La Verità, 28 luglio 2017
di Luigi Negri
(Arcivescovo emerito di Ferrara e Comacchio)
Il cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo emerito di Bologna, qualche mese fa ha introdotto nel dibattito ecclesiale una preoccupazione e un tema cui si connettono queste brevi note. Egli ha parlato della possibilità di una mutazione del genoma del cattolicesimo, che avviene quasi senza colpo ferire e nella sostanziale mancanza di «cura» di troppa parte del mondo cattolico.
In questo senso vorrei riprendere un tema ormai largamente diffuso: l’omoeresia.
Il problema dell’omosessualità non è impostato a partire dai contenuti che essa propugna, ma soltanto dalle modalità con cui viene vissuta. In troppo mondo cattolico l’omosessualità è un dato di partenza su cui non si formula un giudizio, o forse, più profondamente, si confonde il giudizio di fatto – l’estensione del fenomeno – con il giudizio sul valore. Come dire: l’omosessualità c’è, è diffusa, perciò anche per noi cattolici deve andare bene.
In questa linea anche illustri ecclesiastici sono intervenuti su avvenimenti non discutibili, come fatti, ma cui si attribuisce il carattere di valore. In ambito cattolico matrimoni omosessuali, seguiti da celebrazioni eucaristiche, nel corso delle quali i «coniugi» (si fa per dire) hanno potuto accostarsi alla comunione, come cosa normalissima.
Quando un fatto, anche imponente nella sua diffusione, viene riconosciuto acriticamente come valore, si afferma sostanzialmente che non c’è più differenza fra bene e male e l’unico problema, per la Chiesa, diventa quello di un «accompagnamento». Non si pratica un giudizio per accompagnare, in modo autentico, ma ci si limita a un accompagnamento senza giudizio, che lascia gli omosessuali nella loro condizione, in qualche modo rafforzandone la percezione valoriale.
Chi afferma ancora, infatti, il dato indiscutibile, per la tradizione e il magistero ecclesiale, che l’omosessualità è una condizione di grave disordine e scorrettezza, teorica e morale? È a partire da questa consapevolezza, invece, che si deve assumere la responsabilità di aiutare coloro che vivono questa situazione obiettivamente errata, a prenderne coscienza e a maturarne un superamento, perché la verità della loro esistenza sia all’altezza della loro piena dignità e libertà.
Una corrente di pensiero, sempre più diffusa nell’ecclesiasticità, invece, sembra darsi come compito esclusivo l’aiuto, a coloro che vivono questa situazione, a viverla come sostanzialmente positiva. Sembra, pertanto, che la Chiesa non abbia più la responsabilità fondamentale di aiutare gli omosessuali a camminare verso un superamento della loro situazione di partenza per la ripresa, o il primo incontro, con la vita nuova, buona e vera, cui Gesù Cristo introduce tutti coloro che credono in lui.
La Chiesa sembra non desiderare più di aiutare gli omosessuali a cambiare vita e a incominciare il lungo e doloroso cammino per assumere una condizione di vita in sintonia con l’antropologia che nasce dalla fede e si esprime nella carità. Mi chiedo, qualche volta, se la Chiesa non riduca la sua azione educativa ad aiutare la condizione di partenza, l’omosessualità, in modo che sia una situazione adeguatamente vissuta, senza nessuna criticità.
Mi sorprendo a riflettere sulla grande testimonianza di fede e di carità che monsignor Luigi Giovanili Giussani dette a tutti noi, suoi amici, per l’amicizia e l’affezione che nutrì per anni per Giovanni Testori. Questi era considerato universalmente un’espressione di un’omosessualità teorizzata e praticata, punto di riferimento per i gruppi omosessuali lombardi che, a cavallo degli anni Ottanta del Novecento, andavano costituendosi in forma di movimento.
Testori non si sentì mai dire, da don Giussani, che l’omosessualità era una condizione corretta, ma fu aiutato a superare, attraverso un inevitabile sacrificio, sostenuto fraternamente, grazie a un giudizio critico, e non in assenza di esso, a superare la sua condizione, per tornare ad assumere l’antropologia e l’etica della fede e della carità. Testori visse gli ultimi anni aderendo alla morale cattolica e dando anche pubblicamente testimonianza di una vita casta, consapevole dei propri errori passati e presenti, ma ai quali non guardava più con la presunzione di una posizione corretta e indiscutibile.
La Chiesa è chiamata ad accompagnare i nostri fratelli uomini, a partire dalle situazioni più diverse in cui vivono, talvolta negative, a incontrare la forza e la novità della fede, che cambia il cuore dell’uomo e lo restituisce alla grandezza e al sacrificio di un cammino, magari doloroso, ma sempre vero. Se la Chiesa non giudica le situazioni di vita, in cui gli uomini sono talora costretti a vivere per l’arroganza del pensiero unico dominante, che ormai ha equiparato, di diritto e di fatto, l’omosessualità all’eterosessualità – la Chiesa si riduce ad essere una pura «terapia di sostegno» che, con modi garbati e talora sofisticati, in realtà abbandona l’uomo a vivere il suo male, come se fosse bene.
Questo processo, solo apparentemente caritatevole, oltre a essere un’evidente offesa alla dignità e alla responsabilità dell’uomo, è anche un’imperdonabile offesa a Dio e ai suoi diritti, cioè al bene profondo dell’uomo. Su quest’atteggiamento verso l’omoeresia si gioca molto della verità della Chiesa di fronte all’uomo, ma si gioca anche molto del destino dell’uomo di fronte a se stesso e alla realtà.
Questo dibattito, cui abbiamo dato un contributo, ripropone l’attualità di un punto grandissimo del magistero del Vaticano II e di Paolo VI: la Chiesa è ancora «sommamente esperta di umanità»?