seconda dell’effetto-caos che possono tendenzialmente causare nei più ingenui e più la possibilità di scandalizzare aumenta più il rilancio mass-mediatico internazionale si diffonde a macchia d’olio. Che cosa pensarne? L’impressione, confermata col passare del tempo, è che la Chiesa a livello di istituzione e in generale la comunità cristiana non siano ancora pienamente consapevoli dell’alta complessità dinamica insita nella logica della comunicazione pubblica, a partire da quella “a effetto immediato” dei social network.
In realtà, la questione in sé non è propriamente nuova ma quello che pare mancare è la reale consapevolezza della posta in palio.
In uno dei suoi ultimi discorsi, quello tenuto con i parroci e il clero di Roma il 14 febbraio 2013 Benedetto XVI, l’aveva a suo modo delineata, con riferimento speciali ai due tipi di “Concilio Vaticano II” diffusisi negli ultimi cinquant’anni nell’ambito dell’ecumene cattolica, quello reale e quello virtuale. La citazione è un po’ lunga ma vale la pena riproporla per intero: «C’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio –, ma c’era anche il Concilio dei media. Era quasi un Concilio a sé, e il mondo ha percepito il Concilio tramite questi, tramite i media».
«Quindi il Concilio immediatamente efficiente arrivato al popolo, è stato quello dei media, non quello dei Padri. E mentre il Concilio dei Padri si realizzava all’interno della fede, era un Concilio della fede che cerca l’intellectus, che cerca di comprendersi e cerca di comprendere i segni di Dio in quel momento, che cerca di rispondere alla sfida di Dio in quel momento e di trovare nella Parola di Dio la parola per oggi e domani, mentre tutto il Concilio – come ho detto – si muoveva all’interno della fede, come fides quaerens intellectum, il Concilio dei giornalisti non si è realizzato, naturalmente, all’interno della fede, ma all’interno delle categorie dei media di oggi, cioè fuori dalla fede, con un’ermeneutica diversa. Era un’ermeneutica politica: per i media, il Concilio era una lotta politica, una lotta di potere tra diverse correnti nella Chiesa».
«Era ovvio che i media prendessero posizione per quella parte che a loro appariva quella più confacente con il loro mondo. C’erano quelli che cercavano la decentralizzazione della Chiesa, il potere per i Vescovi e poi, tramite la parola “Popolo di Dio”, il potere del popolo, dei laici. C’era questa triplice questione: il potere del Papa, poi trasferito al potere dei Vescovi e al potere di tutti, sovranità popolare».
«Naturalmente, per loro era questa la parte da approvare, da promulgare, da favorire. E così anche per la liturgia: non interessava la liturgia come atto della fede, ma come una cosa dove si fanno cose comprensibili, una cosa di attività della comunità, una cosa profana. E sappiamo che c’era una tendenza, che si fondava anche storicamente, a dire: La sacralità è una cosa pagana, eventualmente anche dell’Antico Testamento. Nel Nuovo vale solo che Cristo è morto fuori: cioè fuori dalle porte, cioè nel mondo profano. Sacralità quindi da terminare, profanità anche del culto: il culto non è culto, ma un atto dell’insieme, della partecipazione comune, e così anche partecipazione come attività».
«Queste traduzioni, banalizzazioni dell’idea del Concilio, sono state virulente nella prassi dell’applicazione della Riforma liturgica; esse erano nate in una visione del Concilio al di fuori della sua propria chiave, della fede. E così, anche nella questione della Scrittura: la Scrittura è un libro, storico, da trattare storicamente e nient’altro, e così via. Sappiamo come questo Concilio dei media fosse accessibile a tutti. Quindi, questo era quello dominante, più efficiente, ed ha creato tante calamità, tanti problemi, realmente tante miserie: seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata …».
Mutatis mutandis, senza rubare il mestiere ai Papi, la stessa cosa può dirsi probabilmente anche del Sinodo sulla famiglia attualmente in corso.
Leggendo ricostruzioni e cronache si ha quasi sempre (per non dire sempre) l’impressione netta che la Chiesa vi sia disegnata come un partito politico come un altro dove si confrontano e si contrastano fazioni e correnti avverse e alternative, ognuna con i suoi leader carismatici e i suoi interessi particolari di lobby. Ora, se questa fosse l’immagine veicolata dai mass-media agnostici o atei farebbe certo male ma uno se ne farebbe dopotutto una ragione e, pazienza, andrebbe avanti lo stesso.
