«Apsa e Propaganda Fide sono tra i primi contribuenti di Roma. Si ignora non solo la realtà ecclesiale, ma anche quella sociale e civile. E anche le esenzioni riconosciute non sono privilegi, sono risorse che tornano moltiplicate allo Stato». Il giurista Giuseppe Dalla Torre spiega che cosa prevedono le leggi italiane e che cosa paga davvero la Chiesa
di Redazione
«Il problema di fondo è che si ignora non solo la realtà ecclesiale, ma anche quella sociale e civile» afferma in un’intervista al Corriere della Sera Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale dello Stato del Vaticano. «Le esenzioni riconosciute alla Chiesa come in genere al “no profit” sono risorse che ritornano moltiplicate allo Stato e alla società. Non sono privilegi.
Dagli oratori alle mense dei poveri alle iniziative antiusura, c’è un pezzo importante di welfare fatto di attività assistenziali e sociali di cui forse non si è consapevoli. Sarà che non è nello stile cristiano battere la grancassa. Ma il mondo cattolico è chiamato su questo a un impegno più forte. La carità ha creato l’identità italiana prima che ci fosse lo Stato».
Secondo il giurista è importante fare le dovute distinzioni. Lo Stato Città del Vaticano e la Santa Sede «pagano l’Ici, altroché, per i loro immobili in territorio italiano. Ci sono invece zone extraterritoriali, stabilite dagli articoli 13, 14, 15 e 16 del Trattato del Laterano. Ma sono poco cosa, rispetto alle proprietà. Il grosso paga: è soggetto al normale regime fiscale italiano, Ici compresa. Apsa e Propaganda Fide sono tra i primi se non i primi contribuenti di Roma».
Per quanto riguarda, invece, le proprietà della Chiesa in giro per l’Italia, «pagano le attività commerciali e tutte le proprietà che non svolgono attività sociali, assistenziali o culturali: esenzioni che valgono per tutto il no profit. Come le esenzioni per edifici di culto valgono per tutti i culti. Del resto è interesse dello Stato». Ma se è così, da dove vengono fuori le polemiche che impazzano in questi giorni? Risponde Dalla Torre secco: «Spesso nelle polemiche c’è anche un residuo di mentalità statalistica, oltre che qualche dose di faziosità».