Quello che accade invece è che sempre più spesso descrizioni caricaturali del genere si riscontrino su siti e blog di fedeli e catechisti, evangelizzatori e missionari, per non parlare delle testate che fanno uso comune dell’impegnativo aggettivo di “cattolico”. Si legge così che l’idea di quel cardinale non passerà e invece quella di quell’altro sì, che quello ha i voti che contano mentre quell’altro è isolato, infine – ovviamente – che quello è di sinistra e quell’altro di destra.
Ora, se si prendesse tutto ciò per oro colato, l’impressione che se ne ricaverebbe sarebbe più o meno (…a voler essere buoni) quella di uno sgangherato condominio avvelenato dove tutti tramano contro tutti, amministratore compreso, anzi contro di lui per primo e la battaglia è senza esclusione di colpi: della serie, vinca il migliore. In uno sfondo del genere, dove mancano solo l’assassino e il maggiordomo, chi mai oserà accostare la Catholica al corpo mistico di Cristo, la dimora dello Spirito Santo e la casa di Dio? Nessuno sano di mente, è ovvio. Solo qualche esagitato che ancora coltiva (poveretto) le fantasie più sfrenate nella sua testa.
Se vi viene da ridere fate bene, ma sarà meglio che finita la risata iniziate a preoccuparvi seriamente perché il dato di fatto che questa situazione ci consegna freddamente è che il popolo di Dio, consacrati compresi, sta perdendo sempre di più le ragioni ultime – e fondanti – della sua appartenenza e della sua vocazione nel mondo e questo è drammatico, francamente drammatico.
Prima che qualcuno la ponga, rispondiamo qui subito all’obiezione che si fa spesso in questi casi secondo cui la colpa non sarebbe (solo) dei fedeli laici ma prima ancora e soprattutto proprio della gerarchia ecclesiastica, ai massimi livelli, che talora si espone volentieri a possibili strumentalizzazioni pubbliche o magari offre il fianco affinché ciò avvenga.
Qui può anche esserci del vero, tuttavia per prima cosa bisognerebbe considerare che la Chiesa è un’organizzazione sui generis che (oltre che per la Grazia divina) si regge sostanzialmente sul primato diffuso (teorico e pratico) del principio di autorità. Il che vuol dire che indebolire scientemente il principio significa in ultima analisi danneggiare la credibilità e l’immagine della Chiesa stessa. In effetti quello che una volta avrebbe fatto gridare quantomeno allo scandalo, come il sarcasmo irriverente su un Vescovo o sul Papa stesso, oggi – proprio in seguito a questo processo – non sorprende quasi più nessuno, anche dentro la Chiesa.
Da una parte si vivono infatti ancora le conseguenze deleterie di quella rivoluzione culturale contro l’ordine e l’autorità che fu il 1968 in Occidente, dall’altra – però – si è pure accelerato il processo di de-sacralizzazione di figure, strutture e carismi all’interno della comunità gerarchica. Non bisogna farsi illusioni, i sociologi di mestiere su questo sono piuttosto unanimi: un’organizzazione che mina il principio di autorità su cui si fonda è destinata progressivamente ad autodistruggersi, non durerà alla prova della storia. Certo, sappiamo che non è questo il caso della Chiesa che non si fonda – quantomeno non “esclusivamente” – su uomini ma poggia la sua dimora ultimamente in Cielo, però è pure vero che le burrasche del mondo finiscono per abbattersi poi sul volto terreno della Sposa di Cristo. Che fare, dunque?
Per tornare al Sinodo, la cosa migliore sarebbe quella di fare ognuno seriamente il proprio mestiere, santificando la propria anima e contribuendo a santificare così anche quella del suo prossimo. Non si capisce, d’altronde, perché l’opinione qualsiasi di un giornalaio dovrebbe valere come quella di un cardinale. O perché quella del collega di lavoro dovrebbe sorpassare quella di un Padre della Chiesa: davvero in tutto questo c’è qualcosa che non va.
A tal proposito, segnaliamo che negli ultimi mesi sono stati pubblicati anche dei testi tematici da parte di vari porporati di notevole importanza che – vista la confusione in giro – hanno cercato di rimettere le cose a posto: La speranza della famiglia (Gerhard Ludwig Müller, Ares Edizioni, Milano 2014), Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica (Autori Vari, Cantagalli, Siena 2014), Il Vangelo della famiglia (Juan José Pérez-Soba – Stephan Kampowski, Cantagalli, Siena 2014, Prefazione del Cardinale George Pell).
Consigliandone senz’altro la lettura a chi fosse interessato ad approfondire determinati aspetti pastorali del Sinodo, aggiungiamo però pure che il magistero petrino in materia di famiglia e matrimonio é stato già sintetizzato egregiamente nel Catechismo della Chiesa Cattolica (cfr. in particolare la Parte Seconda, Capitolo Terzo, Articolo 7, numeri 1601-1666) e, da ultimo, in uno dei documenti capitali dell’insegnamento sociale di Papa San Giovanni Paolo II: l’esortazione apostolica Familiaris Consortio (1981).
Prima di lanciare improbabili dibattiti su cose che non si conoscono – se non per sentito dire – sarebbe quindi forse il caso di domandarsi se almeno il Catechismo e la Familiaris Consortio si sono mai sfogliate, una volta nella vita. Così, giusto per sapere di che cosa stiamo parlando esattamente. Fatto ciò, resterebbe poi da affrontare cattolicamente il problema del rapporto tra l’annuncio del Vangelo e le mille insidie della comunicazione pubblica che accennavamo all’inizio con la citazione ratzingeriana e che – a nostro modesto avviso – resta il vero nodo centrale di tutta la questione: la società dei mass-media e ancora più quella di internet 2.0 pongono oggi obiettivamente la Chiesa in una situazione di continuo esame davanti al mondo e alle sue mode culturali.
La rapidità dei processi d’informazione globali è ormai semplicemente irrefrenabile, no limits, come per l’appunto si dice in gergo, e l’impressione è che un approccio ragionato alle nuove sfide comunicative sia ancora tutto da costruire. Un esempio fra i tanti che si potrebbero citare: l’evangelizzazione – di per sé – presuppone una logica e un ascolto contemplativi. La verità di Cristo non può essere, per quanti sforzi si facciano, ridotta a slogan di poche parole come negli spot pubblicitari. Questa attitudine all’ascolto contemplativo, però, nel villaggio globale si va perdendo sempre di più.
Anzi, la fatica di ragionare e l’apprezzamento di un pensiero sistematico in sé sono cose che – soprattutto tra giovani e giovanissimi – vanno semplicemente scomparendo. Nello stesso dibattito su alcuni temi in discussione al Sinodo, le rivendicazioni emotive o sentimentalistiche dei demolitori della verità cristiana sono più immediatamente comprensibili della verità stessa a livello di “pancia” popolare.
Come ha detto qualcuno, per giustificare oggi pubblicamente un concubinato basta forse dire «ma se si amano veramente che male c’è?» mentre per confutarne le giustificazioni stesse bisogna fare riferimento almeno alla legge naturale, poi all’antropologia culturale, quindi a fondamenti di diritto, senza parlare dei passaggi testuali evangelici o biblici. Ci potrebbe volere insomma un buon quarto d’ora per esprimersi correttamente, e forse anche di più. Nel frattempo gli ascoltatori con tutta probabilità se ne saranno già andati da un pezzo, o – televisivamente – avranno cambiato canale, come accadde un tempo a San Paolo all’aeropago: su questo ti ascolteremo un’altra volta. Cioè, apertis verbis, mai.
Ecco, ci pare che tutto questo, dentro e fuori le comunità cristiane dovrebbe essere oggetto finalmente di seria riflessione perché dalle risposte a questa sfida dipenderà molto del successo e della credibilità dei cattolici nell’immediato futuro. Nel frattempo, a chi vi chiede che cosa succederà al Sinodo su questo o quell’altro tema rispondete cristianamente con un deciso invito alla preghiera. Senza scherzare. L’ha detto il Maestro: le battaglie più difficili della vita si possono vincere solo con il digiuno e la preghiera (cfr. Mt 17,21). Tutto il resto é, mai come oggi, pura (e inutile) chiacchiera